sabato 31 dicembre 2011

Quando l'Italia si trovò ad un bivio

Forse tutto cominciò da lì, probabilmente perché il risultato non era affatto scontato. Devono essere state davvero emozionanti le elezioni politiche del 18 aprile 1948 (che non furono le prime in realtà, in quanto anche il 2 giugno del 1946 si votò per le politiche anche se nessuno se lo ricorda). La carica emotiva di questo evento è rivelata anche dal brano della settimana INCOM che declama con la sua consueta enfasi:
"Per troppi anni esclusi dalla sincera espressione elettorale, gli Italiani hanno riappreso la portata politica e morale di questo diritto. Si preparano ad esercitarlo con coscienza, onestamente interrogandosi nella perplessità di troppo categorici dilemmi. Più che il senso di un dovere quasi quello di un antico privilegio."
Fa specie oggi pensare che non c'erano i talk show televisivi, non c'era internet, e i due schieramenti pricipali, la Democrazia Cristiana guidata da Alcide De Gasperi e il Fronte Popolare (Socialisti e Comunisti) guidato da Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, si misuravano a colpi di manifesti per le strade (che non mostravano la faccia dei candidati come quelli di oggi) e di comizi nelle piazze.
In realtà si scontrarono due opzioni e due idee opposte sullo sviluppo dell'Italia uscita dalla guerra. Fu allora che nacquero i partiti di massa e si cominciò a fare proselitismo ovunque: nelle parrocchie, nei condominii, vendendo giornali porta a porta, nelle piazze, grazie a milioni di iscritti e centinaia di migliaia di militanti. Toni accesi durante quella campagna elettorale, con delegittimazione dell'avversario, dipinto come nemico, invasore, alieno, e aspra competizione tra partiti che fino a pochi mesi prima avevano collaborato strettamente per stilare la Carta Costituzionale. L'asprezza dello scontro ideologico rifletteva il clima internazionale di contrapposizione tra Est e Ovest e il singolo elettore italiano si sentiva parte di un conflitto più grande. Forse fu proprio la contrapposizione di quella stagione a introdurre una sorta di identità separata dettata dall'appartenenza ad un partito o ad uno schieramento che finì per mettere in secondo piano l'appartenenza di fondo all'Italia, ai valori di una cittadinanza repubblicana. Effetti che purtroppo si notano ancora oggi.
Il 2011 se ne va e con esso le celebrazioni del Centocinquantenario dell'Unità Italiana tra le quali la deliziosa serie radiofonica "Tre colori. Centocinquanta storie della storia d'Italia", serie che ho appena finito di ascoltare e della quale la puntata sulle elezioni del 18 aprile 1948 a cura di Umberto Gentiloni è stata una delle migliori (scaricabile qui).

martedì 27 dicembre 2011

Non sopporto quelli che...

Forse sto davvero invecchiando male, ma in certi giorni mi sento poco tollerante. Quando sono di buon umore (raramente di inverno) accetto con filosofia che il mondo vada come va.
Ma quando mi girano (e di inverno spesso mi girano) non sopporto...

... quelli che ti lampeggiano da dietro perché tu li faccia sorpassare in una strada trafficata in cui non si riesce ad andare a più di 20 km all'ora;
... quelli che parcheggiano proprio sull'angolo perché non possono fare due passi in più impedendoti così di vedere i mezzi che arrivano verso l'incrocio;
... quelli che vanno sparati sul viale delle Cascine senza nemmeno aver diritto di transitarvi;
... quelli che salgono sull'autobus dalla porta destinata alla discesa e neanche aspettano che tu scenda;
... quelli in bicicletta contromano e controsenso, di sera, senza fari e (perché no?) parlando al cellulare;
... quelli che in bicicletta sulla pista promiscua ciclisti-pedoni "mica posso andare a 10 all'ora, c'ho da andare a lavorare io!";
... quelli che passeggiano e chiacchierano amabilmente su una delle poche piste riservate alle bici della città e se li scampanelli ti guardano con aria interrogativa e non ci pensano nemmeno ad andare sul marciapiede loro riservato lì accanto;
... quelli che "con lo scooter passo dove voglio", comprese le passerelle pedonali e le piste ciclabili e senza nemmeno lontanamente pensare di spingerlo a motere spento (non sia mai!);
... quelli che abbandonano i rifiuti ingombranti sui marciapiedi scambiandoli per discariche (e mica possono aspettare venga il consorzio a ritirarli GRATUITAMENTE);
... quelli che il tempo degli altri non costa niente ma guai a perdere un loro prezioso minuto.
... quelli che...
... ma sto davvero invecchiando male.

sabato 24 dicembre 2011

Ma chi sarà 'sto farmacista indiano?

Caro indian pharmacy
o best pharmacy
o xl pharmacy
o online pharmacy
o pharmacy reviews
o che_diavolo_ne_so pharmacy,

è inutile che continui a mandarmi commenti citando a vanvera pezzi dei miei post tipo "spero che valga anche per chi come me voleva snobbare facebook, ma che poi per i motivi che tu hai scritto e per un altro del tutto personale che forse tu immaginerai ".

E' inutile che fai anche finta di essere un commentatore vero infilando tra le frasi senza senso "Un abbraccio forte Giulia".

E' inutile che ingaggi stanzoni di cinesi per inserire la parolina di verifica (oddio, sarà vera 'sta cosa? Il pensiero mi inquieta).

Tanto continuerò a marcarti come spam e le pilloline che reclamizzi NON LE COMPRERO' (e neanche, spero, lo faranno i miei sporadici lettori). :-P

giovedì 22 dicembre 2011

Blobbox

Orfana di Vcast, ho provato per un breve periodo a registrare le mie trasmissioni preferite con le vecchie cassette VHS ma ho abbandonato subito l'idea: troppo scomodo. Anche la visione on demand su web (possibile per molte di esse) non è agevole perché la rete spesso è sovraccarica e la visione si blocca di continuo.
Da metà novembre con lo switchoff al digitale terrestre anche nella mia città, registro con un apparecchio che si chiama Blobbox. Si tratta di un decoder che permette di registrare su un disco esterno e quindi di immagazzinare un bel numero di video che posso rivedere con la TV oppure trasferire sul PC o sull'MP4reader. Rispetto a Vcast mi manca la possibilità di programmare registrazioni ricorrenti (tipo ripetere tutti i giorni o tutte le settimane una certa registrazione) ed anche quella di memorizzare programmi che si sovrammettono come orario. Tuttavia non ho l'angoscia dei tre giorni entro i quali scaricare i file dato che questi rimangono sul mio disco. Una buona soluzione, quindi, anche se non proprio economica.

lunedì 19 dicembre 2011

La "differenza" la fanno i ragazzi così

L'aria da nerd ce l'ha e forse anche un po' quella da "secchione", però bravo davvero Francesco Cucari, un ragazzo di diciotto anni, ultimo anno di liceo scientifico, e di Rotondella (che non è poi "l'ombelico del mondo"), il quale ha sviluppato applicazioni per SmartPhone e in particolare ne ha creata una per verificare in modo pratico e veloce come differenziare correttamente i rifiuti che si chiama "Fai la differenza!". Ne ho sentito parlare ad Ambiente Italia Rai3 ma la notizia è girata su diverse testate. E poi comunque, sotto la patina seriosa che gli conferiscono gli occhiali e la cravatta, sono sicura che c'è un ragazzo normalissimo che ama il calcio, il tennis e il Liga.
Averne di ragazzi così!

sabato 17 dicembre 2011

Mai perdere la speranza


I miei figli mi hanno preso in giro più volte perché da settembre, dall'incontro nazionale di Emergency, me ne andavo in giro con questa patacca sullo zaino. L'avevo persino assicurata con uno spaghino perché la spilla mi si era rotta quasi subito.
Un giorno un signore anziano in un bar mi guarda e improvvisamente mi fa: "E chi è Francesco?" "Un operatore di Emergency rapito in Darfur" rispondo io. "Ah!" fa questi con aria di pensare ecchisenefrega.
In questi giorni stavo meditando di togliere la patacca. Non si parlava più di Francesco e cominciavo a temere il peggio. Ed invece non bisogna mai perdere la speranza. Proprio una bella notizia.

giovedì 15 dicembre 2011

Cosa ci aspettiamo dalla democrazia?

Digitando la parola "democrazia" su Wikiquote otteniamo una tale paginata di citazioni che ci dà la misura di quanto l'umanità sia alla ricerca di un meccanismo ideale per far funzionare l'estrema complessità del convivere in tanti.
Nel suo piccolo anche nella trasmissione "Le storie - Diario italiano" si è cercato di dare una definizione della democrazia insieme allo storico Carlo Galli, professore ordinario di Storia delle Dottrine Politiche all'Università di Bologna.
Che si aspettano le persone dalla democrazia? "Essa è l'ordinamento politico e sociale nel quale i cittadini si sentono a casa propria, riescono a capirne le dinamiche fondamentali e ad incidervi" risponde il politologo. E aggiunge che, mentre nei primi quarant'anni del Novecento vi erano movimenti e pensieri antidemocratici, oggi nessuno si dichiara "contrario" alla democrazia che sentiamo sì insufficiente, ma anche insostituibile.
Secondo Carlo Galli, la democrazia moderna non ha niente a che vedere con quella dell'antica Atene ed ha invece come presupposto il capitalismo. Nonostante l'etimologia della parola, essa infatti a poco a che fare con il "popolo" ma si basa piuttosto sugli "individui". Senza individualità e soggettività non c'è democrazia moderna. Per questo essa marcia su due pilastri fondamentali: lo stato moderno e il capitalismo.
Inevitabile in quest'ultimo periodo porsi l'interrogativo se la nostra democrazia sia sospesa o no visto che i nostri obblighi ruotano intorno ad una istituzione, la Banca Centrale Europea, che non è eletta. Il fatto è che, avendo la BCE investito soldi sui nostri titoli, di conseguenza ha diritto di venire a controllarci i conti. Per questo si può dire tranquillamente che siamo commissariati ma la domanda da porci è come sia stato possibile che sul tema centrale della nostra politica (i cosiddetti "sacrifici"), le istituzioni elette non abbiano alcuna forma di conoscenza e di controllo.
Io penso che quando non c'è indipendenza economica, della libertà te ne fai poco. Questo vale come singoli ma anche come paese. Per questo, oltre che molto spaventata e confusa, sono anche arrabbiata perchè come libera cittadina di uno stato libero mi sento sotto il classico ricatto tra il bere o l'affogare (con il timore che dopo la bevuta si affoghi comunque).

lunedì 12 dicembre 2011

Una stella per l'A.I.L.

Due pomeriggi al banchino dell'A.I.L. a vendere stelle di Natale davanti ad un centro commerciale dell'hinterland. Esperienza interessante. Anche solo osservare l'umanità che entra ed esce da questo posto allucinante. La maggior parte di essa non vi si reca per fare la spesa settimanale (a mio avviso l'unico motivo valido per metterci piede) quanto per incontrare gente, comprare pacchi dono preconfezionati in offerta speciale (risolvendo in modo veloce, asettico e conveniente il problema regali), far scorrazzare i bambini facendo inalare loro l'aria viziata dalla folla oppure passare il pomeriggio tra i banchini di paccottiglia assiepati lungo il corridoio. Mi sbaglierò, ma mi è parso che molti all'uscita avessero l'aria scoglionatissima.
Mentre la domenica la vendita delle piantine è stata più distribuita lungo l'arco del pomeriggio, il sabato è cominciato in modo piuttosto fiacco. Poche stelle vendute e solo ad acquirenti già informati e motivati. Uno di questi, un signore affabile, apprendendo della nostra scarsa raccolta, ci ha consigliato: "Ma voi dovete proporvi! Dovete suggerire!"
Io, novizia, ho guardato la mia compagna: una signora dal sorriso dolcissimo, dai modi materni e dalla lunga esperienza di volontaria ma ancora più timida di me. Così ci siamo fatte coraggio e abbiamo visto con stupore che la cosa funzionava.
"Una stella di Natale per la ricerca contro la leucemia!" Alcuni tirano dritto senza nemmeno guardarti, altri sorridono e ti rispondono con un "No, grazie", molti affermano di "averla già comprata" (vorrei vederle tutte queste case piene di stelle di Natale), ma alcuni si soffermano, si consultano con il marito o con chi li accompagna, si avvicinano titubanti e finiscono per comprarla. Ma con tanto di gazebo con la scritta dell'AIL, tanto di manifesti belli rossi appesi, tanto di spot passati per radio e TV in questi giorni, c'è bisogno di suggerirlo? Ed invece a quanto pare sì. D'altra parte ciò spiega anche perché si spendono tanti soldi in pubblicità.
Tenera una coppia con una bambina neonata che dopo aver scosso la testa fa qualche metro e torna indietro: "Mi scusi," fa la giovane donna, "abbiamo cambiato idea..."
Altri mentre comprano la stella esclamano: "Speriamo gli arrivino! Sa, ci hanno resi così diffidenti!" Una ragazza mi porge una banconota da dieci euro: "L'ho trovata in terra. Non so di chi sia ma è meglio che vada alla vostra associazione."
Esperienza quindi valida anche solo per condividere qualche ora con queste volontarie il più delle quali sono persone che hanno vissuto la perdita di un loro caro alla quale hanno reagito regalando un pezzo di se stesse, donne che basta un accenno alla malattia perchè ti raccontino il loro calvario, persone che a spese loro hanno capito cosa vale davvero più di ogni altra cosa: la vita stessa.

sabato 10 dicembre 2011

La scuola di Calamandrei e il "Diario di un maestro"

Nel pluricitato discorso pronunciato al III congresso dell’Associazione a Difesa della Scuola Nazionale (Roma l’11 febbraio 1950), Piero Calamandrei definisce la scuola "organo centrale della democrazia" e "complemento necessario del suffragio universale" in quanto è grazie ad una scuola pubblica forte che si attua quel meraviglioso articolo 34 della nostra Costituzione e che ogni classe, ogni categoria può avere la possibilità di "liberare verso l'alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società."
L'idea di una scuola come strumento di emancipazione anche per chi ha la sfortuna di nascere in un ambiente di povertà e di degrado è al centro di "Diario di un maestro", una splendida miniserie televisiva del 1973, scritta e diretta dal recentemente scomparso Vittorio De Seta e rivedibile su Rai.TV.
Bruno d'Angelo (un bel Bruno Cirino dallo sguardo perennemente malinconico) è un giovane maestro a cui viene affidata una quinta elementare composta di ragazzi delle borgate romane (la storia è tratta dalla reale esperienza raccontata nel libro "Un anno a Pietralata"). Il maestro segnala subito alla vicedirettrice che metà della sua classe non frequenta:
"E con questo?" gli chiede la donna.
"Ma hanno meno di quattordici anni!"
"Noi abbiamo fatto il nostro dovere. Cosa dovevamo fare? Portarceli con la forza? Non spetta a noi. La sua è una classe di risulta, di scarti, è chiaro? Abbiamo dovuto alleggerire le altre classi. Lei faccia quello che può. Già sono difficili quelli che vengono."
L'insegnante non si arrende e, con la sua camicia candida, la cravatta e gli occhiali da sole, visita le baraccopoli polverose e le modeste case popolari cercando di conoscere, con atteggiamento umile e per niente invasivo, la vita di questi ragazzi fatta di miseria, di violenza, di espedienti come il recupero dei rifiuti, e alla fine li convince tutti a frequentare. Le loro famiglie hanno un atteggiamento di imbarazzo, quasi di diffidenza: "Se riuscissi a far loro comprendere che la scuola non è soltanto un obbligo, ma qualcosa che è nell'interesse dei loro figli, sarebbe già un bel passo avanti."
Il maestro capisce presto che non ha senso fornire loro un insegnamento tradizionale perché non riuscirebbe a catturare la loro attenzione e mette in atto un metodo che a me ha ricordato tanto quello di Don Milani a Barbiana. Via la cattedra, i banchi uniti da delle tavole per lavorare in gruppo, la pedana trasformata in libreria e soprattutto partire dalle esperienze concrete degli alunni.
Così uno studio sulle lucertole, che essi sono soliti catturare e torturare, diventa una ricerca di scienze, l'episodio di un furto d'auto ad opera di uno dei ragazzini diventa una riflessione sulle conseguenze del gesto grazie ad un giovane con precedenti che, invitato in classe, risponde alle loro domande ("Quando sono uscito dal riformatorio, ho visto che del bullo che avevo costruito erano rimaste le ceneri"), la demolizione di un edificio del quartiere è lo spunto per indagare sulla loro precaria situazione abitativa, l'istituzione di una cassa comune autogestita per le spese occasione per fare aritmetica, un'indagine presso i genitori e i nonni sui ricordi legati alla guerra crea il motivo per studiare storia come mai avrebbero potuto fare basandosi solo sui libri. E poi il maestro li fa ragionare su come si possono osservare le pitture che realizzano, sull'importanza di saper parlare correttamente italiano e non solo il dialetto, sul superamento della violenza. Insomma nel vedere questi ragazzini, arruffati e vestiti miseramente, esprimersi, lavorare insieme, interessarsi, impegnarsi, entusiasmarsi e rimanere molte ore a scuola anche il pomeriggio per finire il lavoro intrapreso, pare di assistere ad una sorta di incredibile miracolo.
Il lavoro del maestro D'Angelo però suscita inevitabilmente l'invidia, il sospetto e l'avversione dei colleghi ("Tutte queste innovazioni... Crei un precedente! Questo fatto del doposcuola. Se si deve fare, si deve fare gratis? Regaliamo allo Stato? Siamo tutti dei missionari? Non sono solo fatti tuoi! Guarda che questi te la fanno pagare" lo mette in guardia un collega) e del direttore che non capisce il suo metodo e che comunque non è disposto a mettere in discussione venticinque anni di insegnamento tradizionale.
Inevitabile lo scontro con quest'ultimo che minaccia di bocciarli tutti: "La scuola deve essere formativa", dice il direttore.
"Dobbiamo formare degli uomini liberi capaci di ragionare con la propria testa e di decidere da soli oppure degli schiavi e dei robot?" chiede Bruno D'Angelo che decide allora di andarsene perché "la vera bocciatura è al mio lavoro che Lei non può comprendere perchè non ha il coraggio di mettere in discussione i suoi principi che sono superati dalla realtà."
Quando la Rai trasmise questo sceneggiato correvano gli anni Settanta (io avevo proprio l'età dei ragazzini di questo film). Da allora tanti insegnanti della scuola pubblica, anche in contesti simili a quelli del protagonista, hanno cercato (e qualcuno cerca ancora in mezzo ad ostacoli sempre più grandi) di mettere in pratica quello che Calamandrei definiva l'articolo più importante della nostra Costituzione, il numero 34: "La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi".

mercoledì 7 dicembre 2011

Fari nella nebbia: Piero Calamandrei

Piero Calamandrei è stato per me a lungo solo il nome di una scuola media del mio quartiere, in quanto solo recentemente ho conosciuto questa figura straordinaria. Fiorentino, avvocato, giurista, costituente, partecipò alla Resistenza nelle fila di Giustizia e Libertà.
Giovanni De Luna, lo storico che ha scritto la prefazione all'instant book "Lo Stato siamo noi" ed ospite della puntata di Le Storie dedicata a Calamandrei, spiega che dopo l'ultima guerra il paese andava sì ricostruito dalle macerie, ma anche moralmente su un patto che unisse gli Italiani su comuni valori e non solo su comuni interessi. Fu Calamandrei quindi a proporre i valori di una "religione civile", "religione" in quanto qualcosa che unisce, "civile" perché riguarda la laicità e le nostre istituzioni.
Memorabile il "Discorso sulla Costituzione" che il giurista pronunciò il 26 gennaio 1955 a Milano rivolgendosi agli studenti universitari e delle scuole medie:



Così come indimenticabile è il testo della lapide posta nel Comune di Cuneo ad ignominia del Generale Kesselring, autore di numerosi eccidi nazisti tra i quali quello delle Fosse Ardeatine e di Marzabotto, che aveva avuto l'ardire di sostenere che gli Italiani avrebbero dovuto erigergli un monumento:

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA

Il linguaggio di Piero Calamandrei oggi ci suona retorico ma, come spiega il professor De Luna, quel surplus di retorica era una precisa risposta a quel fenomeno chiamato "desistenza" che c'era sin dagli anni Cinquanta e che mirava a smontare l'epica della guerra di liberazione, a ridimensionare la spinta etica e spontanea dei partigiani, la risposta allo scetticismo del "tanto non cambierà mai nulla", ad una sfiducia nella necessità ed nell'efficacia della partecipazione dal basso. Calamadrei e gli altri costituenti volevano proprio contrastare questa corrente degli apoti, coloro che "non se la bevono", oggi forte ancora più che allora. Proprio per questo c'è bisogno di tenere presenti, come fari nella nebbia, figure come quella del giurista fiorentino.

Sull'altro tema caro a Piero Calamandrei, la scuola, tornerò in un prossimo post.

domenica 4 dicembre 2011

Il deputato "bolscevico" e il partito "riprendiamoci la ricchezza"



Furio Colombo mi è sempre piaciuto sin dai tempi in cui era direttore de L'Unità e dava molto fastidio non solo alla destra ma anche al PD al quale non risparmiava critiche. Mi ha sempre colpito il suo modo diretto di dire le cose con il loro nome, senza giri di parole o eufemismi, che mi viene da attribuire, oltre che ad inclinazione personale, ai numerosi anni in cui è stato corrispondente ed ha insegnato negli Stati Uniti. Ad ottanta anni, ha un'energia ed una verve invidiabili.
Il libro "No" raccoglie i suoi interventi in Parlamento dal 2008 al 2011. Si tratta, salvo un paio di eccezioni, di interventi di un minuto, lasso di tempo che spetta a chi chiede di parlare a titolo personale e non come incaricato del gruppo di cui fa parte (il PD se ne guarda bene da incaricarlo!).
Anche nell'intervista rilasciata a Fahrenheit, Furio Colombo parla come un fiume in piena del movimento Occupy Wall Street e della presidenza Obama. Del primo il giornalista dice: "Questa è gente, giovane e meno giovane, che vede le cose esattamente così come stanno e cioè che la politica non nasce più da Washington, ma da Wall Street. La loro non è una minaccia, è una testimonianza per dire agli Americani (ma anche a noi) che sono coloro là dentro a decidere la politica, a monopolizzare la ricchezza, a impedire a 46 milioni di Americani di avere le cure mediche (e che non sono solo i poveri), sono coloro a far sì che i contratti di lavoro non coprino le spese mediche in modo che siano più leggeri per l'impresa."
Secondo Furio Colombo quello che sta accadendo non è colpa del Presidente degli Stati Uniti in quanto le sue radici stanno nel monopolio della ricchezza, in una sorta di movimento o di partito che egli battezza in "riprendiamoci la ricchezza". Colombo è un acceso sostenitore di Barack Obama, che definisce "il più promettente personaggio che sia diventato presidente degli Stati Uniti, un vero intellettuale, dotato di un carisma assolutamente unico". Purtroppo questi ha trovato una barriera di odio e di violenza che ormai si capisce essere anche razziale. Il potente partito "riprendiamoci la ricchezza" gli ha impedito di attuare il nucleo della sua presidenza cioè il progetto dell'assistenza sanitaria agli Americani che non sono in grado di pagarsela. La sfida al potere delle assicurazioni significava espropriare uno dei punti più famelici e aggressivi del sistema finanziario americano. Al momento, racconta Furio Colombo citando l'esperienza della figlia medico negli USA, tra la disumanità e la vita americana c'è un'unica tenue ma appassionata difesa: il fatto che i medici si rifiutano di cacciare dagli ospedali i pazienti bisognosi di cure che non possono pagare, anteponendo il giuramento di Ippocrate a quello come cittadini americani.
Anche nel nostro paese dove si chiede agli operai di rinunciare al contratto nazionale, dove si continua nelle banche salvate dallo Stato a distribuire come prima bonus astronomici e compensi fuori misura, agisce il partito "riprendiamoci la ricchezza". "Ricchezza chiama ricchezza, pretende ricchezza senza limite e spinge indietro tutti coloro che vorrebbero almeno essere curati se sono ammalati, avere una pensione decente, un lavoro rispettabile e finire le scuole". Come non essere d'accordo con il semplice pensiero del "bolscevico" deputato Furio Colombo.

giovedì 1 dicembre 2011

Lotta alla decadenza fisica

"Mi raccomando! Fate le sospensioni a casa!" Questo il refrain del mio maestro in palestra.
In effetti distendere la schiena appendendosi è un toccasana per la prevenzione e la cura della lombalgia.
E per la cervicale? Non ne ho mai sofferto ma poco tempo fa, quando mi sono ritrovata un noiosissimo torcicollo, mi sono ripromessa di curare anche quella. Per esempio, mi dicono importante, soprattutto dopo una lunga attività davanti al computer, muovere la testa dolcemente a destra e a sinistra, su e giù. Bisogna che me ne ricordi. Fa bene anche sdraiarsi sul letto e far scivolare la testa fuori dal bordo in modo che le vertebre cervicali si stirino dolcemente e respirino.
E che dire della fastidiosa periartrite alla spalla destra che mi duole da quest'estate? Ho scoperto che siamo in tanti ad averla, compreso il mio maestro e compreso il mio medico curante. Magra consolazione. Inoltre sono rimasta terrorizzata dalla prospettiva della cosiddetta "spalla congelata", cioè la perdita della capacità di articolare la spalla. Gulp! Quindi ricordarsi un paio di volte al giorno di appoggiarsi al tavolo di cucina facendo dondolare il braccio rilassandolo. E metti in conto anche questa.
Vogliamo trascurare l'articolazione delle anche che con l'età tende a perdere elasticità? Non sia mai! E allora almeno una volta al giorno appoggiare le gambe a "V" alla parete, sdraiata sul pavimento.
Ma dopo tutta questa manutenzione alla mia "vecchia carcassa", mi resterà del tempo per fare altro?

lunedì 28 novembre 2011

La bella Italia

Oltre 360 capolavori distribuiti tra il Museo degli Argenti, la Galleria Palatina, la Galleria d’Arte Moderna e la Galleria del Costume: da Giotto a Michelangelo, da Rubens a Bronzino, da Canova a Velazquez, da Beato Angelico a Parmigianino. Dopo due ore e un quarto di visita con gli Amici dei Musei alla mostra "La Bella Italia, arte e identità delle città capitali", rincorrendo per le sale di Palazzo Pitti una entusiasta ma ansimante Diletta Corsini, francamente mi sento di dare ragione a Tommaso Montanri che stronca la mostra nel suo articolo "Ma che Bananitalia! In mostra a Palazzo Pitti i 150 dell'Italia unita".
Sul valore delle opere esposte non si discute, ma è proprio l'operazione in sé che desta perplessità. E' vero che sembra un'antologia, è vero che ci sono pochissime spiegazioni, è vero che molte opere sono sacrificate in spazi angusti oppure offuscano alcune sale grandiose del palazzo.
Per fortuna, nonostante tutto, la passione e la bravura della dr.ssa Corsini mi hanno dato alcuni spunti interessanti. Tanto per cominciare, la mostra è pensata come un Gran Tour, cioè un viaggio di istruzione che i giovani di buona famiglia europei facevano in Italia per arricchire la loro cultura e completare la loro formazione (per esempio, a Torino si imparavano le arti militari). Una sorta di Erasmus antelitteram che durava circa tre anni e che introduceva il rampollo presso le varie corti italiane.
Inoltre mi è piaciuto riflettere, grazie alle vedute esposte, su quanto sono cambiate le città italiane rispetto ad un paio di secoli fa: una Roma tranquilla, bucolica, quasi provinciale senza i palazzoni ministeriali di fine Ottocento e senza i retorici edifici del Ventennio fascista, e una sorprendente Genova, "una città piena di rose e di luce", la più ricca d'Italia (la Superba), la seconda più ricca d'Europa dopo Anversa, adagiata nel suo golfo, con uno splendido mare davanti, con le ville incastonate come diamanti nelle verdi colline, lontana dalla città inquinata e devastata dall'edilizia del dopoguerra.
Pare che l'espressione "la bella Italia" fosse stata di uno Stendhal diciassettenne che aveva appena varcato le Alpi, sconvolto non solo dalla bellezza delle opere d'arte famose, alle quali era preparato, ma anche dall'incredibile variegata sfaccettatura del nostro paese, dalla "iridescente pluralità della nostra cultura", per usare le parole di Antonio Paolucci. Uno stupore che ho ritrovato negli occhi di mio figlio quando a Roma, qualche giorno or sono, ha visto dal vivo le chiese, i dipinti, i palazzi e gli scenari che aveva appena studiato a scuola.

sabato 26 novembre 2011

Politicamente scorretto


Mi piacerebbe davvero andarci. Non è neanche tanto lontano da casa mia. Purtroppo sono affogata di cose da fare. Per fortuna forse potrò seguire qualcosa su web.

mercoledì 23 novembre 2011

Ho letto il mio primo ebook

A mio avviso, come ho già avuto occasione di scrivere, i libri in circolazione sono troppi e pochissimi meritano di essere posseduti e conservati. Quante volte ho avuto curiosità ed aspettative per un libro che poi mi ha deluso! Una volta comprato e letto me lo trovo tra i piedi, occupa lo scarso posto sugli scaffali di casa mia, va spolverato, ecc.
Così, visto che persino i miei suoceri si sono convertiti alla lettura degli ebook e dopo aver scoperto con sorpresa che mio marito possiede diversi tablet, mi sono decisa a leggere un ebook: "La vita accanto" di Mariapia Veladiano, sul quale avevo sentito un'intervista da Augias.
Il romanzo mi è piaciuto assai poco ma l'esperimento è stato positivo. Dopo un primo attimo di smarrimento (oddio, come faccio a sapere a che pagina sono e quanto manca alla fine?), non trovo assolutamente nessuna differenza con il libro su carta, anzi, ci sono casomai dei vantaggi.
E così ora sono contenta di essermi tolta la curiosità che avevo spendendo meno e senza ritrovarmi a giro il romanzo della Veladiano.
In una puntata di Fahrenheit che ascoltavo in questi giorni si affermava che il boom degli ebook, atteso da diversi anni, in realtà continua a non verificarsi in quanto siamo ancora allo zerovirgolaqualcosa di vendite rispetto ai libri su carta. Io non credo affatto che ciò sia dovuto al bisogno di sentire il fruscio delle pagine o il profumo della carta, quanto al costo degli apparecchi, alla possibilità o meno di accedere rete, di saperli scaricare e passare sul tablet. Infatti senza l'esperto di casa, non credo che avrei mai vinto la pigrizia di imparare.

domenica 20 novembre 2011

Come in un quadro di Bosch


Roma, Stazione Termini, 18 novembre 2011, ore 18

Mentre attendo qualche minuto davanti al tabellone luminoso sul quale comparirà il binario assegnato al mio treno, mi sento tramortita dalla folla turbinosa che si agita come in un vortice nel frastuono indististinto. Molti camminano con il telefono all'orecchio in un colloquio infinito, come se non bastassero le voci presenti. Una ragazza, visibilmente adirata, grida tutta la sua rabbia contro qualcuno dall'altra parte dell'apparecchio che non si deve essere presentato ad un qualche appuntamento. Un giovane parla invece a voce alta con l'auricolare trascinando di corsa il suo trolley; anni or sono l'avrebbero preso per pazzo ma la tecnologia ci ha reso familiari queste scene. Annunciano il binario di un regionale in ritardo ed istantaneamente, come se avessero dato il segnale di via ad una maratona, una folla si muove risoluta verso la mia direzione tanto che a stento riesco a stare in piedi. Un homeless raccoglie una cicca ancora accesa da terra per darle l'ultima tirata. Poi, con la sua bocca priva di denti, mi chiede qualcosa ma io non capisco cosa dice. Un altro, dalla pelle più scura, dopo aver pietito uno spicciolo da tutti gli astanti, rovista negli sportellini dei resti dei distributori di bibite.
Sarà che ho dormito pochissimo la notte passata, sarà che una fastidiosa nevralgia mi fa martellare un dolore acuto alla nuca, ma a me pare di essere in un incubo.
Due giovani che si baciano teneramente accanto ad un Eurostar in partenza mi sembrano l'unica cosa umana di tutto questo quadro di Bosch.

mercoledì 16 novembre 2011

Che colpa abbiamo noi?



Così cantavano i Rokes nel 1966, canzone che è stata citata, tra altri testi, durante un'interessante lezione tenuta domenica scorsa presso la sede del Consiglio Regionale della Toscana dallo storico Marco De Niccolò e dalla sociologa Chiara Saraceno dal titolo "Giovani e No: Generazioni alla prova".
Il professor De Niccolò ha fatto un bell'escursus sulla partecipazione o meno dei giovani ai processi storici partendo dalla Rivoluzione Francese fino ai giorni nostri. Il Risorgimento come è noto ha visto molti protagonisti giovani ma essi vi parteciparono non in opposizione bensì in armonia con i patrioti più anziani con i quali condividevano gli stessi ideali. Nelle prime due decadi del Novecento invece i giovani si sono visti prima attratti dalla guerra e poi, delusi da essa, trasferirono la violenza della trincea in quella squadrista tanto che con il fascismo abbiamo avuto il governo più giovane che ci sia mai stato in Italia (a dimostrazione, ha detto De Niccolò, che non sempre "giovane" è sinonimo di "migliore"). Mentre nella Resistenza si ebbero di nuovo giovani e meno giovani combattere insieme, la ricostruzione ha visto al potere la generazione più anziana.
Il vero movimento di ribellione generazionale è stato, come è noto, quello del Sessantotto che ha provocato un bello smottamento in tutti i campi e in molti paesi del globo. Negli anni Settanta abbiamo assistito ad una deriva che ha portato i giovani a scomparire dalla scena pubblica a partire dagli anni Ottanta fino ad oggi, periodo nel quale si sente la necessità di un contributo giovanile che però dovrebbe essere "autonomo e originale", secondo il parere di Marco De Niccolò.
La professoressa Chiara Saraceno ha sottolineato alcuni aspetti importanti della condizione giovanile di oggi: il fatto che, con l'allungamento della speranza di vita, essa si protrae (anche psicologicamente) fino alla soglia dei quarant'anni, il fatto che il riaffiorare o meno dei giovani come protagonisti nella storia abbia riguardato quasi esclusivamente i maschi e soprattutto il fatto che oggi la difficoltà per i giovani nel farsi strada è dovuta soprattutto alla loro scarsa consistenza numerica in confronto alla generazione dei loro genitori.
In effetti a rifletterci bene, è vero che la mia generazione (quella dei babyboomer, dei nati dal Dopoguerra agli anni Sessanta) che oggi detiene i posti di comando non facilita l'inserimento dei giovani, non li accoglie, ma è anche vero che siamo tanti e che dobbiamo lavorare più a lungo per mantenere l'esercito sempre più numeroso e longevo di anziani. E' un problema anche demografico.
La sociologa ha inoltre sottolineato come i ragazzi di oggi non stiano poi tanto peggio dei loro padri quando avevano la loro età: sono generalmente più istruiti, più attrezzati, godono di un benessere familiare che i loro genitori non avevano, hanno più libertà e più possibiltà. Manca tuttavia loro la prospettiva futura, la sicurezza di poter trovare un lavoro degnamente restribuito, di farsi una famiglia o comprarsi una casa. Non stanno troppo male perchè il welfare familiare ancora resiste e sostiene ma, proprio perchè il benessere si basa troppo sulla famiglia di origine, le disuguaglianze sociali e tra Nord e Sud del paese si accentuano. Un ragazzo nato in una famiglia di ceto e istruzione medio-alta del Nord ha molti più strumenti di chi nasce da genitori con bassa scolarizzazione nel Sud. Il discorso si fa ancora più pesante per le ragazze perchè oggi, spiega Chiara Saraceno, il carico di lavoro complessivo delle giovani è anche più pesante di quello delle loro madri.
Mentre seguo, insieme a mio marito, la lezione, ricevo una telefonata dal bamboccione di casa mia che ci rimprovera di "essere usciti senza averlo avvertito" e così il "poverino" si trova fuori casa non avendo pensato di portarsi con sé le chiavi. Ma che colpa abbiamo noi?

lunedì 14 novembre 2011

L'ANPI ci salverà?

Sabato, di ritorno dagli Stati generali dell'ANPI Toscana, ho avuto la conferma di quante persone come me ripongano in questa associazione storica aspettative che vanno oltre quella che è la sua funzione. Mi sono iscritta all'ANPI nel 2008 (su suggerimento di Luposelvatico che ringrazio ancora una volta) spinta dal bisogno di far parte di qualcosa in cui riconoscermi, un punto fermo nel marasma di certezze che vengono meno, di valori messi in discussione ogni giorno. Successivamente ho cercato anche di prendere parte attiva alle iniziative di questa associazione, ma, a parte le manifestazioni ufficiali e le ricorrenze importanti al fine di non dimenticare, ho percepito un certo "vuoto organizzativo".
Così sono andata a questo convegno immaginando che avrei assistito ai soliti interventi rievocativi dei giorni eroici della lotta di liberazione, pronta a commuovermi per la nostalgia ma comunque con la sensazione di un qualcosa di chiuso nel suo passato. Invece mi sono dovuta ricredere. Innanzitutto il format era quanto mai attualmente renziano: cinque minuti a disposizione di chiunque chiedesse di parlare, con un presidente severissimo a far rispettare i tempi incurante del fatto che stesse parlando un presidente di un'importante sezione o l'ultima iscritta ventenne. Inoltre un posto dove ci si chiama "compagni" senza tante fisime, con persone che, con idee anche diverse, di politica si sono sempre occupate e appassionate. Alcuni interventi mi hanno fatto una gran tenerezza: l'anziano compagno di Massa che si è scusato per il suo italiano perché abituato a parlare in dialetto, la partigiana di Lucca che ha vinto la fatica di salire sul palco e di parlare, il mio mitico Pillo che ha finito per strapparmi la lacrimuccia.
I temi più gettonati sono stati l'ansia per il cosiddetto "governo tecnico" che ci ritroveremo a breve e sul quale in molti hanno espresso forti critiche e grandi contrarietà, l'apertura verso i giovani e soprattutto la richiesta di collegarsi al movimento degli indignati, ed altre richieste ancora più ambiziose tipo "opporsi al liberismo", portare avanti una proposta di legge per ripristinare il sistema elettorale proporzionale, porre attenzione ai migranti e alla pace. Insomma l'ANPI come panacea di tutti i mali, come ancora di salvezza.
Per fortuna, l'intervento conclusivo del nuovo presidente nazionale, Carlo Smuraglia, ha riportato tutti alla ragionevolezza: sì giudicare i provvedimenti del governo che verrà perché siano improntati all'equità, no allo schierarsi contro o a favore di una certa soluzione politica; sì a rapportarsi con i giovani, no ad interlocutori privilegiati (Smuraglia ha avuto parole dure verso i cosiddetti "antifascisti militanti"); non prestarsi all'antipolitica (che egli vede trapelare anche dal movimento degli indignati) perché "senza politica non c'è democrazia"; no ai privilegi e agli abusi, ma ribadire l'importanza dei partiti così come sancito dalla Costituzione all'art. 49; aprire ai giovani ma formarli adeguatamente. Il presidente nazionale è un po' infastidito dall'espressione del "passare il testimone" perché secondo lui "siamo ancora in tempo a correre insieme".

sabato 12 novembre 2011

L'uomo non può sopportare una vita priva di senso

La psicologia analitica di Carl Gustav Jung mi è sempre rimasta un po' oscura. Mentre della psicanalisi freudiana ho letto qualche libro che mi ha appassionato soprattutto in gioventù, il pensiero di Jung l'ho trovato sempre un po' fumoso, poco scientifico e più sconfinante nella filosofia. In una conferenza sull'argomento di Luigi Zoja al Festival della Mente ho sentito citare una famosa intervista rilasciata dall'anziano psicologo a John Freedman nel 1959 e pubblicata in quattro parti su YouTube. A me è piaciuta molto perché rivela una personalità molto umana e anche ironica.



Cresciuto in campagna, il padre pastore, tollerante e democratico, la madre amata di giorno ma "temuta di notte", Jung racconta nell'intervista come è maturata la sua scelta degli studi. Gli piaceva l'archeologia ma ci volevano molti soldi e la sua famiglia era povera. Così optò per la medicina, che pure non lo entusiasmava, perché ci intravedeva più possibilità e perché almeno gli avrebbe permesso di studiare scienze naturali che era la sua seconda passione. Il giovane Jung aveva un fisico piuttosto possente ed un carattere abbastanza irascibile, tanto che doveva stare attento a non perdere il controllo e farsi trascinare in risse.
Dopo la laurea, la rivelazione per la psichiatria che allora, dice Jung, era considerata "nothing at all". "Ma io ci avevo visto la possibilità di conciliare certe contraddizioni che erano in me. Il cuore mi batteva forte. Era come se ad un tratto due correnti si congiungessero."
Si passa all'incontro con Freud, all'ammirazione per lui anche se: "Mi accorsi presto che quando pensava una cosa per lui era conclusiva, mentre io ero sempre pieno di dubbi su tutto."
I due grandi si analizzavano a vicenda raccontandosi reciprocamente i propri sogni. Tuttavia Jung non condivideva alcune idee di Freud in particolare il suo approccio personale e la sua noncuranza per le condizioni storiche dell'uomo. "Noi dipendiamo largamente dalla storia."
Di qui sviluppò gli studi per lo strato impersonale della nostra psiche, che chiamò "inconscio collettivo".
Riguardo alla sua teoria dei tipi psicologici, Jung afferma che però essi non sono statici (cioè non sono etichette) ma cambiano durante il corso della vita e alla domanda di Freedman su quale sia il suo tipo, egli si definisce un pensatore dotato di grande intuito ma con qualche difficoltà con i sentimenti e qualche sfasatura nel suo rapporto con la realtà.
Siamo nel 1959 e il tema all'ordine del giorno è la guerra fredda e la paura per una terza guerra mondiale. Su questo Jung dice di non saper fare previsioni precise anche se "E' imminente un grande cambiamento del nostro atteggiamento psicologico. Abbiamo bisogno di capire meglio la natura umana perché l'unico vero pericolo esistente è l'uomo stesso. Non sappiamo niente dell'uomo, o troppo poco. Dovremmo studiare la psiche umana perché siamo noi l'origine di tutto il male a venire."
Uno degli aspetti che mi convincono meno del pensiero di Jung è quando attribuisce alla psiche facoltà particolari, per cui non è del tutto confinata entro lo spazio e il tempo. Non capisco come possa dimostrare in modo scientifico queste pur affascinanti intuizioni.
Riguardo al significato più profondo della vita invece mi sono piaciute molto le sue parole:
"Dobbiamo considerare la morte come una meta e negarlo elude la vita e la priva di scopo. Ma la persona anziana deve continuare a vivere e guardare con attesa il giorno dopo come se avesse secoli davanti a sé. Tutti noi sappiamo che moriremo ma il nostro inconscio a quanto pare non ci crede. L'uomo non può sopportare una vita priva di senso."

mercoledì 9 novembre 2011

Far la spesa a scuola

Ci passo davanti in bicicletta da anni recandomi in palestra, ma non avevo mai fatto caso al cartello un po' artigianale che recita "vendita diretta". O forse l'avevo anche notato ma subito archiviato nella mia mente pensando che si riferisse a piante. Invece in occasione della fiera agricola di questo autunno ho sentito dei ragazzi dell'età dei miei figli che pubblicizzavano la cosa: "Siamo studenti dell'Istituto Tecnico Agrario. Venite a comprare i nostri prodotti. Abbiamo olio, vino e ortaggi."
Già, perché non provare? Così, in alternativa o in aggiunta al mercatino di campagna amica del venerdì, il sabato mattina facciamo un salto all'I.T.AGR. (storico istituto, erede della Regia scuola di Pomologia e Giardinaggio). Bisogna andarci presto perché i prodotti freschi sono pochi e finiscono subito. Però sono buoni e convenienti: in questo periodo porri, cavoli, rape, cachi. Il vino, venduto in confezioni da 5 e 10 litri con il rubinettino da cui spillarlo, non è male. Talvolta si riesce anche a trovare le uova fresche mentre con l'olio dell'anno scorso hanno fatto delle ottime saponette aromatizzate alla lavanda.
Un modo per comprare prodotti locali e contribuire alle entrate di una scuola pubblica. Perché non ci ho pensato prima?

lunedì 7 novembre 2011

Sììììì, se ne va!!!!

Ore 20, grido di esultanza dal piano di sopra:


"Sììììì, se ne va!!! Ce ne siamo liberati!!!"

Io e mio marito corriamo speranzosi davanti allo schermo del PC di mio figlio...
                                      ...quindi la delusione.


sabato 5 novembre 2011

Tra l'ansia e la rabbia

Questa estate, mentre imperversavano le discussioni sulla manovra economica, ho letto un opuscolo di Altreconomia dal titolo Paradisi perduti. Mi aveva colpito (e mi riproponevo di parlarne sul blog) perché, con estrema chiarezza, esso mette in evidenza l'enorme ricchezza che viene sottratta all'economia produttiva dai flussi illeciti di capitali, dall'evasione e dalla elusione grazie ai paradisi fiscali. Si parla di centinaia di miliardi di dollari di mancate entrate per tutti i paesi, sia quelli più ricchi sia (e soprattutto) per quelli più poveri. Nell'opuscolo sono spiegati, in modo semplice, i meccanismi del tutto legali che consentono l'elusione fiscale, quanto sia facile aprire una società offshore ed evitare di pagare un bel po' di tasse con espedienti come il tranfer pricing (cioè la vendita virtuale tra filiali della stessa corporation in modo che il guadagno risulti realizzato nel paradiso fiscale). "Ai voglia a far manovre e sacrifici!" ho pensato con rammarico.
Mentre continuavo a non trovare il tempo per scrivere su questo tema un po' ostico, la crisi è andata avanti e i temi economici sono talmente all'ordine del giorno che ormai tutti noi parliamo di spread e di debito pubblico. Così alla sensazione di impotenza che mi è rimasta dopo la lettura dell'opuscoletto, si è sommata la paura di non uscirne. Questo debito pubblico che aumenta di giorno in giorno ("non siamo ancora ai livelli della Grecia ma quasi, quindi tra poco tocca a noi"), questo mantra dei sacrifici da fare, questa sensazione di pericolo immaginando gli speculatori che con un click possono gettarci tutti sul lastrico, mi mette proprio ansia e mi fa vivere il benessere quotidiano come una sorta di vigilia della catastrofe.
All'ansia si è aggiunta la rabbia dopo aver visto la puntata di Report di domenica scorsa in quanto da ciò che ho appreso ho cominciato a vedere le cose sotto un'altra luce. Le riassumo un po' grossolanamente anche se il tema è complesso:
1) La ricchezza non è sparita, anzi, non ce n'è mai stata tanta, ha solo preso un'altra strada, quella della finanza, che non per niente è venti volte il PIL del mondo. Pare che un grande banchiere affermasse che "le crisi servono a far tornare le ricchezze ai legittimi proprietari". Dal dopoguerra agli anni Settanta la crescita economica ha portato un certo benessere diffuso ma poi il capitale ha cominciato a perdere profitti e si buttato sulla finanza.
2) Un broker intervistato ha dichiarato che il mondo finanziario pensa solo a se stesso e non dà alcun contributo alle imprese e che le scommesse della finanza (cioè non il semplice guadagnare sugli interessi per il capitale investito ma il poter vendere anche quello che ancora non si ha scommettendo sul suo ribasso) sono capaci di mettere in ginocchio il mondo.
3) Oggi più del 55% del nostro debito è in mano ad investitori stranieri che guadagnano appunto dalle scommesse sull'oscillazione del suo valore. Le banche di investimento possono quindi scommettere anche sul fallimento di uno stato. La politica di un paese allora risponde al mercato e non agli elettori, quindi non è più sovrana. La BCE si permette di dirci cosa fare ma essa non è un organo eletto ma al servizio delle banche private. Se lo permette perché gli stati nazionali europei, nella paura di cedere sovranità, si fanno mettere i piedi addosso; sono occupati a farsi concorrenza (come se il Texas cercasse di far le scarpe alla California) invece di mettere in piedi una politica economica e fiscale unitaria.
4) Non è sempre stato così. Dopo la crisi del 1929 fu sancita la Glass-Steagall Act che separava le banche tra istituti commerciali (banche tradizionali la cui attività è coperta dallo stato) e banche di investimento, dedite ad attività speculative. Negli anni Novanta, su pressione dei grandi banchieri e con la scusa che "il mercato penserà a regolare tutto", questa legge fu abolita. Le stesse banche che hanno causato la crisi del 2008-2009 e che sono state salvate con soldi pubblici, hanno ricominciato a speculare aggirando i paletti posti dopo il loro salvataggio.
5) Le famose agenzie di rating non sono arbitri indipendenti ma sono in collusione con i grandi interessi bancari, non c'è trasparenza su come danno i giudizi, quasi una situazione incestuosa. Gli Italiani devono quindi tirare la cinghia nei confronti delle dieci società che dominano il mercato finanziario.
Insomma poiché non si può pretendere che gli speculatori siano dei filantropi e vista la latitanza di un governo forte europeo (men che meno italiano), io la vedo buia. Sinceramente ho davvero paura del futuro.
Si riuscirà mai a mettere in riga i paradisi fiscali? Si riuscirà mai a far pagare la crisi a coloro che l'hanno causata? Si riuscirà mai a scoraggiare la speculazione finanziaria, anche solo non permettendo che si possa vendere titoli che non si possiedono? Si riuscirà mai a mettere (a livello mondiale altrimenti non serve) anche una piccola imposta sulle transazioni finanziarie come propone la campagna 0,05.it?
Intanto per non deprimermi del tutto, mi lascio andare alla commozione ascoltando Roberto Vecchioni (una mia vecchia passione di adolescente) sul palco di Piazza San Giovanni:


giovedì 3 novembre 2011

Quattro stracci lisi di millesettecento anni fa'

Forse nemmeno i Fiorentini sanno che nel Museo Archeologico di Firenze è conservata la più importante collezione egizia d'Italia dopo quella di Torino. Infatti non ci va mai nessuno tranne le scolaresche. Sabato scorso invece la brava Carlotta Ansaldi (della quale ricordo l'affascinante visita sui busti degli Imperatori Romani) ci ha guidato in un excursus sull'abbigliamento nell'Antico Egitto.
Forse a non molti interesserà sapere che è molto raro che siano arrivati fino a noi abiti e stoffe antiche a causa della loro difficile conservazione nei secoli e che, tranne per l'Antico Egitto e il Sudamerica, per capire come si vestivano nelle civiltà antiche, bisogna rifarsi esclusivamente alle raffigurazioni. Saranno state realistiche? Sì e no, ci ha spiegato l'archeologa. Sicuramente quello che rappresentavano era il meglio a cui tendevano ma non necessariamente il vero. Di qui sorge qualche dubbio sulla rappresentazione holliwoodiana dell'antica Roma. Per esempio, avete presente quegli elegantissimi vestiti a tubino delle dee egizie, stretti stretti e lunghi fino ai piedi? Beh, quando gli archeologi alla metà dell'Ottocento hanno cominciato a trovare nelle tombe egizie casse di tessuti, hanno notato che il modello era sì quello ma la larghezza era almeno il doppio. In effetti, a pensarci, non esistevano tessuti elasticizzati e con un vestito come quello della dea Hathor sull'affresco dalla tomba di Sethi I le donne egizie non avrebbero potuto assolutamente camminare.
Inoltre non bisogna dimenticare quanto la vita fosse disagevole anche in questo campo: niente bottoni o cerniere lampo, gli abiti erano tenuti su da spille e spilloni, si cuciva ovviamente tutto a mano e con aghi di osso, la filatura e la tessitura era fatta con mezzi arcaici e con ritmi massacranti. Ecco perché nel mondo antico l'abito faceva eccome il monaco: le classi meno abbienti si potevano permettere al massimo un perizoma, i sacerdoti magari un paio di bei gonnellini sovrapposti (NB solo i Celti e gli Etruschi portavano i pantaloni), e su su fino al faraone che vediamo indossare nell'affresco i suoi bei sandali, un morbido gonnellino, cinture colorate, pettorale e un elegantissimo mantello trasparente e plissettato che doveva costare un occhio della testa.
Il piatto forte della visita sono stati degli abiti e dei tessuti del periodo Greco-Copto (dal III secolo d.C. al 640, data dell'arrivo degli Arabi). Vediamo finalmente la lana (che gli Egizi non avevano mai lavorato perché considerata impura essendo di origine animale) e quindi un paio di calzini, una mantella intera con cappuccio e numerose decorazioni da applicare sulle tuniche frutto del distretto artigianale del Fayum. Vi si nota l'evoluzione dei soggetti, dapprima geometrici, poi mitologici ma con allusioni al Cristianesimo ed infine con espliciti temi Cristiani. Come sono arrivati fino a noi questi manufatti con i loro bei colori vividi? Conservati per secoli sotto l'arida terra egiziana (gli Arabi non toccavano le tombe) e poi venduti a peso dopo l'epoca napoleonica quando il saccheggio dei sepolcri andava a caccia più che altro di oro e gioielli, snobbando questi quattro straccetti che oggi invece hanno riacquistato la loro importanza storica.

lunedì 31 ottobre 2011

Ma dove sono io?

Pur rappresentando circa il 2% del peso del corpo, il nostro cervello consuma circa il 20% dell'energia necessaria per tenersi in vita, anche quando non lo usiamo. Ci vogliono circa diciotto anni per completare il processo di fetalizzazione, cioè di completamento della formazione del nostro cervello. Abbiamo circa cento miliardi di cellule nervose, ciascuna con diecimila collegamenti (le famose sinapsi) che cambiano molto velocemente creando continuamente reti neurali. Usiamo solo il 20% di questi possibili collegamenti e più usiamo un certo circuito più esso si rinforza. Tutto quello che percepiamo con i sensi arriva frammentato al cervello, adatto a rispondere a domande semplici e preordinate. E' la corteccia cerebrale che in un terzo di secondo annoda tutti i fili e rende ciò che è arrivato ragionevole e continuo. La guaina mielinica che ricopre il fascio nervoso che collega i neuroni fa sì che l'impulso nervoso abbia la velocità di un jet supersonico anziché quella di un uomo a piedi. Dalla sua presenza, che raggiunge il massimo intorno ai diciotto anni, o dal suo deteriorarsi dipende la velocità dei nostri riflessi.
Non mi stancherei mai di stare a sentire Edoardo Boncinelli, genetista e neuroscienziato dalla grande capacità divulgativa, autore di La vita della nostra mente, presentato anche a Le Storie-Diario italiano.
Quale argomento affascinante sono le neuroscienze! Gli esseri viventi, dice il professor Boncinelli, sono un miracolo della capacità di ottimizzare tutte le funzioni.
Ecco perché ho apprezzato molto le sue tre lezioni tenute al Festival della mente dell'anno scorso e riascoltabili sul sito: La mente e il corpo. Le tre età: la formazione, la maturità, l'invecchiamento.
Non mi stancherei mai di ascoltarlo anche perché è rassicurante. "La mente invecchia molto più lentamente del corpo. Per qualcuno quasi non invecchia. Non è vero che si perde la memoria, si perde la velocità nel richiamare i ricordi, soprattutto i nomi. Basta non arrabbiarsi e non spazientirsi: i ricordi sono lì e ci vuole solo un po' più di tempo per farseli tornare in mente."
Poi il neuroscienziato sconfina verso la filosofia con il concetto di coscienza che ha vari livelli, di cui il più alto, l'io fenomenico, consiste nella "mia personale percezione delle cose, dovuta alla mia storia personale e ai miei ricordi, alle mie inclinazioni e alle mie avversioni, e che nessun altro può afferrare fino in fondo." Un io unico e irripetibile, che non muore insieme al mio corpo e che, almeno per ora, non è possibile replicare. Ma dove si trova questo io? Per quello che ne sappiamo oggi, in quel milione di miliardi di connessioni sinaptiche del mio cervello.

venerdì 28 ottobre 2011

Proposta di legge per l'omicidio stradale

In questi giorni ci si commuove, giustamente, per la morte del pilota Simoncelli. La morte di un giovane è qualcosa di troppo innaturale e quindi inaccettabile. Non importa andare a cercare i dati statistici, per sapere però che l'incidente stradale è tra le prime cause di morte tra i giovani.
Capita così che un ragazzo di diciassette anni a bordo del suo scooter, senza infrangere alcuna norma stradale, venga travolto da un altro scooterista che guida positivo alla cannabis e con un tasso alcolemico di tre volte superiore al limite di legge (significa aver bevuto 15 birre o 2 bottiglie di vino). Capita anche che questa persona che ha spento una vita piena di speranze e di fiducia nel futuro, non solo non venga arrestato subito, ma in carcere non ci vada mai. Questo perchè non esiste per la legge italiana il reato di "omicidio stradale" e che quindi non sia previsto alcun aggravante per essersi messi alla guida in condizioni tali da diventare un arma letale e incontrollabile.
Confesso che mi costa tantissimo parlare di questo tipo di argomento perché, per motivi personali, esso mi provoca un'ansia enorme. Tuttavia mi sono fatta forza perchè ammiro molto quello che stanno facendo i genitori di Lorenzo Guarnieri (che frequentava lo stesso liceo dei miei figli) e perchè non mi sembra possibile che la loro sacrosanta proposta di legge non riesca a raggiungere le 50.000 firme necessarie.
Firmate per favore: www.omicidiostradale.it

mercoledì 26 ottobre 2011

Perché blog?


  • per sfogare le arrabbiature;
  • per condividere idee, emozioni, riflessioni, soddisfazioni, amarezze;
  • per ricevere commenti (pochi, anzi meglio pochi-ma-buoni che tanti-insignificanti-o-peggio-ancora-insultanti);
  • per consigliare qualcosa che mi è piaciuto;
  • per fare esercizio di scrittura (che ce n'è talmente bisogno, ché poi altrimenti si perde la capacità di mettere insieme un discorso, guarda quanta gente non sa più scrivere due righe);
  • per approfondire, elaborare, memorizzare, assimilare (ché se una cosa che mi colpisce non mi fermo a scriverla, a riassumerla, ad approfondirla con ricerche in rete, svanisce presto dalla mia mente, evapora ed è come se non l'avessi mai sentita/vista/vissuta, e finisce che mi chiedo: "da chi avevo sentito questa cosa? Chi era quello che aveva detto questo? Quand'è che ne ho sentito parlare?");
  • perché mi piace "confezionare" qualcosa (nessuna pretesa artistica o giornalistica, però che bello avere un'idea che piano piano prende forma, si butta giù un po' di parole e poi si cercano i link, e poi si lima l'Italiano, e poi si cerca la foto o la figurina, e poi si fa l'allineamento a destra, e poi il controllo ortografico, e poi si rilegge e si migliora, e alla fine si clicca su "pubblica post");
  • perché mi diverto, perché non vedo l'ora di ritagliarmi quel tempo per scrivere;
  • perché quando rileggo i miei vecchi post mi dico: "Però carino questo, non mi ricordavo di averlo scritto!"
  • perché se poi quello che pubblico piace o interessa qualcun altro, sono ancora più contenta.
Della serie, ogni tanto bisogna andare in loop e ricominciare dall'inizio. ;-)

lunedì 24 ottobre 2011

Il mondo che verrà

Sempre a proposito di trasmissioni che arricchiscono il cervello, molto interessanti ma anche comprensibili sono le lezioni di economia di Romano Prodi che vanno in onda il martedì alle 23 su LA7. Si tratta di tre lezioni, tenute presso l'Università di Bologna, destinate agli studenti italiani e stranieri e arricchite con schede riassuntive, che presentano un ampio respiro: i rapporti economici tra paesi e continenti, la crisi finanziaria e agricola, le risorse, l'energia, le disuguaglianze, i possibili rimedi.
L'economia, pur avendone ricevuto un'infarinatura a scuola, mi risulta sempre una materia ostica e mi dà anche l'impressione che in essa non vi siano tante certezze. Sono temi che in ogni caso, nel nostro mondo così interconnesso e globalizzato, non possiamo permetterci di non conoscere e il professor Prodi, oltre al suo consueto ottimismo (che personalmente non condivido molto), dimostra grande competenza e chiarezza.
Così ho appreso che gli Stati Uniti negli ultimi decenni hanno abbassato le tasse senza poterselo permettere, che spendono il 42% del loro bilancio per le spese militari contro appena il 7,3% della Cina, che il bilancio della California non è messo meglio di quello della Grecia ma può contare su una forte protezione dello stato federale, che l'Euro non fallirà perché la Germania, lo stato europeo economicamente trainante, non ha nessun interesse che esso fallisca, che la mancanza di cibo diventerà una delle principali cause dei prossimi conflitti, e tanti altri elementi utili a collegare la massa di notizie economiche di cui siamo bombardati ogni giorno.
Le prime due lezioni de Il Mondo che verrà sono rivedibili sul sito di LA7 mentre la terza lezione andrà in onda martedì 25.

sabato 22 ottobre 2011

L'angelo, il fantasma e la massa indifferente

Mio figlio deve farsi ricostruire il legamento crociato anteriore del ginocchio, rottosi tipicamente giocando a calcio. Alla fine abbiamo deciso di metterlo in lista di attesa per farsi operare da un noto chirurgo in un ospedale pubblico. D'altra parte, per fortuna, non è un intervento urgente, non gli impedisce di condurre una vita normale, salvo rinunciare a giocare a calcio finché non sarà operato e riabilitato.
Sono ormai passati quasi sei mesi e ci piacerebbe sapere almeno a che punto siamo della lista di attesa, giusto per farsene una ragione. Dopo diversi tentativi telefonando ad un numero al quale non risponde mai nessuno, approfittando di una mattinata libera, mi reco nel grande ospedale ortopedico per cercare di racimolare qualche notizia.
Comincio con il salire al sesto piano (dove avevamo fatto la prenotazione) e mi trovo davanti ad una porta con vetrate opache di quelle che tipicamente accedono ad una corsia di degenza e che si aprono solo dall'interno. Provo a suonare il campanello ma nessuno mi apre. Allora scendo a piano terra per chiedere in portineria se sto provando nel posto giusto oppure no. L'addetto guarda con aria perplessa il mio foglio di prenotazione e mi dice, con fare poco convinto, che devo andare al quinto piano. Anche qui trovo una porta chiusa e anche qui nessuno mi apre.
Torno al sesto piano sconsolata e rassegnata a forzare il mio carattere usualmente rispettoso di regole e di orari e, approfittando dell'uscita di una signora, mi intrufolo.
Nel corridoio deserto passa un'infermiera: "Mi scusi, so che lei non è la persona a cui mi dovrei rivolgere ma è molto che giro e vorrei solo sapere dove poter avere informazioni sulle liste di attesa." Mentre essa non accenna a fermare la sua andatura rimandandomi ad un altro giorno ed un altro orario, ecco che arriva il mio angelo: un'altra infermiera sopraggiunge e si offre di aiutarmi. Mi porta in un ufficio, mi fornisce il nuovo numero di telefono (quello che avevo naturalmente non era più buono), e, con mio riconoscente stupore, si offre di chiamare lei stessa seduta stante l'ufficio in questione. Ottiene così di sapere il nome della persona che può vedere le liste di attesa e mi indica dove trovare il suo ufficio.
"Grazie" le dico, "è stata molto gentile. E' grazie a persone come lei che questo paese non è ancora affondato."
Peccato che la stanza dell'addetta alle liste di attesa sia chiusa e priva di qualsiasi indicazione all'esterno. Di questa signora nessuno sa nulla salvo confermarmi che è proprio quello il suo ufficio. Una sorta di fantasma. D'altra parte di angeli è già tanto se se ne incontra uno al giorno.

giovedì 20 ottobre 2011

Il cheesecake dell'Elena


Tra i pochi negozi del quartiere che frequento, questa piccola bottega mi aveva subito incuriosita per la cura con cui era stata arredata. "Dolci e torte" recitava l'insegna, ma non si trattava di una pasticceria nel senso tradizionale del termine, di quelle in cui si fa a fare colazione la domenica, per intendersi. L'aspetto era quasi di una gioielleria e aveva anche degli orari un po' particolari, se ricordo bene.
Dall'esiguo assortimento dei dolci esposti in vetrina si capiva che erano fatti con ingredienti freschi e di stagione; niente a che vedere con quei dolci surgelati da tirare fuori dal frigo due ore prima dell'uso. Vi lavorava Elena, una ragazza semplice, dal sorriso dolce, simpatica ed estroversa. Stava sempre nel laboratorio retrostante a preparare le sue prelibatezze ed infatti, per accedere al negozio, bisognava suonare il campanello e farsi aprire.
Quando compravo un dolce da lei, chiedeva sempre se era per qualche occasione, per darmi candeline o decorazioni varie, mi chiedeva come era stata la riuscita dell'acquisto precedente e talvolta mi parlava dei suoi problemi familiari col padre malato e fratelli che non l'aiutavano.
Mi è dispiaciuto quando ha chiuso (e tra l'altro no so nemmeno che fine abbia fatto) anche se capisco che non poteva avere grande mercato. I suoi prezzi erano congrui per l'ottima qualità degli ingredienti ma di sicuro alti comparandoli a quelli dei dolci più industriali.
Ci mancano le torte dell'Elena e in particolare ci manca il suo cheesecake di cui mio figlio andava matto.
E adesso si apre il toto-negozio: cosa ci verrà al suo posto?

lunedì 17 ottobre 2011

I "Felici Pochi", gli "Infelici Molti" e i "Felici, nonostante"

Indagine Demos & Pi: "Lei si definirebbe una persona...

  • molto felice risponde il 19% degli intervistati
  • abbastanza felice 66%
  • poco felice 11%
  • per niente felice 3%
  • non sa, non risponde 1%

Secondo Ilvo Diamanti, ospite di questa puntata di Le storie - Diario italiano, il sorprendente numero di intervistati che si definisce felice si spiega sia con il bisogno di definirsi tale come risposta ai problemi che abbiamo, sia come riflesso condizionato, come difesa, tramite la piccola felicità personale, contro il mondo che ci grava addosso. Tutti ci lamentiamo che le cose non vanno come dovrebbero, ma sentiamo il bisogno di contrapporre a ciò la nostra personale felicità fatta di amicizie e affetti privati.
Comprensibile il fatto che il 98% dei giovani tra i 15 e i 24 anni si dichiarino felici, nonostante le incertezze che hanno davanti (a parte che se c'è stato un periodo in cui io mi sarei definita senz'altro infelice è stato proprio tra 15 e 18 anni). I due fattori che rendono i giovani più felici sono: la cerchia densa di relazioni sociali (basti pensare alla scuola) e la possibilità di progettare un futuro. Il tasso di felicità cala infatti sensibilmente negli ultrasessantacinquenni, a causa soprattutto della solitudine.
I sondaggi vanno presi ovviamente con le molle, afferma persino il professor Diamanti che su di essi ci campa, In effetti chi è colui che, intervistato al telefono un po' alla sprovvista, comincerebbe a lamentarsi delle proprie disgrazie piuttosto che tagliar corto con un "abbastanza felice"? Io stessa mi sono riconosciuta in quel 65% di abbastanza felici, nostante tutto.
Tuttavia il punto essenziale sarebbe mettersi d'accordo su cosa vuol dire felicità, dopo secoli di discussione e fiumi di parole, vedo un po' improbabile.
E se la simpatica Isabel si presenta sul suo profilo con la bella frase di Prevert: "Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare l'esempio", a me invece è venuta in mente un'idea di felicità in controtendenza, e cioè come libertà di non essere omologati, espressa magistralmente da Ela Morante nella "Canzone degli F.P. e degli I.M.". Temo che se la Demos & Pi facesse un'indagine "Lei si definirebbe un F.P. o un I.M.?" la percentuale dei primi sarebbe assai più modesta di quella dei secondi!


"Che significa F.P.? Si tratta di un'abbreviazione per Felici Pochi.
E chi sono i felici pochi? Spiegarlo non è facile, perché i Felici Pochi sono indescrivibili.
Benché pochi, ne esistono d'ogni razza sesso e nazione e poca età società condizione e religione.
Di poveri e di ricchi (però, se nascono poveri, loro, in generale,
tali rimangono, e se nascono ricchi, presto si fanno poveri)
di giovani e di vecchi (però difficilmente loro arrivano in tempo a farsi vecchi)
di belli e di brutti (a vero dire, loro pure quando siano volgarmente intesi brutti,
in REALTÀ sono belli; ma la REALTÀ è di rado visibile alla gente...
Insomma. Obiettivamente, per giustizia, qua si certifica, in fede, che gli F.P. sono tutti e sempre bel-lis-si-mi,
anche se per suo conto la gente non lo vede).
[...] E che significa I.M.? Si tratta, ovviamente, anche qui d'una abbreviazione per Infelici Molti.
E chi sono gli infelici molti? Sono TUTTI gli altri [...]".


"L’infelicità dei Felici Pochi è
più felice assai che non la felicità
degli Infelici Molti!
La felicità degli Infelici Molti
Non è allegra! Non è mai allegra!
Per quanto si diano da fare,
gli Infelici molti si devono rassegnare:
LA LORO FELICITà E’ TETERRIMA!questo è regolare!
E l’infelicità dei Felici pochi
Invece è allegra!ALLEGRA!
Dovunque, in ogni caso è allegra: nell’Antartide, o nei Conghi, o foss’amche fra le orchesse e fra i Cannibali
È allegra!
E come si spiega?Mah! La vita è un rebus non c’è rimedio!
Gli Infelici molti ci si possono addannare
Uniti con rinnovato impegno a lottare
Contro questa rogna paradossale
Impiegando tutta la loro energia morale
Industriale nucleare ecc. per combinare
Creazioni originalissime d’infelicità
Contro i Felici Pochi!
Macché!Macché!Non ce la fanno!Se ne devono capacitare
Che a conti fatti gli resta sempre da ingollare questo rospo:
l’infelicità dei
Felici pochi
È
Allegra!ALLEGRA!
AL-LE-GRA!
Nei ghetti
Negli harem
In Siberia
In Texas
A Buchenwald
In galera
Sulla forca sulla sedia elettrica
Nel suicidio.
"


venerdì 14 ottobre 2011

I nuovi mille

Letizia Maniaci, giornalista di Telejato, gira con la sua telecamera e riprende arresti e processi di mafiosi, intervista i suoi concittadini di Partinico sulla mafia. Letizia, nel suo lavoro, ha eredito la passione ed il coraggio dal padre Pino ("è diventata peggio di me e a questo punto non riuscirei a fermarla anche se volessi"). Telejato ha ricevuto tante minacce e intimidazioni. Pino Maniaci è stato malmenato. Tuttavia Letizia va avanti cercando di non pensare ai rischi che corre.

Laura Tartarini, giovane avvocato, ha difeso gratuitamente i giovani ingiustamente accusati di devastazione in occasione del Genova Social Forum. Laura ha studiato per ore e ore i numerosi video di quelle giornate ed è riuscita a far scagionare i suoi assistiti. "Ho fatto l'avvocato perché è una delle professioni che ti consentono di intervenire sulle ingiustizie" dice Laura.

Rosario Esposito La Rossa e Maddalena Stornaiuolo hanno messo su l'associazione VodiSca (che sta per "voci di Scampia, perché la voce è qualcosa che può rompere il silenzio dell'omertà") per sottrarre i ragazzi dalla strada e dalla camorra e coinvolgerli in attività sportive, teatro, musica, ecc. "Non abbiamo cercato il fiore in un deserto," dice Rosario, al quale la camorra ha ucciso un cugino disabile, "lo abbiamo piantato."

Quelle di Letizia, Laura, Rosario e Maddalena sono le storie raccontante nella prima puntata di un bel programma dal titolo "I nuovi mille" in onda su RAI2 il giovedì alle 24.30 (volevate che programmi così li trasmettessero ad ore umane?) ma che per fortuna si può rivedere su RAI.TV. Il programma si propone di andare a scovare storie di giovani italiani animati da ideali forti e valori profondi, esempi positivi di partecipazione e coraggio, come lo erano probabilmente coloro che presero parte alla spedizione garibaldina. In ogni caso una piccola iniezione di speranza, di cui abbiamo tanto bisogno.

"Un ruggito di sdegno e di approvazione surse unanime da quella folla di generosi. Io ne fui ritemprato e da quel momento ogni sintomo di timore, di titubanza e di indecisione sparve."
G. Garibaldi, Le memorie autobiografiche (1888).