martedì 31 dicembre 2013

Da "senza tetto" a "senza dimora"

Le persone si dovrebbero definire per ciò che sono, non per ciò che non hanno. Chiamare quindi "senza tetto" o "senza dimora" è già sbagliato di per sé.
Girolamo Grammatico cominciò facendo il servizio civile in un istituto di accoglienza notturna. Da questa esperienza decise di fare volontariato in questo campo ed oggi è  presidente dell'associazione di promozione sociale "La casa di cartone."  
Intervistato a Fahrenheit Radio 3, Girolamo Grammatico spiega che molte persone comuni corrono il rischio di diventare "senza tetto", cioè di perdere la casa: basta avere un mutuo da pagare, perdere il lavoro e non ritrovarlo entro sei mesi. La dimora non è solo la casa ma anche il sistema di relazioni sul quale molti di noi possono contare. 
Col tempo tuttavia può capitare che si perda anche questo punto di riferimento e da "senza tetto" si diventi "senza dimora".
I "senza dimora" sono circa il 2 per mille della popolazione italiana, circa 50.000 persone, ma nelle grandi città il fenomeno arriva a interessare l'1% degli abitanti. Girolamo Grammatico invita a non focalizzarsi tanto su quella minoranza visibile nelle stazioni in quanto la maggior parte di queste persone sono in realtà invisibili, hanno un aspetto dignitoso e nascondono la loro condizione perché se ne vergognano. Spesso si tratta di cinquantenni, troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per cercare lavoro. Il mito del barbone è fuorviante: si tratta di persone normali (talvolta anche laureati o ex imprenditori) che si sono impoverite.
Il primo problema di chi perde la casa è quello di non avere la residenza perdendo così un'identità sociale, il diritto di votare e di avere dei servizi. Si diventa quindi un oggetto, un corpo che si trasforma in "casa" in quanto ci si porta addosso tutto quello che si ha. Il "senza dimora" è colui che, essendo in strada da tanto tempo, non ha nessuno: la sua solitudine è amplificata all'ennesima potenza.
La mancanza di igiene favorisce particolarmente le malattie dermatologiche come sperimenta l'Istituto San Gallicano di Roma il quale ha constatato che dopo sei mesi le probabilità di rientrare nel tessuto sociale sono bassissime. Bisogna quindi intervenire strutturalmente prima che accada il peggio.
In questi anni Girolamo Grammatico ha visto la spettacolarizzazione del problema (tipico fare audience con la morte dei barboni per il freddo), ma non ha visto grandi cambiamenti.  "Si può discutere delle definzioni linguistiche quanto si vuole," dice "ma quello che serve sono casa e lavoro". 
Mentre in tutto il mondo si sta sperimentando il progetto housing first, In Italia si ignora tranquillamente il problema visto che riguarda persone per lo più invisibili. Eppure abbiamo 13 milioni di edifici di cui 11 ad uso abitativo, 9 appartamenti per ogni nuovo nato, tanti appartamenti sfitti da  riempire l'intera Svizzera, mentre le persone che avrebbero bisogno sono molte di meno.
Non è per buonismo, ma perché un giorno potrebbe capitare anche a noi.
Buon 2014!

domenica 29 dicembre 2013

Iperconnessi

Da un piccolo campione di giovani intervistati in un centro commerciale: "Quanto tempo sto su internet? Praticamente tutto il giorno."
"Quanti social network conosco? Mah, direi una quindicina [!!]. Più ce ne sono, meglio è."
"La sera torno a casa, accendo la mia consolle e vedo connessi gli amici."
"Quanti contatti hai? 20.000?" "Anche di più!"
"Vado a dormire col computer e mi sveglio con il computer. Il fidanzato? Non ce l'ho. Diciamo che internet è il mio fidanzato." 
Per una della mia generazione, che conosce un "prima" ed assiste a tale cambiamento, l'impulso è di scandalizzarsi.
Tuttavia internet è uno strumento e come tale non è mai la causa né del bene, né del male. Come ogni nuovo mezzo è liberante e assoggettante nello stesso tempo. 
Ricordo bene quanto mi sentivo sola da adolescente, costretta in casa dall'ansia paterna, quando i miei amici al massimo li potevo raggiungere col telefono di casa controllata a vista da mia madre perché non spendessi troppo di bolletta. Magari avessi avuto internet, facebook, twitter, Skype, WhatsApp e compagnia bella! Sarei stata assai meno infelice. Eppure avrei avuto meno tempo per pensare. Passavo tanto di quel tempo con i miei pensieri, a meditare, a rimuginare, a farmi seghe mentali. Chissà se è servito o se sarebbe stato più utile chattare online!
Internet non crea esigenze ma amplifica ciò che già c'è: la voglia di comunicare e, soprattutto, la voglia di "apparire".
Questo il tema della puntata di Pane Quotidiano RAI3, con ospiti Loredana Lipperini, storica conduttrice di Fahrenheit, titolare del blog Lipperatura e autrice, con Giovanni Arduino, di "Morti di fama. Iperconnessi e sradicati tra le maglie del web", e Francesco Costa, giornalista del quotidiano online Il Post e titolare anche lui di un seguitissimo blog
Due ospiti che con internet ci lavorano quindi e difatti ammettono di stare parecchie ore in rete. Pur tuttavia hanno le loro strategie di difesa: Loredana Lipperini non usa lo smart phone, concedendosi così momenti di "silenzio tecnologico", e Francesco Costa confessa che se deve scrivere preferisce staccare la rete per permettere la concentrazione opportuna.
Non so se i ragazzi sappiano difendersi dall'invasività dell'iperconnessione tanto che solo metà dei giovani presenti tra il pubblico afferma di staccare internet quando studia.
D'altra parte la rete permette di apparire, garantisce la nostra "microfama": da "penso dunque sono" a "ho tanti «mi piace» quindi esisto", mentre i colossi di internet sfruttano questa esigenza per fare miliardi, captando dati e preferenze a fini commerciali.
Per gli adolescenti la propria identità è drasticamente legata all'oggetto smart phone tanto che, se esso si rompe, ci si sente "morti", tanto che se un ragazzo, come mio figlio maggiore, sceglie di uscire da Facebook, è costretto a rientrarci se vuole rimanere in contatto con i suoi amici.
Secondo Loredana Lipperini, non si tratta di un gap generazionale in quanto gli adulti che sono sui social network hanno gli stessi comportamenti, se non peggiori, dei giovani. L'aggressività, per esempio, è molto più presente e più pesante da parte degli adulti.
Insomma la tecnologia bussa alla porta, corteggia, invade, ammicca, adula. Difficile resistere anche per mia madre, 73 anni, mai usato il computer in vita sua e ora felicemente irrimediabilmente iperconnessa con il suo nuovo smart phone.

giovedì 26 dicembre 2013

Da grande vorrei fare l'avvocata

Il sessismo linguistico è un atteggiamento che si rivela in abitudini  stereotipate e cristallizzate nella lingua, di cui spesso non ci si accorge, ma che, ad un'occhiata un po' più attenta, vengono fuori. La scelta delle parole non è solo forma ma rivela anche la mentalità che sta dietro al parlante o allo scrivente.
Ho preso consapevolezza di quanto sia sessista il linguaggio comunemente usato quando ho sentito un paio di interventi illuminanti in questa vecchia puntata di La Lingua Batte, un programma Radio 3 RAI molto carino ed interessante.
Per la rubrica Dice il saggio, Cecilia Robustelli, insegnante di linguistica italiana all'Università di Modena e Reggio Emilia e collaboratrice dell'Accademia della Crusca, ha illustrato le Linee guida per l'uso del genere nel linguaggio amministrativo, un lavoro pubblicato dal Comune di Firenze per unire esigenze comunicative e istituzionali ad esigenze linguistiche di rispetto dell'uso del genere.
Se usare il maschile plurale per intendere incluse anche le donne non prevede alternative praticabili, sarebbe invece auspicabile, per un uso della lingua italiana che tenga conto del rispetto delle donne ed anche del funzionamento della lingua medesima, usare il femminile ogni volta che è possibile, ma questo non viene fatto, spesso neanche dalle donne. E' una cosa a cui sto facendo caso da un po' di tempo e che mi dà assai fastidio.
Cecilia Robustelli fa alcuni esempi: così come si dice impiegata si può dire deputata, così come si dice ragioniera si può dire ingegnera, così come si dice coniglietta si può dire architetta. Le parole ci sono ma la nostra cultura ci trattiene da usarle anche a causa del fatto che certe professioni e posizioni occupate dalle donne sono considerate ancora (ancora!) una curiosa novità.
La linguista si riferisce a sua volta ad un testo che risale ben al 1987, "Il sessismo nella lingua italiana",  nel quale Alma Sabatini, una pioniera del rinnovamento linguistico in nome del genere, inserì una serie di raccomandazioni per ovviare alle discriminazioni di genere nella nostra lingua, molte delle quali però vennero ignorate, come, per esempio, quella di non usare l'articolo davanti ai cognomi di donne.
Nella rubrica Accademia di arte grammatica invece, Fabiana Fusco, che insegna Glottologia all'Università di Udine ed autrice di "La lingua e il femminile nella lessicografia della lingua italiana tra stereotipi ed invisibilità", sconsiglia di declinare il femminile con il suffisso essa che ha sempre una sfumatura negativa o per lo meno ironica, ad eccezione delle forme ormai entrate nell'uso come professoressa, studentessa e dottoressa. Per esempio, perché usare il bruttissimo il termine avvocatessa mentre esiste quello di avvocata, che ha anche l'antico significato di protettrice e rende più prestigiosa tale professione?
Alcune donne affermano di usare il maschile per la propria definizione professionale come segno di un'equità raggiunta. A me invece suona di omologazione ed al contrario penso che usare il femminile rivendichi la conquista raggiunta. Così come Fabiana Fusco ci fa riflettere sull'asimmetrica semantica, cioè la differenza di significato, tra maestra e maestro o segretaria e segretario. Perché l'ostetrico deve essere un medico mentre l'ostetrica una semplice infermiera?
Non vorrei più sentire i media che usano espressioni come "il ministro Maria Chiara Carrozza" o "il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini" che sono oltretutto forme grammaticalmente scorrette.
Mi piacerebbe invece che una bambina di oggi potesse desiderare da grande di fare l'amministratrice unica, la segretaria generale, la consigliera comunale, l'assessora, la sindaca, l’avvocata, l’architetta, la chirurga, l’arbitra, l’ingegnera, la magistrata, la prefetta, la rettrice dell’Università, la notaia, la dirigente, la giudice, la magistrata, la vigile, la ministra, la presidente, la corrispondente, la manager, la parlamentare, la deputatala, la cancelliera.

Comunicato stampa dell'Accademia della Crusca sul tema

domenica 22 dicembre 2013

Ne vale la pena?

"Cosa ci può interessare in quali condizioni stanno i detenuti nelle carceri italiane? Abbiamo già i nostri problemi. Se la sono cercata: è giusto che marciscano in cella. Lavoro per i detenuti? Figuriamoci, non ne abbiamo neanche per noi e soprattutto per i nostri figli!"
Io penso invece che, al di là che il rispetto dei diritti umani ci vuole sempre e comunque, senza considerare che il 40/45% dei detenuti sono in attesa di giudizio e che quindi potrebbe essere innocente e che pertanto potrebbe capitare anche a noi e ai nostri cari, senza pensare che un detenuto costa 300 Euro al giorno allo Stato, non ci convenga assolutamente reimmettere in libertà (perché comunque prima o poi questo accade) una persona divenuta più cattiva di prima. Allora sì che sarebbe un pericolo e un danno per tutti noi che ci sentiamo "dall'altra parte".
Detto questo, il problema delle carceri è enorme ed è anche strettamente collegato al funzionamento della giustizia che, come al solito, è congegnato in modo che chi ha soldi in carcere non ci andrà mai, mentre più si è poveri più è facile finirci.
Personalmente, visto che per fortuna non ho avuto mai a che fare direttamente con il mondo carcerario, mi limito a segnalare spunti interessanti che mi sono venuti indirettamente da questa realtà.

Per esempio, durante l'ultimo campo antimafia che ho fatto in Puglia ci è venuto a trovare il giornalista Danilo Lupo che è stato finalista al premio Ilaria Alpi con un bel documentario sul carcere di Lecce, il terzo carcere più grande al Sud dopo Palermo e Napoli, dal titolo Dietro le sbarre.
Progettato per 620 persone, il carcere di Lecce è arrivato a contenerne fino a 1500. In una cella di 11 mq compreso il bagno, pensata per una persona, ci vivono in tre. L’acqua, che spesso manca anche nelle giornate più calde, dovrebbe essere potabile ma esce dai rubinetti piena di ruggine. Due terzi dei detenuti fa uso di psicofarmaci (la sanità carceraria tende a sedare, a stordire i sintomi). L’assistenza ai detenuti è uno dei vincoli più forti che li tiene legati all’organizzazione criminale.

Se c'è una cosa che può contribuire al recupero dei detenuti è proprio il lavoro, non tanto come riempitivo del tempo, quanto come strumento per crescere. Il lavoro dà dignità, li responsabilizza, li fa sentire parte attiva della società. Purtroppo ciò riguarda una piccolissima parte parte dei detenuti (qualcosa come poco più di un migliaio su 65.000), come ci raccontava, durante un altro campo antimafia che ho fatto, Giuseppe Pisano, rappresentante della cooperativa L’Arcolaio che produce nel carcere di Siracusa dolci di pasta di mandorle (buonissimi!)  chiamati “Dolci evasioni”, esperienza di cui si può vedere una presentazione su RAI1.
Un'altra splendida esperienza di lavoro carcerario (che continua oggi solo in parte a causa dei tagli alle spese) è quella nell'isola di Gorgona che è stata presentata a Fahrenheit Radio 3 dal direttore Carlo Mazzerbo, coautore con Gregorio Catalano, del libro Ne valeva la pena.
L'intervista a Mazzerbo mi ha ricordato gli anni in cui frequentavo l'isola di Capraia, sede anch'essa in quel periodo di una colonia penale che io immaginavo un po' come quella del film Papillon.
Carlo Mazzerbo, direttore del carcere di Gorgona del 1989 al 2004, ha cercato di applicare la legge Gozzini del 1975 coinvolgendo i suoi 120-130 detenuti in un esperimento di lavoro come forma di rieducazione. Sull'isola si realizzavano lavori agricoli, edili, di falegnameria, panetteria, acquacoltura, ecc. Vi era ampia scelta che permetteva di trovare per ciascuno di loro l'attività giusta che li facesse acquisire consapevolezza delle proprie capacità. L'importante era coinvolgere i detenuti nella gestione dell'isola, responsabilizzarli e favorire così un processo di maturazione che rendeva loro stessi in primis attori del loro reinserimento. 
"Per la prima volta ho visto lo Stato che mi ha dato fiducia" ha detto al direttore un detenuto contabile che è voluto rimanere anche dopo aver finito di scontare la pena.
Il lavoro di queste persone era remunerato secondo tabelle del ministero di giustizia con paghe più basse di quelle consuete ed essi potevano disporre solo di una parte del compenso (mentre l'altra era vincolata per quando sarebbero uscite).
Un'esperienza esaltante ma non priva di sconfitte e soprattutto forse applicabile solo in una realtà piccola e isolata come Gorgona.
Senza dubbio però essa dimostra che, se si vuole, si può applicare l'articolo 27 della nostra Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". 

giovedì 19 dicembre 2013

Il mecenate, l'architetto e il tempo

Leon Battista e Giovanni. L'architetto colto e brillante e il mercante saggio e illuminato. Entrambi con la stessa visione della vita. L'uno fornisce l'idea, il pensiero, il progetto, l'altro i fondi. Nascono così, da questa amicizia, il palazzo Rucellai, la facciata di Santa Maria Novella, il tempietto del Santo Sepolcro.

Leon Battista era figlio illegittimo di un mercante fiorentino in esilio a Genova e di una nobildonna genovese. Il padre, pur non sposando la madre, assicurò comunque al figlio un'istruzione di tutto rispetto. Leon Battista Alberti visse una vita di girovago a seguito di Papa Eugenio IV presso il quale era "abbreviatore apostolico", cioè ghost writer del Papa, compito di grande responsabilità ma di modesta remunerazione.

Giovanni Rucellai era un ricco mercante fiorentino. Possedeva un patrimonio notevolissimo, tanto che era il terzo contribuente della Firenze del Quattrocento. Tuttavia Giovanni rimase sempre lontano dalla politica della sua città e salvò così la sua famiglia dal seguire il suocero, Palla Strozzi, condannato all'esilio perpetuo. Il suo agire defilato gli permise qualche anno più tardi di mettere a segno il colpaccio: far sposare il figlio Bernardo con una Medici.

Leon Battista e Giovanni si conobbero in occasione del Concilio che si tenne a Firenze nel 1439 e subito si trovarono in sintonia. Tale comunanza spiega perché il Rucellai accettasse l'assenza dell'Alberti dai cantieri a causa della sua concezione piuttosto moderna del compito dell'architetto e cioè che esso dovesse solo fornire l'idea, il progetto, ma lasciare ad altri l'esecuzione dei lavori (al contrario di quello che faceva il Brunelleschi). Scrisse l'artista nel De re aedificatoria: "E’ dunque condotta saggia il conservare la propria dignità; a chi ce ne fa richiesta è sufficiente fornire consigli sinceri e buoni disegni. Se poi ti proponi di esser tu stesso direttore ed esecutore del lavoro, quasi sempre accadrà che tutti i difetti e gli errori in cui, o per inesperienza o per incuria, sono incorsi gli altri, siano attribuiti a te solo. Questi lavori devono essere affidati a maestranze abili, caute, rigorose, che sappiano eseguire ciò che è necessario con accuratezza, impegno e assiduità".

Giovanni Rucellai, rifugiatosi nel 1457 a San Gimignano per sfuggire alla peste, cominciò a scrivere un diario, lo Zibaldone, che egli chiamò “un’insalata di più erbe” e che era destinato ai suoi figli, Bernardo e Pandolfo, in modo che potessero trarre insegnamento dalla sua esperienza e consigli sulla gestione della famiglia, sui rapporti con i terzi, sul comportamento negli affari. Nello Zibaldone Giovanni esorta a tenere conto del tempo, una delle cose più preziose nella nostra vita e pertanto da non sprecare. Stesso concetto che ritroviamo nei Quattro Libri della Famiglia di Leon Battista Alberti (che in realtà non si sposò mai).

(Spunti da una visita guidata della dr.ssa Marza Garuti per gli Amici dei Musei)

domenica 15 dicembre 2013

Tiggì tiggì

Non ho ricordanza dell'ultima volta in cui ho visto un telegiornale per intero, mentre l'ultima in cui ne ho vista una porzione penso che risalga ad agosto scorso in campagna, dove non ho la rete. Dal mio punto di vista è facile dedurre che ormai i telegiornali abbiano un'importanza relativa.
Tuttavia ci pensa Alberto Baldazzi, giornalista esperto dei mezzi e dei flussi di comunicazione, a smentire la mia sensazione con il suo Almanacco dei Tg 2012-2013. Un anno di vita italiana attraverso l'informazione di prima serata di cui parla a Fahrenheit Radio 3.
Alberto Baldazzi, secondo un'idea nata quattro anni fa all'interno di Articolo 21, ha monitorato quotidianamente le notizie dei TG (lavoro che egli non consiglia a nessuno tale è la depressione e la nevrosi che provoca). Risulta palese quanto sia deformante la lente della televisione italiana, ma anche quanto essa sia ancora la fonte principale con la quale l'opinione pubblica si forma. Quello che ho capito dai numeri che Baldazzi fornisce durante l'intervista è che sia ha un bel dire della rete, dei social network e compagnia bella: è stato rilevato che solo il 17% di ciò che viene fruito in rete ha attinenza con l'informazione. Il resto è legato all'ala dell'intrattenimento e del gioco. Un giocattolo per adulti con utilizzi abbastanza infantili. Pensandoci bene, ciò non mi meraviglia affatto.
Non parliamo poi dei giornali cartacei: le 3,5 ML di copie di tutti i quotidiani venduti sono paragonabili ad un TG dei meno seguiti all'ora di pranzo. Non c'è partita. E tra l'altro, i quotidiani vivono in parte consistente di riflesso rispetto alla TV se si pensa alle rassegne stampa o alla partecipazione dei commentatori alle trasmissioni.
Il TG di prima serata mantiene una sua dimensione quasi luturgica in molte case, che ricorda a molti di noi (a me per prima) quel momento di impatto con la realtà quando la famiglia era riunita intorno al desco la sera. Si parla di picchi di ascolto di 25 ML di cittadini italiani.
Riguardo alla qualità dell'informazione televisiva, cascano le braccia. E' vero che in tutto il mondo l'informazione deve fare i conti con una problematica mercantile (cioè con gli inserzionisti pubblicitari) ma ciò viene compensato dal fatto che, negli altri paesi, quella del giornalista viene considerata una professione liberale a cui viene chiesto conto riguardo a correttezza e indipendenza.
Da noi, non solo il giornalista raramente interpreta il suo lavoro in termini professionali, ma ciò si va ad aggiunge ad un conflitto di interesse vigente da anni e ad una governance del servizio pubblico che fa acqua da tutte le parti.
Tra l'altro, in Italia la TV, unico vero mezzo pervasivo di informazione, assolutamente determinante nella formazione della coscienza dei cittadini, mescola intrattenimento e informazione infarcendo i TG di gossip e di quello che chiamano infotainment, cerca di confondere le menti di chi la segue e, approfittando dell'ignoranza e della fretta dello spettatore medio, fa passare una realtà deformata. In TV c'è tutto e il suo contrario. Difficile pensare che ci sia qualcosa che sta fuori della TV.

martedì 10 dicembre 2013

L'oasi in inverno

Terzo finesettimana di corso all'oasi WWF. Stavolta è stata dura a causa del freddo, soprattutto sabato, quando la nebbia non ci ha mai abbandonato.
Ciò nonostante ho impiantato alcuni alberelli da frutto (meli, peri, ciliegi e cachi), ho ripulito qualche vecchio mattone che servirà a ristrutturare una casetta destinata a ricovero per animali, ho partecipato al consueto censimento degli uccelli (moriglioni, alzavole, mestoloni, tuffetti, germani, folaghe, svassi maggiori, una poiana e qualche cormorano) ed infine ho raccolto semi di acero.
Gli stagni apparivano piuttosto deserti probabilmente perché gli uccelli se ne stavano rintanati tra il canneto per il freddo oppure ammassati nel punto più riparato a prendersi i pochi raggi di sole :

L'oasi è collocata vicino alla discarica di Case Passerini, che per noi fiorentini suona come sinomino di rifiuti, ma un tempo era la tenuta dei conti Passerini con l'ultimo residuo della palude originaria della piana. La discarica è ormai esaurita e costituisce una collinetta sormontata da prativi e da alcuni alberi. Qui il direttore dell'oasi ha battagliato per far realizzare un muretto di pietre a secco che costituisce un rifugio per gli animali: praticamente l'unica cosa viva della discarica.


La nebbia avrà anche il suo fascino ma per quanto mi riguarda è stata una sofferenza la partecipazione al corteo di protesta contro la realizzazione dell'inceneritore (a 200 metri dall'oasi!) e contro l'ampliamento dell'aeroporto.

venerdì 6 dicembre 2013

L'autista del bus: difensore di privilegi o ultimo baluardo contro il liberismo?


Ieri, giornata di sciopero dell'ATAF contro la sua privatizzazione, i lavoratori dell'azienda di trasporto pubblico hanno fatto saltare anche le corse nelle fasce garantite. Oggi, arrivata alla fermata, ho appreso dalla palina che il servizio è soppresso per sciopero ad oltranza.
Premesso che non so tutti i risvolti della vicenda e non mi piace parlarne senza conoscerli (come fanno tutti), mi limito a dubbi e spunti di riflessione che mi provocano sentimenti contrastanti:
  • sono anni che si parla di privatizzazione dell'ATAF e sono anni che i lavoratori protestano ma se non fossero arrivati a gesti come questo (Genova docet) quanti si sarebbero accorti della questione?
  • le fermate pullulano soprattutto di studenti che al gelo aspettano invano. Che colpa ne hanno questi ragazzi?
  • nel mio posto di lavoro sono arrivati tutti tranquillamente. Bella forza: a parte gli studenti, gli stranieri e gli anziani (cioè i deboli) chi prende più l'autobus? Sospetto che il disagio creato sia ben al di sotto di quello che si poteva prevedere (anzi, i tassisti brindano) e che si tocchi così con mano quanto poco si sia puntato al trasporto pubblico.
  • in una società in cui sembra di non poter smuovere niente, in cui sembra non ci sia modo di fermare il trend liberista, qualcuno prova a fermare il processo. I lavoratori di Poste Italiane sono accampati da un mese davanti al vicino centro di smistamento contro la vendita della loro azienda, ma chi se n'è accorto?
  • i bus della società dell'interland stanno circolando tranquillamente: i lavoratori sono già "privatizzati" e infatti hanno condizioni di lavoro assai peggiori dei dipendenti ATAF. Forse quest'ultimi stanno solo difendendo privilegi?
Sono dubbi a cui non mi so dare una risposta.

mercoledì 4 dicembre 2013

Ore 17:00


Il sole tramonta tra gli alberi quasi spogli del Parco delle Cascine, ma la mia giornata non è certo finita.

(e iscirversi a tweeter?)

martedì 3 dicembre 2013

Ore 7:20


Esco di casa e mi incammino per andare a prendere il bus che mi porterà al lavoro. 
Comincia la mia giornata.
Buon giorno!

(praticamente un tweet!)