sabato 10 dicembre 2011

La scuola di Calamandrei e il "Diario di un maestro"

Nel pluricitato discorso pronunciato al III congresso dell’Associazione a Difesa della Scuola Nazionale (Roma l’11 febbraio 1950), Piero Calamandrei definisce la scuola "organo centrale della democrazia" e "complemento necessario del suffragio universale" in quanto è grazie ad una scuola pubblica forte che si attua quel meraviglioso articolo 34 della nostra Costituzione e che ogni classe, ogni categoria può avere la possibilità di "liberare verso l'alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società."
L'idea di una scuola come strumento di emancipazione anche per chi ha la sfortuna di nascere in un ambiente di povertà e di degrado è al centro di "Diario di un maestro", una splendida miniserie televisiva del 1973, scritta e diretta dal recentemente scomparso Vittorio De Seta e rivedibile su Rai.TV.
Bruno d'Angelo (un bel Bruno Cirino dallo sguardo perennemente malinconico) è un giovane maestro a cui viene affidata una quinta elementare composta di ragazzi delle borgate romane (la storia è tratta dalla reale esperienza raccontata nel libro "Un anno a Pietralata"). Il maestro segnala subito alla vicedirettrice che metà della sua classe non frequenta:
"E con questo?" gli chiede la donna.
"Ma hanno meno di quattordici anni!"
"Noi abbiamo fatto il nostro dovere. Cosa dovevamo fare? Portarceli con la forza? Non spetta a noi. La sua è una classe di risulta, di scarti, è chiaro? Abbiamo dovuto alleggerire le altre classi. Lei faccia quello che può. Già sono difficili quelli che vengono."
L'insegnante non si arrende e, con la sua camicia candida, la cravatta e gli occhiali da sole, visita le baraccopoli polverose e le modeste case popolari cercando di conoscere, con atteggiamento umile e per niente invasivo, la vita di questi ragazzi fatta di miseria, di violenza, di espedienti come il recupero dei rifiuti, e alla fine li convince tutti a frequentare. Le loro famiglie hanno un atteggiamento di imbarazzo, quasi di diffidenza: "Se riuscissi a far loro comprendere che la scuola non è soltanto un obbligo, ma qualcosa che è nell'interesse dei loro figli, sarebbe già un bel passo avanti."
Il maestro capisce presto che non ha senso fornire loro un insegnamento tradizionale perché non riuscirebbe a catturare la loro attenzione e mette in atto un metodo che a me ha ricordato tanto quello di Don Milani a Barbiana. Via la cattedra, i banchi uniti da delle tavole per lavorare in gruppo, la pedana trasformata in libreria e soprattutto partire dalle esperienze concrete degli alunni.
Così uno studio sulle lucertole, che essi sono soliti catturare e torturare, diventa una ricerca di scienze, l'episodio di un furto d'auto ad opera di uno dei ragazzini diventa una riflessione sulle conseguenze del gesto grazie ad un giovane con precedenti che, invitato in classe, risponde alle loro domande ("Quando sono uscito dal riformatorio, ho visto che del bullo che avevo costruito erano rimaste le ceneri"), la demolizione di un edificio del quartiere è lo spunto per indagare sulla loro precaria situazione abitativa, l'istituzione di una cassa comune autogestita per le spese occasione per fare aritmetica, un'indagine presso i genitori e i nonni sui ricordi legati alla guerra crea il motivo per studiare storia come mai avrebbero potuto fare basandosi solo sui libri. E poi il maestro li fa ragionare su come si possono osservare le pitture che realizzano, sull'importanza di saper parlare correttamente italiano e non solo il dialetto, sul superamento della violenza. Insomma nel vedere questi ragazzini, arruffati e vestiti miseramente, esprimersi, lavorare insieme, interessarsi, impegnarsi, entusiasmarsi e rimanere molte ore a scuola anche il pomeriggio per finire il lavoro intrapreso, pare di assistere ad una sorta di incredibile miracolo.
Il lavoro del maestro D'Angelo però suscita inevitabilmente l'invidia, il sospetto e l'avversione dei colleghi ("Tutte queste innovazioni... Crei un precedente! Questo fatto del doposcuola. Se si deve fare, si deve fare gratis? Regaliamo allo Stato? Siamo tutti dei missionari? Non sono solo fatti tuoi! Guarda che questi te la fanno pagare" lo mette in guardia un collega) e del direttore che non capisce il suo metodo e che comunque non è disposto a mettere in discussione venticinque anni di insegnamento tradizionale.
Inevitabile lo scontro con quest'ultimo che minaccia di bocciarli tutti: "La scuola deve essere formativa", dice il direttore.
"Dobbiamo formare degli uomini liberi capaci di ragionare con la propria testa e di decidere da soli oppure degli schiavi e dei robot?" chiede Bruno D'Angelo che decide allora di andarsene perché "la vera bocciatura è al mio lavoro che Lei non può comprendere perchè non ha il coraggio di mettere in discussione i suoi principi che sono superati dalla realtà."
Quando la Rai trasmise questo sceneggiato correvano gli anni Settanta (io avevo proprio l'età dei ragazzini di questo film). Da allora tanti insegnanti della scuola pubblica, anche in contesti simili a quelli del protagonista, hanno cercato (e qualcuno cerca ancora in mezzo ad ostacoli sempre più grandi) di mettere in pratica quello che Calamandrei definiva l'articolo più importante della nostra Costituzione, il numero 34: "La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi".

1 commento:

  1. Eccezionali questi due post sulla scuola e Calamandrei.
    Speriamo che, almeno in questo campo, la situazione possa migliorare.
    Cristiana

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