lunedì 30 gennaio 2012

Il calzolaio delle dive

Ci sono storie che ti fanno pensare che, quando un essere umano è dotato dalla natura di un forte talento, non ci sono ostacoli sociali, economici, familiari che tengano. Quante attenzioni, quanti stimoli e quante opportunità potrà aver ricevuto un bambino nato undicesimo di quattordici figli di contadini della provincia di Avellino alla fine dell'Ottocento? Quanti "Salvatore" dai capelli neri ondulati ed il tipico aspetto mediterraneo saranno emigrati negli anni dal nostro Mezzogiorno verso gli Stati Uniti?
Eppure Salvatore Ferragamo è riuscito a diventare uno degli stilisti italiani più famosi del mondo, ad affermare il suo nome e il suo marchio a livello internazionale, a registrare quasi quattrocento brevetti, a vincere nel 1947 il ‘Neiman Marcus Award’ (l'Oscar della moda), a fare tanti soldi da potersi permettere di comprare uno dei più antichi palazzi del centro di Firenze.
Questa l'impressione più forte che mi sono portata a casa dopo la visita al Museo Ferragamo, che espone a rotazione i 14.000 modelli di calzature dell'omonimo archivio.
Personalmente non condivido l'attrazione estatica di molte donne per le scarpe, ma non ho potuto fare a meno di provare ammirazione per quest'uomo sia per le sue doti creative estetiche, sia per la sua genialità nell'uso dei materiali i più innovativi (dalla pelle di dentice al nylon, dal merletto al filo da pesca, dal sughero alla rafia), sia per la sua capacità imprenditoriale che lo ha portato ad inserirsi nell'industria cinematografica di Hollywood ed a captare i fermenti culturali e le abilità artigianali della Firenze degli anni Trenta.
Tra le invenzioni tecniche di colui che si è sempre definito "un calzolaio" vi è il cambrione, una staffa di acciaio che fa da anima alla calzatura e la rende stabile. Negli anni dell'autarchia e della difficoltà di reperire l'acciaio, Ferragamo escogitò la zeppa, riempiendo con sottili strati di sughero lo spazio tra il tacco e la punta e ottenendo così una calzatura ugualmente stabile ma nello stesso tempo leggera.
Storie come quella di Salvatore Ferragamo, di cui trovate tanti altri particolari sul sito del Museo o nell'autobiografia "Il calzolaio dei sogni", ci confortano e alimentano la nostra autostima di Italiani, di cui c'è tanto bisogno oggi.

venerdì 27 gennaio 2012

Occhio al burnout

"Qua la mano destra non sa cosa fa la sinistra", "Si lavora a compartimenti stagni", "I capi dicono di credere al lavoro di gruppo ma, se lo si chiede ai sottoposti, essi affermano che vige il dividi et impera" e poi ancora la classica frase "la mia vita comincia quando esco di qui".
Un po' come l'oroscopo che va bene per tutti, Alessandro Gattai, del dipartimento di Psicologia dell'Università di Firenze, cita, nell'intervista rilasciata a Controradio, queste come le frasi tipiche che fotografano la situazione del benessere lavorativo nelle aziende che egli, con il suo gruppo, ha occasione di visitare in relazione al cosiddetto "rischio da stress correlato".
Anche il mio ente si è posto il problema del benessere e del rischio da stress correlato dapprima somministrandoci (che parola singolare!) il test del Progetto Magellano (dal quale sono emerse alcune lievi criticità, ma niente di grave) e poi organizzando un seminario con una psicoterapeuta specialista in benessere lavorativo.
Il seminario è stato abbastanza interessante (molte cose le sapevo già) e mediamente stimolante. La prima cosa che ho constatato, con disappunto, è stata la scarsa adesione da parte dei miei colleghi, sintomo del clima di apatia che regna. Sull'utilità di questo tipo di offerta si può discutere (ed anch'io sono critica in questo senso) ma rifiutarla a priori non mi sembra giusto.
La psicoterapeuta mi è sembrata preparata ma non troppo coinvolgente, come se avesse imparato bene la lezione da dire, ma non ci credesse fino in fondo.
Ho imparato delle cose carine del tipo:
  • l'80% delle energie sul luogo di lavoro vengono spese per interagire con gli altri (in situazioni normali, mentre se ci sono problemi la percentuale sale);
  • le abitudini si cambiano in genere in tre settimane, mentre il temperamento (tipicamente classificabile in impulsivo e riflessivo) è stampato dentro di noi alla nascita e si può solo adattare ma non si cambia;
  • i leader naturali non sono "i capi" ma coloro a cui tutti si rivolgono perchè sanno intercettare i bisogni di ognuno e spesso anticiparli; al leader non interessa comandare o attribuire colpe, quanto cercare di capire le cause dei problemi e lavorare perché non si ripetano, egli lavora per i risultati del gruppo;
  • non si possono fare due cose insieme se una di queste è ascoltare (in quanto si attiva la corteccia frontale);
  • di ciò che il nostro cervello elabora, l'80% proviene dalla vista, il 10% dall'udito e il resto dagli altri sensi;
  • si lascia l'adolescenza e si diventa adulti quando si incomincia a prendersi cura degli altri;
  • il nostro Io più intimo non viene mai a contattto diretto con l'esterno ma è mediato dal ruolo sociale che ricopriamo in quel contesto (professionale, familiare, come figlio, come partner, come genitore, ecc.). L'Io dà attraverso il ruolo ma anche si alimenta con esso e questa ricarica è essenziale altrimenti ci prosciughiamo e non siamo più capaci di dare niente a nessuno;
  • imparare significa tollerare la frustrazione del non sapere e pertanto continuare ad impegnarsi;
  • è impossibile non comunicare se tra due persone vi è la presenza fisica. Anche il silenzio è comunicazione e significa trasmettere il messaggio "tu non esisti";
  • quando c'è contraddizione tra il livello verbale (cioè cosa si sta dicendo) e il livello non verbale (tono, volume, gesti, postura, ecc.) il cervello tende a privilegiare quest'ultimo perchè, provenendo da una parte più primitiva e istintuale, è necessario per la sopravvivenza innestare subito reazioni di difesa (aggressione o fuga).
Ai test di autovalutazione ho avuto conferma di ciò che sapevo per quanto mi riguarda: 17 su 19 elementi che mi predispongono al burnout, 7 sintomi su 11 di sindrome da burnout già in essere, media motivazione sul lavoro e preponderanza di stile comunicativo passivo. Ed eccomi sistemata.
Mi sarebbe piaciuto approfondire parlando di esempi concreti di stile comunicativo e di strategie nella soluzione di problemi. Non so quanto questi strumenti possano essere efficaci per rimuovere dinamiche ormai incrostate negli anni. Tuttavia anche solo il fatto che, a partire dall'Unione Europea, ci si ponga il problema dello stress lavorativo (anche solo come costo economico), è comunque un passo avanti verso un mondo del lavoro fatto di persone che, per dirla con Alessandro Gattai, non si limitano ad "occupare un posto" ma lo "abitano" (cioè se ne prendono cura).

lunedì 23 gennaio 2012

Alla sinistra di Rampini

Mercato come sommo regolatore che emenderà da solo i propri difetti? Federico Rampini, ospite di questa puntata de Le storie - diario italiano, ammette di fare autocritica e di prendersi la colpa di essersi innamorato di un modello di sinistra (il neolaburismo) che, per liberarsi dall'Unione Sovietica da un lato e della Cassa del Mezzogiorno (cioè dello statalismo) dall'altro, ha pensato che il mercato potesse diventare un alleato. Ammette di aver pensato che il modello californiano, fatto di battaglie per i diritti dei consumatori e per la difesa dell'ambiente, di cui oggi vede i limiti, potesse sostituire la sinistra classica tesa verso la lotta per dimininuire le diseguaglianze sociali.
Tale autocritica è contenuta nel suo ultimo libro "Alla mia sinistra" dove il giornalista ripercorre gli ultimi trenta/quarant'anni dal suo punto di osservazione di grande conoscitore sia dell'Oriente che dell'Estremo Occidente dove vive ora. Rampini indica anche alcuni esperimenti interessanti come quello del Brasile dove si è riusciti a far uscire dalla povertà venti milioni di persone con strumenti semplici ma efficaci come quello di consegnare un sussidio in mano alle madri (i padri lo avrebbe sperperato subito) con il patto che i figli vadano a scuola. Certo il Brasile ha ancora enormi problemi e non può essere un modello per noi. Tuttavia esso è l'unico esempio di crescita che ha ridotto la distanza tra i ricchi e i poveri facendoci immaginare un cambiamento possibile e dimostrandoci che non è vero che lo sviluppo deve andare per forza in direzione di società diseguali, con un'enorme concentrazione di ricchezza nell'apice della piramide.
Quello che mi è sempre piaciuto di Federico Rampini è la sua estrema chiarezza e capacità di arrivare subito al punto centrale delle questioni.
In effetti alla fine essere "di sinistra" significa "essere contro le diseguaglianze che non è solo una scelta filosofica o etica", afferma il giornalista, "ma è un fattore essenziale per aggredire la causa strutturale di questa crisi. La crisi scoppiata nel 2008 e in cui ancora navighiamo infatti è stata provocata, prima ancora che dalla finanza tossica e dalle storture e dalle malefatte dei banchieri, da un eccesso di diseguaglianza. Non ne usciremo se non riusciamo a redistribuire potere d'acquisto ad un ceto medio impoverito che non ha più prospettive."
Il declino morale invece della sinistra di questi ultimi decenni è dovuto al fatto che i suoi leader hanno importato dalla destra liberale e neoconservatrice l'idea che il denaro è la misura del talento.

venerdì 20 gennaio 2012

Sono anch'io Giovanni Tizian

Quando un mio compagno del campo di Libera, a cui ho partecipato l'estate scorsa, mi ha scritto che Giovanni Tizian, un giovane che, durante la bellissima marcia in Aspromonte, ci ha raccontato la storia di suo padre, funzionario di banca ucciso per non aver ceduto alle pressioni della 'ndrangheta, è stato messo sotto scorta a causa delle minacce ricevute, ho sobbalzato e ho ripensato subito a questo ragazzo dall'aria seria e un po' malinconica. Giovanni ci aveva raccontato che la sua famiglia, esasperata dal clima di incomprensione del loro paese, Bovalino, si era trasferita a Modena, ma non ci aveva detto che come giornalista si stava occupando di mafia al Nord pubblicando anche un libro sull'argomento.
Avrei giurato che la vicenda passasse sotto silenzio (eccetto che sui siti delle associazioni antimafia) invece ho notato con piacere lo spazio che le hanno dato importanti quotidiani, Fahrenheit Radio3 e Presa diretta di Rai3 in una bellissima puntata sulla mafia al Nord. Da quest'ultima emerge, se mai ancora ce ne sia bisogno, che le mafie ormai sono dappertutto, soprattutto la 'ndrangheta che ad oggi è la più potente e la più ricca.
Il libro di Giovanni Tizian tratta della mafia oltre la cosiddetta "linea gotica" ma anche nella civile Toscana bisogna cominciare a drizzare le antenne, come ben spiega Salvatore Calleri, presidente della Fondazione Caponnetto, intervistato a Controradio sul recente Rapporto 2011 sulle mafie in Toscana.
Salvatore Calleri, pur ammettendo che in Toscana la situazione è assai migliore di quella del Sud e del Nord, sottolinea il fatto che ci sono dei campanelli d'allarme e che la criminalità organizzata è sempre più visibile anche qui. Il rapporto, che si basa su dati forniti dalle forze dell'ordine, dalla DIA e dalla commissione parlamentare antimafia riguardanti tutte le 23 (!) organizzazioni criminali conosciute, segnala come solo negli ultimi due mesi vi sono stati casi come quello del bancario colluso arrestato a Firenze, dell'inchiesta su contraffazione nell'aretino ad opera della 'ndrangheta, della società di Massa Carrara riconducibile a Cosa Nostra di Caltanissetta, del cartello di ditte di Carini che vince appalti a Firenze, dei vari incendi e delle numerose denunce anonime di pizzo che continuano tutt'ora in zona Massa Carrara.
La crisi economica aiuta le mafie perché sono le uniche in questo periodo a disporre di liquidità consistenti, a potersi permettere di rilevare imprese in perdita o di prestare denaro a usura. Per questo Calleri invoca grande attenzione e buone barriere da parte della politica altrimenti, poiché libero mercato fa rima con mafia, "nel giro di due anni solo i disonesti potranno permettersi di pagare un affitto in centro a Firenze."
Intanto cominciamo con l'esprimere solidarietà a Giovanni Tizian.

martedì 17 gennaio 2012

Civil servant cinque anni dopo

L'altro giorno ho preso contatti con un ufficio pubblico per motivi di lavoro (non dico quale per evitare qualsiasi minima possibilità di identificazione). Al telefono mi presento come "la responsabile amministrativa" (nientedimenoché) del mio ente il quale ha una denominazione per esteso che fa ancora un po' di impressione visto che contempla ben quattro parole. Il tutto per ottenere un appuntamento da "addetti ai lavori" e non da semplice cittadina figlia di nessuno.
In realtà il "capo team" (così me l'hanno presentato) dell'ufficio pubblico in questione non si è affatto né commosso né impressionato. Mi ha dato l'appuntamento ma con l'aria di chi ha da fare di meglio.
Infatti appena arrivata mi ha indirizzato subito alla sua impiegata dicendomi: "Cominci pure con la signora O. Tra poco arrivo".
La signora O. invece mi ha fatto una buona impressione. Stava davanti al suo PC con la scrivania piena di fogli (che non sempre è sintomo di grande attività ma spesso sì), molto sorridente e paziente, mi ha indicato una procedura un po' più snella di quella standard per ottenere le pratiche di cui abbiamo bisogno. Mentre spiegava intercalava accenni di scontento del tipo: "Tanto poi, si sa, dovrò farli tutti io..."
Non mi piace chiedere favori, nemmeno per cose nelle quali non ho il minimo interesse personale. Tuttavia è facile giustificarsi in questi casi dicendo che "non abbiamo personale". Mi sono accorta allora di aver toccato il tasto dolente che ha innescato la signora O.: "Ecco, ci siamo capite! Ormai è così dappertutto nelle pubbliche amministrazioni. Parliamoci chiaro: c'è chi non fa UN BEL NIENTE, mentre il lavoro viene portato avanti sempre dai soliti, che sono sempre meno." "A chi lo dice!" ho replicato io.
Da un lato fa piacere trovare una sponda per le proprie insoddisfazioni, dall'altra però comincio a temere che queste lamentele siano, non solo noiose e inutili, ma anche "rituali". La mia è soprattutto un'autocritica che mi è venuta in mente rileggendo i post che ho scritto sulle mie frustrazioni lavorative e che riporto sotto.
Il boss non si è fatto vivo e, quando sono passata a salutarlo, gli ho posto l'unico dubbio che era rimasto in sospeso con la signora O. ma neanch'egli ha saputo darmi una risposta.

Civil servant
La frustrazione di chi fannullone non è
Non mi sento motivata
Mi hanno detto di rivolgermi a te

domenica 15 gennaio 2012

Cinque anni e non sentirli



Mannaggia, è la prima volta che passa il compleanno del mio blog senza che io me ne ricordi! Che vorrà dire? Che non gli voglio più bene o che sono semplicemente sempre più rincoglionita?
Va beh, che saranno mai quattro giorni di ritardo su CINQUE ANNI DI POST!
:-)

sabato 14 gennaio 2012

Non solo Russia

Il quadro tracciato dallo storico Andrea Graziosi nella sua intervista a Fahrenheit, sulla base del suo volume "L'Unione Sovietica 1914-1991", mostra aspetti interessanti anche perché fuori da certi stereotipi su questo grande paese.
In effetti anch'io, nella mia corposa ignoranza, ho sempre pensato all'URSS come qualcosa scaturito da una situazione di enormi miserie e ingiustizie, un tentativo con grandi limiti di creare una società egalitaria, fallita sia per la troppa rigidità, soprattutto in campo economico, sia per la sete di potere che inevitabilmente prende chi lo esercita senza i necessari contrappesi. Una società che comunque ho sempre pensato coesa, monolitica come le spalle delle nuotatrici sovietiche alle Olimpiadi.
Il professor Graziosi invece ripercorre una storia fatta di forti scosse ripetute (due guerre mondiali, una guerra civile, due carestie sterminatrici, nonché una spaventosa operazione di terrore preventivo) e di forti contrasti sociali (Lenin per esempio fu costretto nel 1921 a fare una nuova politica economica per fronteggiare le rivolte contadine) e nazionalistici (lo stato federale fu dovuto alle pressioni nazionalistiche che non consentirono di mantenere l'aggettivo russo nel nome).
L'Impero Russo, spiega Graziosi, era plurinazionale, plurilinguistico, plurireligioso, disomogeneo e al suo disgregarsi vi furono non una ma più rivoluzioni (alcuni anche vincenti, come quella finlandese che in effetti ottenne l'autonomia).
Interessante apprendere che fino alla grande carestia del 1932-33 (5-6 milioni di morti) l'Unione Sovietica è vissuta dalla maggior parte dei suoi abitanti (gran parte contadini che chiamavano la collettivizzazione delle terre "la seconda servitù") come uno stato illegittimo. Per questo Stalin alla fine degli anni Trenta mette in atto la più grande repressione. Fu la vittoria della Seconda Guerra Mondiale a "legittimare" l'URSS per molta parte della popolazione (anche se non per i Ceceni e i Baltici, che non l'accettarono mai).
Un altro stereotipo vuole l'URSS come l'altra potenza mondiale uscita vincente dalla Seconda Guerra Mondiale, in grado di competere con gli USA. Tuttavia la sfida era folle perché l'Unione Sovietica era povera e aveva un'economia di circa un sesto di quella americana. Stalin accettò la sfida perché come marxista era convinto che il capitalismo fosse destinato alla crisi e che il socialismo fosse il sistema del futuro. Tant'è vero che il miracolo economico del secondo dopoguerra fu una cosa assolutamente imprevista (e ammessa poco persino in Italia).
Dopo l'umiliazione seguita alla crisi di Cuba del 1962, i successori di Cruschov lanciarono il più grande progetto di riarmo della storia (1964-1972), riuscendoci (per ammissione dello stesso Nixon) ma portando sul lastrico una società già povera e creando un debito di stato mostruoso che le autorità non potevano né ammettere né affrontare per non rendersi impopolari.
Un gigante con i piedi di argilla che, secondo Andrea Graziosi, era retto per lo più dalle donne, dalle migliaia di vedove (vista la mortalità maschile a cause di guerre e carestia) o di donne abbandonate, alle quali spesso non rimaneva che dedicarsi all'alcool.
Una storia davvero da approfondire.

mercoledì 11 gennaio 2012

Land grabbing

Il cosiddetto "land grabbing" o "accaparramento delle terre" è un fenomeno quanto mai ingiusto e preoccupante. Per fortuna se ne sta prendendo coscienza e se ne comincia a parlare anche sulla stampa mainstream come dimostra questo recente articolo del Corriere della Sera.
Il fenomeno è spiegato bene nel bel servizio di Piero Riccardi trasmesso nella puntata di Report del 18.12.2011. Da alcuni anni i prodotti della terra come grano, riso, mais, ecc. sono entrati in borsa ed è permesso specularci. Inoltre i paesi industrializzati, in vista dell'esaurimento dei carburanti fossili, hanno individuato nei biocarburanti una possibile soluzione. Peccato che se tutte le auto degli USA dovessero andare a biocarburanti ci sarebbe bisogno di una superficie pari a 5 volte quella degli Stati Uniti. Dove trovare tanta terra a poco prezzo? Ma in Africa naturalmente!
A Fanaye, nel Nord del Senegal, la comunità rurale si sta ribellando: su 60.000 ettari di terra coltivabile ne vogliono assegnare 20.000 alle società Senhuile e Senhetanol. "Non ci guadagnamo niente", dice un contadino, "Lavoro? No, perché lo faranno le macchine. Il presidente del consiglio rurale ha firmato il contratto senza consultare la popolazione."
Il reportage dimostra che è molto facile accaparrarsi queste terre africane, non perché siano inutilizzate ma perché i diritti delle popolazioni che le coltivano non sono esigibili ufficialmente. "Come fate a dimostrare che questa è la vostra terra?" chiede il giornalista al capo del villaggio. "Perché i nostri antenati si sono stabiliti qui e noi l'abbiamo ereditata da loro."
Roberto Sensi, responsabile della Campagna per il Diritto al Cibo di ActionAid, dice che il cibo in Africa non mancherebbe ma c'è semmai un problema di accesso alle risorse. All'Africa è stata imposta la specializzazione su pochi prodotti destinati all'esportazione perdendo così la capacità di produrre cibo per i propri fabbisogni. Hanno cominciato ad importarlo dal mercato internazionale subendo così la volatilità e l'aumento dei prezzi come avvenuto durante la crisi alimentare 2007-2008. Il governo del Senegal non ha i soldi da investire nella produzione di biocarburanti ed infatti lo fanno capitali stranieri che non sono interessati certo allo sviluppo del Senegal ma solo al proprio profitto.
Greenpeace invece ha pubblicato il rapporto Metti (l'estinzione di) un tigre nel motore dove analizza la deforestazione dovuta alla produzione di olio di palma per carburanti dalle foreste indonesiane.
L'Italia non è esente dal land grabbing, come dimostra la corsa al biogas scoppiata in provincia di Cremona (come in tutta la Pianura Padana). Invece di produrre mais per polenta, lo si utilizza nelle centrali a biogas la cui energia viene pagata quattro volte il prezzo di quella da fonti convenzionali. Altro che polenta!
Il presidente della Coldiretti di Milano ci dice che in Lombardia dal 1999 al 2007 abbiamo perso 43.000 ettari di terreno coltivato, con una perdita giornaliera di 117.000 mq (7 volte la piazza del Duomo di Milano), terreno che non ci sarà più da coltivare.
Solo per raggiungere entro il 2020 l'obiettivo stabilito del 4% di carburante da fonti rinnovabili, l'Europa avrà bisogno di una superficie agricola uguale al Belgio.
Francamente non mi pare che si intravedano speranze se si tiene conto che è proprio la Banca Mondiale a spingere i paesi africani strozzati dal debito ad aderire ai piani di rientro dal debito che comportano la specializzazione delle colture, ed è proprio la Banca Mondiale attraverso l'IFC (il suo braccio finanziario) ad investire, anche in modo poco trasparente, in terre africane.
Come mai, se negli USA gli investimenti in agricoltura rendono tradizionalmente il 5/6%, in Africa, dove mancano tra l'altro le infrastrutture, rendono dal 18 al 40%? La risposta sta nelle speculazioni e sta nel fatto che le terre non costano quasi nulla ai grandi investitori: cinesi, americani, inglesi, arabosauditi, sudafricani, libici. La terra è gratis, si paga solo (poco) l'accesso all'acqua. E' come se uno andasse in Umbria e si comprasse le province di Terni e Perugia, abitanti compresi, al prezzo di un paio di tazzine di caffè all'ettaro, dice Piero Riccardi.
Terra e acqua: per la prima volta l'Africa le vede trasformate in merci e vendute, come una commodity, come l'oro e il petrolio.
Forse è l'ora di cominciare a pensarci.

domenica 8 gennaio 2012

Che roccia, la maestra!

Dinamica e paziente figlia dell'Ottocento, Angelina Merlin nacque a Venezia il 15 Ottobre 1887. Il nonno veterinario, che conosceva bene le galere austriache, chiamò le figlie Giusta, Vittoria e Italia, e vestiva bianco, rosso e verde. Lina si diplomò maestra, si trasferì a Padova e fu tra le pochissime ragazze a frequentare l'Università. "Mia cara rivoluzionaria pacefondaia sorella" le scriveva uno dei suoi fratelli che morì nella Grande Guerra.
La maestra Merlin si iscrisse al nascente Partito Socialista, fu grande attivista politica, soprattutto a favore delle donne, ma denunciò difficoltà in questo senso anche all'interno del suo partito: "Numerosi purtroppo sono i compagni che conservano i più gretti pregiudizi sulla donna e che, pur essendo prodighi di tenerezze per le donnine, diventano feroci se le loro donne mostrano interessi che non siano quelli per il cappellino, per le scarpette, per il vestito ultima moda."
Naturalmente fu presa subito di mira dai fascisti anche perché era l'unica donna a tenere comizi. Nel 1926 rifiutò di giurare fedeltà al fascismo e venne immediatamente licenziata dalla scuola. Fu poi arrestata e condannata a cinque anni di confino in Sardegna. Nella sua casa di Milano fu organizzata l'insurrezione del 25 aprile 1945.
Nel 1946 si trasferì a Roma, entrò nella direzione del Partito Socialista e venne eletta nell'Assemblea Costituente, la più anziana tra le ventun donne costituenti. E' alla sua ostinazione che si devono le parole "senza distinzione di sesso" dell'art.3.
Dal 1948, quando venne eletta Senatrice (insieme a sole altre tre donne), al 1963, quando a 76 anni lasciò la politica, lottò senza sosta per l'equiparazione tra figli naturali e legittimi, per il sostegno delle madri povere e carcerate, per la necessità di nidi e asili, per una legge che vietasse il licenziamento della donna per matrimonio o maternità, per l'accesso delle donne in magistratura, ecc.
"Il mio più vivo desiderio è che tutte le vecchie leggi, gli antiquati pregiudizi che impediscono alla donna di esprimere il meglio di sé cadano finalmente dai nostri codici e dal nostro malcostume."
La sua tempra battagliera si rivelò maggiormente nella sua battaglia contro le case chiuse: "Le case di tolleranza sotto l'egida dello Stato fanno della donna una bestia da traffico. Queste donne non possono sottrarsi all'incatenamento del mestiere. Sono schiave con il consenso della legge." La sua proposta di per l'abolizione risaliva al 1948 ma fu boicottata per ben dieci anni finché nel 1957 le donne parlamentari pretesero che fosse messa all'ordine del giorno (approvata il 20 febbraio 1958). La lotta della Merlin non si basava sul moralismo ma denunciava anzi l'ipocrisia di una certa morale imperante che voleva le prostitute schiave legali.
A 76 anni Lina Merlin si ritirò dalla politica per dedicarsi ad aiutare le prostitute nel suo centro a Milano. La vecchia roccia, stimata e molto popolare ma ostacolata anche all'interno del suo partito perché troppo intransigente, poté finalmente rilassarsi.
(Fonte: Correva l'anno, Rai3)

giovedì 5 gennaio 2012

Torna "Per un pugno di libri"!

Dopo l'annunciato addio di Neri Marcoré, silenzio generale. Il sito fermo ad aprile. Avevo fatto anche delle ricerche in rete per capire se la trasmissione fosse stata cancellata, se ci fossero state delle proteste, anche flebili. Niente.
Ed ecco che dal blog della RAI apprendo con piacere che

Domenica 8 gennaio 2012 alle 18 riparte
"Per un pugno di libri"

Una trasmissione molto carina, rilassante e istruttiva.
Sono proprio contenta.

mercoledì 4 gennaio 2012

Giovani di ieri e di oggi

Ha senso chiedersi se i giovani di oggi stiano meglio o peggio dei giovani del passato come hanno fatto fior di studiosi come Antonio Schizzerotto, Ugo Trivellato e Nicola Sartor con il saggio dal titolo "Generazioni disuguali. Le condizioni di vita dei giovani di ieri e di oggi: un confronto"?
Intervistato a Fahrenheit, il prof. Schizzerotto ammette che per quanto riguarda istruzione, reddito, disponibilità di risorse all'interno della famiglia, mobilità, transizione verso l'età adulta, posizione sul mercato del lavoro, i giovani di oggi stanno sicuramente meglio dei giovani "dell'altro ieri", cioè dei loro nonni, ma che la parabola, dopo aver raggiunto il massimo per coloro che sono nati tra la metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, ora sta cominciando a declinare. Cosa è successo dalla copertina di Time del gennaio 1967 sulla quale un gruppo di giovani era considerato "il personaggio dell'anno"? Come hanno fatto i giovani a passare da essere la speranza del futuro alla parte più vulnerabile della società?
Non c'è bisogno di leggere il libro di Schizzerotto per notare che i ragazzi che crescono oggi in un paese occidentale godono (in genere) di tutti i confort tecnologici, sono seguiti e curati, mangiano bene, i genitori fanno di tutto per non far mancare loro tutte le occasioni, viaggi, sport, hobby, libertà di movimento, esperienze, ecc. Purtroppo però essi godono del benessere che la nostra generazione è riuscita a conquistare e a guadagnare che continuerà ad erogare loro finché potrà permettersi di farlo. Il benessere dei 20-35enni di oggi cade però di fronte all'instabilità lavorativa, al rendimento della loro pur alta istruzione, all'impossibilità di comprarsi una casa o di fare figli senza l'aiuto dei genitori, alle prospettive di un welfare sempre più smantellato.
Alla fine quindi è sempre una questione di congiuntura. I nonni hanno vissuto una gioventù di fame e di guerra ma hanno avuto la possibilità di ricorstruirsi un futuro. Penso a mio suocero che è stato prigioniero in Germania, penso a mia suocera quando mi racconta quanto fosse capricciosa per il cibo fino al momento in cui ha conosciuto la fame. Poi ci siamo noi, i figli del baby-boom tirati su ad antibiotici, che abbiamo avuto la fortuna di poterci costruire il nostro benessere, il posto fisso, la casa, le vacanze. Riusciranno i ragazzi di oggi a sfidare l'attuale congiuntura sfavorevole e tornare ad essere "il personaggio dell'anno"?

lunedì 2 gennaio 2012

Bisogno di energia

Comincia un nuovo anno di lavoro, sempre meno soddisfacente, ma non ho diritto di lamentarmi perché (ancora) sono una privilegiata. Quindi ingoio e mi tengo la mia frustrazione.
Così cercando di vedere il lato positivo delle cose, mi consolerò buttando uno sguardo al tabellone che ogni giorno all'uscita mi indicherà quanta energia hanno prodotto questi benedetti pannelli fotovoltaici, installati più un anno fa' grazie ai contributi europei.
Dopo tanti mesi assolati nei quali li ho visti coprirsi di polvere e di cacche di uccelli, finalmente, nel periodo più buio dell'anno, sono stati allacciati alla rete e cominceranno a produrre la loro energia sopra la mia testa.
Speriamo che ne trasmettano un po' anche a me.