venerdì 22 maggio 2009

Di nuovo in cammino


Domani parto per un nuovo viaggio a piedi. Ho proprio voglia di staccare per un po'. Della meta vi racconterò al mio ritorno. Intanto vi regalo l'immagine di questa splendida rosa che nella sua bellezza sfrontata e fragile mi fa proprio pensare al motto carpe diem.

Un caro saluto a chi passerà di qui,

Artemisia

Alcuni dei miei precendenti viaggi a piedi:
Camminare nella natura
I misteri dei tufi etruschi
Uno dei "salotti buoni" del pianeta Terra
Di ritorno dal Parco Nazionale d'Abruzzo
Perché fare un viaggio a piedi?
Engadina

mercoledì 20 maggio 2009

Cuanta pasion!

"Io non voglio esserti amica, io non sono un'amica. Ne hai tanti di amici, tanti ancora te ne farai. Né voglio essere un sostituto di padre e madre. Non sono né tuo padre né tua madre. Nella mia posizione potrò, se capita, se ci va, se è il caso, essere anche un po' amica o madre o padre, ma prima di tutto io sono la tua insegnante. E questo vuol dire che sono una persona adulta che ha studiato, che si è impegnata tanto e che è stata messa lì in quel luogo che si chiama scuola per fare scuola con te: un compito alto, bello, nobile, unico. Io faccio un mestiere che è fra i più importanti e belli del mondo."
Giulia Alberico, "Cuanta pasion!"

A Fahrenheit Radio3 spesso si parla di scuola, spesso purtroppo, lanciando allarmi come nella puntata sul Rapporto 2009 della Fondazione Agnelli nella quale è stato evidenziato come si stia allargando il divario quanto a qualità tra nord e sud, come la scuola abbia perso, rispetto a qualche anno fa, la funzione di motore della mobilità sociale in un equilibrio perverso dove i figli dei genitori più acculturati e più benestanti tendono ad andare nei licei (soprattutto di certi quartieri) che contemporaneamente attirano anche gli insegnanti migliori.
Eppure, in un'altra puntata, ascoltando l'intervista a Giulia Alberico sulla sua trentennale esperienza di insegnante per un attimo mi è sembrato di toccare con mano la scuola che piace a me ed il fascino di un mestiere che sin da piccola sognavo di fare.
Con la sua voce calda, la professoressa ha parlato della sua idea di scuola inclusiva, che integra, non sanziona e non perde i ragazzi per strada, dove ogni volta bisogna relazionarsi e negoziare rispetto ai propri principi astratti, dove "ogni volta bisogna rimettere insieme le coordinate e rilanciare la sfida".
L'Alberico definisce il suo lavoro "una splendida occasione per esprimere il mio modo di stare al mondo". "Adoro le materie che ho studiato e mi è piaciuto trasmetterle all'interno di una relazione che spesso è stata frustrante, faticosa e anche un'enorme sfida, ma quando mi ha dato, perché mi ha dato, tanto è bastato perché io rilanciassi".
E poi ha raccontato della letteratura come strumento per capire il sé e il mondo, come "un tappeto srotolato sotto i nostri piedi". "Le cose passano se c'è entusiasmo.", dice Giulia Alberico, "L'entusiasmo per sua natura è gratuito e spesso è anche contagioso".
Emergono dalla sua analisi due modelli radicalmente diversi di fare l'insegnante: chi segue il programma e si limita a quello e chi entra con i ragazzi in una relazione legata alle esperienze di essi. Sembra come una scelta di partenza. Un bivio iniziale. La passione per la propria materia diventa una passione per la vita anche attraverso quella materia.
Un'altra cosa che mi è piaciuta tra quelle che ha sottolineato la professoressa è che il sapere è una cosa complessa e l'insegnante dovrebbe abituare alla complessità, combattendo il pensiero elementare di cui spesso sono portatori i ragazzi (per es. tutti per la pena di morte). Assecondarli nel pensiero elementare facilita la vita degli insegnanti così come un politico fa presto ad assecondare i pensieri elementari della gente. Analizzare, discutere, andare a fondo delle questioni è più faticoso, ma è ciò che permette la crescita.
Un mestiere temerario insomma, una sfida dove sai come entri ma non come ne esci.

domenica 17 maggio 2009

Essere genitori di "esordienti"


Permettetemi uno sfogo personale. Capisco che il tema ha un interesse molto ristretto ma ho bisogno di sfogarmi perché non ne posso più. Più conosco i meccanismi del calcio giovanile dilettantistico e più ne sono nauseata. Un paio di questioni corrispondenti alla mia personale esperienza di madre.
Per prima cosa vorrei fare una segnalazione che interessa i genitori di ragazzi che finiscono la cosiddetta "scuola calcio" (12/13 anni, per questo anno in corso riguarda i nati nel 1996). La "scuola calcio", per chi non lo sapesse, è quel periodo durante il quale si paga una quota annuale, il bambino impara questo sport, le società sono obbligate a far giocare tutti durante le partite, ci sono regole che tentano di smorzare gli eccessi agonistici, ecc.
Finita la scuola calcio, che va fino alla categoria Esordienti, le società calcistiche cercano di far firmare ai ragazzi e ai loro genitori dei contratti pluriennali che vincolano i giocatori a rimanere presso quella società fino ai 18 anni (o addirittura fino ai 25 anni come mi hanno detto in FGCI). Al momento della firma ci viene detto che, nel caso il ragazzo negli anni successivi voglia cambiare squadra, il nullaosta verrà rilasciato senza nessun problema.
Capita invece che, per i motivi più vari, al momento opportuno la società opponga resistenza e in tal caso vorrei far presente ai genitori che non si può fare un bel niente. Nemmeno la FGCI ha potere di intervenire. Il ragazzo, in questo caso, è come fosse una "proprietà privata" della società (infatti è iscritto come voce "patrimoniale" nel suo bilancio). Consiglio quindi di insistere e chiedere di firmare un semplice contratto annuale. Non fidatevi delle rassicurazioni che magari sono fatte in buona fede, ma i dirigenti cambiano, le situazioni cambiano o semplicemente potreste per l'appunto chiedere uno svincolo per una società che non è in buoni rapporti con quella attuale, come è capitato a noi. Una cosa mi frulla da almeno un anno in testa: non sarebbe più semplice che si continuasse a pagare la nostra quota annuale di iscrizione (così come si paga se si va in palestra o in piscina) e non avere però alcun tipo di problema se si cambia idea? Non sarebbe più trasparente?

Seconda questione. Sempre durante l'ultimo anno da esordienti, i direttori sportivi delle società si attivano già da febbraio/marzo come avvoltoi in cerca della preda e cominciano a tempestare le famiglie dei ragazzi un po' più bravini (attenzione: non stiamo parlando di campioni) con telefonate e corteggiamenti vari affinché mandino i ragazzi a giocare da loro. Se l'offerta fosse discreta, non ci sarebbe nulla di male. Invece è un tartassamento continuo dei ragazzi e dei loro genitori. Una corte soffocante, una gara senza esclusione di colpi. Ed ecco che in una squadra come quella in cui sta giocando mio figlio dove i ragazzi si trovano bene insieme, si divertono, sono amici, non ci sono rivalità, cominciare con le telefonate, le pressioni da più parti, le trattative sottobanco.
Certi genitori sono i primi ad apprezzare queste proposte. Il ragazzo starebbe benissimo dove sta ma il babbo lo convince a cambiare ma non perché, per esempio, la società che lo cerca è più vicina a casa o gli orari degli allenamenti più comodi, ma perché fa un campionato più prestigioso, ha prospettive più ambiziose.
Insomma tutto viene messo in conto meno che il punto di vista umano. Alla faccia dello sport.
Io mi sento un pesce fuor d'acqua in tutto questo. Perché rovinare un bel gruppo che si era creato? Perché imbarcarsi in un sacrificio di spostamenti più volte la settimana da una parte all'altra della città (anche se con il pulmino della squadra)? Perché? Non lo capisco e nessuno in questo ambiente mi capisce. Io sono la mamma cattiva che "non lo manda". Di questo mi importerebbe poco ma quello che mi fa imbufalire sono le pressioni che fanno su mio figlio.
Scusate di nuovo lo sfogo ma non ne posso davvero più.

venerdì 15 maggio 2009

Governo e rigoverno





Dello straordinario Comune di Capannori, uno dei comuni virtuosi d'Italia, pioniere della raccolta porta a porta, ho già parlato in un altro post.
Oggi ho scoperto invece una strepitosa iniziativa della "Sinistra per Capannori": una lotteria che mette in palio servizi invece che oggetti. La lotteria serve per raccogliere i fondi ma anche per divulgare l'idea della banca del tempo, dello scambio senza circolazione di denaro e senza produzione di rifiuti. I premi consistono infatti in piccole prestazioni che i candidati di questa lista (che già è straordinaria per essere riuscita a mettere insieme tutti quelli a sinistra del PD) si offrono di fornire ai vincitori. Li accenno soltanto invitandovi a leggerli sul volantino perché vale la pena:
  • lavaggio di piatti e stoviglie a cura dell'assessore regionale Baronti,
  • lezione di tutto l'immaginabile e oltre (di judo, di fotoritocco, di tedesco, di rilegatura di libri, di torte dolci e salate, di pasta fatta in casa, di scacchi, di ballo liscio, caraibico, latino-americano, di agricoltura biodinamica)
  • volo in parapendio biposto offerto da un istruttore,
  • possibilità di conversazioni in inglese con anglofoni,
  • suggerimenti su come si scrive una tesi di laurea a cura di un docente dell'università,
  • visite al cane e al gatto offerte da una veterinaria,
  • ripetizioni di matematica e fisica,
  • lettura di favole arabe,
  • partita di tennis campo compreso,
  • lavoretti tipo falciatura d'erba, babysitter, riparazioni edili, elettriche, ecc.
E' prevista persino una serata aperitivo per scambio premi tra i vincitori.
Ma cosa c'è di speciale a Capannori? Io quasi quasi mi ci trasferisco.

(Dedicato alla mia amica S.)

mercoledì 13 maggio 2009

Riprendiamoci la preferenza

«È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora.» Winston Churchill

Non ho ancora deciso come voterò alle prossime elezioni europee (nell'ambito ovviamente del centrosinistra), però di una cosa sono convinta: voglio far valere la possibilità di eleggere una persona. Io penso infatti che bisogna salvaguardare la possibilità di esprimere le preferenze, cosa che stavano scippandoci anche per queste elezioni, proprio manifestando una scelta. Purtroppo le preferenze in passato sono state utilizzate più che altro con l'abominevole pratica del voto di scambio (e in questo senso forse il collegio uninominale sarebbe preferibile). Invece chi non ha avuto da "restituire favori", ha sempre un po' snobbato il fatto di poter esprimere una preferenza. Io per prima in passato mi sono concentrata più sul programma dei partiti, sulle alleanze e sugli schieramenti. Ultimamente invece mi sono sentita offesa dalle liste bloccate e decise dalle segreterie di partito. E' come se il cittadino venisse trattato un po' da povero idiota che più che una croce non sa fare.
Siccome sono convinta che la politica la facciano anche le singole persone e che le persone oneste ci siano, magari vanno cercate con il lanternino, magari sono quelle messe in lista così per fare scena ma non contano nulla. Ecco stavolta voglio proprio perderci un po' di tempo, studiare i curriculum, scandagliare i motivi che stanno dietro le candidature (escludo per esempio tutti gli amministratori locali "riciclati" per il parlamento europeo tipo il mio attuale sindaco) e scegliere il mio (la mia) parlamentare europeo(a). Lo so che perversi meccanismi di opzione possono esautorare le preferenze espresse dagli elettori, però voglio dare un segnale a quella che ormai, con un termine che a me non piace ma che rende bene l'idea, viene chiamata la casta.

"Dal 1945, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto al voto. È nata così la "Democrazia rappresentativa" che dopo alcune geniali modifiche fa sì che tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi è, e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni, e che se lo incontri ti dice giustamente: "Lei non sa chi sono io!".
Giorgio Gaber "La democrazia"

lunedì 11 maggio 2009

Dilemma educativo

Come genitori riteniamo giusto trasmettere ai nostri figli certi valori in cui crediamo: onestà, coraggio delle proprie opinioni, libertà intellettuale, ecc. Ci capita di indicare loro come esempio nobili figure di persone che per le loro idee non hanno avuto paura di andare contro il proprio tornaconto. Anche senza arrivare ad essere eroi, ci piacerebbe che i nostri figli siano dei cosiddetti "spiriti liberi".
Nello stesso tempo capita altrettanto frequentemente di trasmettere loro un messaggio contrastante con quanto sopra: non proprio il classico (e detestabile) "fatti furbo e fregatene di tutto il resto", bensì il più moderato "cerca di evitare, se non è strettamente necessario, le polemiche fine a se stesse o i comportamenti che ti possono nuocere anche se questi sono dettati alle tue idee". Insomma cerchiamo di far loro capire che talvolta non vale la pena di fare una crociata. Non si tratta di abiurare ai nostri principi, ma magari di svicolare un po', di evitare di prendere posizione se questo non avrebbe altro risultato che autodanneggiarsi.
Ma allora cosa vogliamo da questi ragazzi? Come li vogliamo? Opportunisti o spiriti liberi?
Personalmente non ho trovato risposta. Mi limito a valutare di volta in volta. Come del resto faccio per me stessa. Mi rendo conto però che non è facile.
Per chiarezza vi propongo un piccolissimo esempio banale ma vi prego di non concentrarvi troppo su di esso (che probabilmente si risolverà con un nulla di fatto) ma di focalizzarsi sul criterio generale.
Un professore di mio figlio sarà probabilmente trasferito il prossimo anno a causa dei tagli di organico. Molti ragazzi nella sua classe lo apprezzano e sono dispiaciuti tanto da voler fare una lettera in suo appoggio. A mio figlio questo professore non è mai stato simpatico (credo che la cosa sia anche reciproca) e francamente qualche ragione ce l'ha. Per quanto abbiamo potuto constatare è un insegnante molto preparato nella sua materia ma molto pieno di sé. Noi ci siamo sempre raccomandati che mantenga un atteggiamento educato e rispettoso ma non possiamo certo pretendere che lo ami o finga di amarlo.
Quando ha sentito parlare della lettera di appoggio, mio figlio non ha avuto dubbi: "Non la firmerò mai".
Anche se fosse il solo? Anche se ha due o tre materie pencolanti? Anche se nella materia in questione ha un sei scarso? Cosa consigliargli?

venerdì 8 maggio 2009

E se andassi a vivere in un faro?

Durante una puntata di Jalla jalla, il magazine di costume e società di Radio Popolare
che recentemente ho scoperto scaricabile in podcast, ho sentito l'intervista a Giovanni Lupo, farista a Cozzo Spadaro a Portopalo (Capo Passero), ultimo punto di avvistamento italiano all'estremo sud della Sicilia.
Che bellezza, ho pensato, fare il guardiano del faro, magari su una piccola isola! Niente traffico, niente folla, niente corse di qua e di là, niente stress. Solo il mare, i gabbiani, le navi che passano, il ritmo lento delle stagioni. Ieri c'era libeccio, oggi invece grecale. Il ritmo della luce a farti compagnia.
Il comandante Lupo parla con passione di questo lavoro che sognava fin da piccolo: dei fari e semafori sugli isolotti da andare a controllare ogni giorno con la pilotina, di quando lavorava a Punta dell'Omo Morto a Ustica, dei gabbiani, della tecnologia che cambia, della figlia diciassettenne che invita gli amici a studiare, di quando è andato in vacanza in montagna e si è sentito letteralmente un pesce fuor d'acqua.
Beh, insomma, la sua non è proprio quell'esistenza romantica e ascetica che uno può pensare.
Però che fascino questo mondo fatto di bollettini meteorologici, avvisi ai naviganti, portolani e punti cospicui! Un mondo che sta scomparendo perché, con le nuove strumentazioni satellitari i fari non servono più e difatti non ne vengono più costruiti.

In questo articolo un'altra intervista al comandate Lupo e in quest'altro la sua storia insieme a quella di altri reggenti.

mercoledì 6 maggio 2009

Ci sono ragazzi che... /3

Se le ragazze devono fuggire dalle aspettative di bellezza imposte dalla società, dai media e anche, purtroppo, da alcuni genitori, i maschi non stanno molto meglio quanto a pressioni.
Avete mai sentito parlare degli Hikikomori?
Quando ne avevo sentito parlare in un documentario tempo fa ,mi era sembrata una cosa un po' esotica, mentre ascoltando la puntata di Fahrenheit sull'argomento ho capito che anche i nostri ragazzi, soprattutto i maschi, potrebbero non essere esenti da questo tipo di reazione davanti alle difficoltà di socializzazione.
Si tratta, come spiega Carla Ricci, antropologa autrice di Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, di giovani (pare più di un milione in Giappone) che, in modo apparentemente improvviso e per motivi oscuri, si ritirano nella propria stanza per un periodo che va da un minimo di sei mesi fino ad alcuni anni. La loro reclusione molto spesso è totale, cioè senza mezzi di comunicazione, ma talvolta questi giovani usano internet per comunicare con altri ragazzi nella loro situazione.
Secondo la Ricci la causa principale è che in Giappone la pressione scolastica è molto forte, chi non è dentro gli schemi non si sente accettato e attua questa resa sociale di fronte alla competizione sfrenata per chiudersi nella famiglia come in una sorta di nascondiglio. Essi invertono il ritmo giorno-notte e si dedicano a ripetitivi videogiochi allo scopo di "azzerarsi". Si tratta principalmente di figli maschi perché sono quelli che più subiscono la pressione sociale.
E' vero che in Italia per fortuna le aspettative di successo scolastico sono meno pressanti ma lo psicologo Antonio Piotti, che lavora presso la cooperativa Minotauro di Milano ed è quindi a contatto con adolescenti italiani con problemi, afferma che anche tra i suoi pazienti ci sono ragazzi in Hikikomori.
Qualche campanello di allarme si accende nella mia mente pensando ai miei figli, alla loro timidezza, alle tante ore che passano davanti al computer, alla loro tendenza a sfuggire i problemi. La nostra scuola non è impegnativa come quella giapponese ma il rapporto con essa come luogo relazionale può essere molto sofferto per i ragazzi.
Per fortuna però l'atteggiamento delle famiglie italiane e di quelle giapponesi è abbastanza diverso. In Giappone, secondo quanto dice la professoressa Ricci, i genitori dei ragazzi in Hikikomori non ne parlano con nessuno perché si vergognano di avere un figlio che in Giappone viene considerato come un parassita. Invece, intervenendo per tempo, prima cioè che il ragazzo perda di lucidità e che la paura del "fuori" sia troppo forte, si può superare il blocco.

domenica 3 maggio 2009

Donne che mi piacciono /2 e buone notizie

Qualche anno fa ho visitato con gli Amici dei Musei quello che i fiorentini chiamano impropriamente "Cimitero degli Inglesi" ma che in realtà è un cimitero internazionale ed ecumenico, cioè realizzato nel 1827 dalla Chiesa Evangelica Riformata svizzera per ospitare i non cattolici e non Ebrei. Ad aprirci e a guidarci fu una suora inglese di una certa età, simpatica e intraprendente: Julia Bolton Holloway.
Della visita ricordo la sorpresa di questo posto che, nonostante sia situato in una specie di isola in mezzo ai trafficatissimi viali di circonvallazione, riesce incredibilmente a trasmettere la pace che normalmente ci aspettiamo da questi luoghi. Vi sono sepolti diversi artisti e letterati tra i quali la poetessa Elisabeth Barrett Browning .
Ecco che in questi giorni l'attenzione mi cade su un articolo di un giornalino distribuito dalla Coop (pagina 5 del pdf) sulla custode del Cimitero degli Inglesi e scopro che questa donna ha una personalità e una storia straordinaria. Nata a Londra, si è laureata negli USA in storia medievale dove ha anche insegnato (a Berkeley e a Princeton), ha tre figli e otto nipoti, parla nove lingue, ha scritto diversi libri, tiene tre blog, ha una pagina web e si batte per cercare fondi e mezzi per restaurare il cimitero che ha in custodia.
Fin qui il post poteva essere classificato semplicemente nella serie "Donne che mi piacciono" ma ho deciso che può stare benissimo anche nella serie "buone notizie" quando ho letto che Julia ha incontrato tempo fa una famiglia rom, Daniel, Vandana e la loro bambina, che vivevano in una baracca, e ha avuto l'idea di realizzare due sogni in uno: la manutenzione del cimitero e il riscatto di questa famiglia. Ha ottenuto così dall'Unione Europa 200.000 euro in tre anni del programma Grundtvig con i quali si può pagare un progetto di lavoro-studio per adulti. E così Daniel ha trovato un lavoro (restaurando il cimitero), grazie al quale impara una professione e si libera dall'analfabetismo.

Ma le notizie rincuoranti non spuntano mai da sole. Oggi su L'Unità, nella cronaca di Firenze, ho letto che alla fine di gennaio è nata la scuola di italiano autogestita dai ragazzi del collettivo Aut Aut della facoltà di Lettere a Firenze (gli studenti dell'Onda, per intendersi) che insegnano ogni martedì e giovedì l'italiano a 47 rifugiati somali. [qui l'articolo de L'Unità riportato da L'altra città]

sabato 2 maggio 2009

Io e il mio capo

Come capa sono una schiappa. La mia timidezza, la mia insicurezza, il fatto che, per usare le parole di Belphagor, "non ho imparato ad avere ragione e mi sembra di aver torto anche quando non è così", tutto ciò fa sì che i miei collaboratori non mi filano più di tanto. "Per forza, mamma," dice mio figlio tredicenne, "tu sei la boss buona!"
Meglio lasciar perdere questo argomento.
Invece come collaboratrice francamente non mi sento niente male. Mi sembra di avere la giusta dose di iniziativa, cioè credo di saper giudicare quando posso prendermi la responsabilità di decidere autonomamente e quando invece è giusto che il mio capo debba essere consultato e/o informato.
In ventisei anni di lavoro ho cambiato diversi capi. Dopo i primi dieci anni di mobbing ad opera di una capoufficio di cui ho già parlato, sono riuscita, per fortuna, a non avere nessuno sopra di me eccetto il direttore. Il direttore da noi cambia ogni 3/6 anni perchè si tratta di un incarico protempore a cui i professori universitari si dedicano solo per il bene dell'ente in quanto l'indennità che percepiscono non li remunera certo delle rogne che si devono prendere.
Nella mia vita lavorativa ho cambiato sei direttori e più o meno mi sono sempre trovata bene con tutti. Più o meno. Ho sempre avvertito la loro stima anche se si trattava di persone assai diverse tra loro.
Il direttore che mi nominò capufficio, otto anni or sono, era una persona con un grosso senso del dovere e dell'etica. Era mal tollerato in istituto perchè entrava nel merito della più piccola spesa. Qualcuno lo considerava semplicemente tirchio. Però io mi ci rivedevo nel suo carattere. La sua presenza costante dava a noi dell'ufficio un certo senso di soffocamento, ma a me questo stimolava a fare le cose con più cura perchè mi seccava che mi facesse notare, pur con tutta l'educazione del caso, i miei errori.
Il direttore successivo delegava molto di pìù anche se non si sottraeva mai alle decisioni. Molto più assente del precedente, mi dava però sicurezza perchè, quando mi è capitato di chiedergli aiuto nell'affrontare una situazione interrelazionale, l'ho trovato sempre pronto a togliermi le castagne dal fuoco utilizzando la sua posizione. Era anche un tipo simpatico e molto ironico anche se ci siamo sempre mantenuti su un piano formale e non mi ha mai parlato della sua vita privata.
L'attuale direttore ha tutto un altro carattere. E' il classico compagnone, simpatico, affettuoso, un po' casinista e poco avvezzo alle formalità. Umanamente è sicuramente superiore a tutti i direttori che ho avuto. Per esempio è molto bravo a smussare le questioni tra le persone, anche tra i suoi pari. Però ha un carattere totalmente diverso dal mio: espansivo e permissivo. Questo mi destabilizza un po' e soprattutto, lo confesso, non mi fa venire voglia di lavorare. Già gli anni che passano demotivano, l'assenza di validi meccanismi di incentivazione nel pubblico è nota, se poi lui, quando mi sento un briciolino in colpa per non aver fatto tutto il mio dovere, mi dice che ho fatto anche troppo, allora sì che mi passa la poca voglia che ho. E tra i miei collaboratori questa atmosfera lassista non e' proprio quello che ci vuole.
In ogni caso accontentiamoci, aspettando il prossimo.