lunedì 30 aprile 2012

Gli Etruschi i nostri antenati?

La mia esplorazione del territorio di Sesto Fiorentino e di Monte Morello è stata così divertente e soddisfacente che ho sentito il bisogno di raccontarla in diversi post. Dopo il fascino della manifattura Ginori (ahinoi, la Richard Ginori è stata messa in liquidazione proprio recentemente) e l'importante memoria delle vicende della Resistenza, un altro filo conduttore della mia piccola ricerca sono state le tracce del passato etrusco.
I Rasna (come essi si chiamavano), Tirreni secondo i Greci, Tusci o Etruschi secondo i Romani, erano un popolo affascinante, raffinato, un po' misterioso. Ai piedi di Monte Morello sono state rinvenute le tombe a tholos della Montagnola e della Mula risalenti al VII secolo a.C., cioè al cosiddetto periodo orientalizzante della civiltà etrusca. Soprattutto la prima, restaurata recentemente, con il suo tumulo di 70 metri di diametro e il suo dromos (corridoio esterno) di 14 metri realizzato con possenti pietroni di alberese, ci ricorda un po' le grandi tombe micenee. E se le ricche e importanti famiglie potevano permettersi una tomba a tholos nella piana fiorentina, come testimoniano i corredi rinvenuti, sulle pendici del monte sorgeva invece il più grande cimitero popolare della valle dell'Arno: la necropoli di Palastreto, utilizzata a partire dall'VIII secolo a.C. Di quest'ultima si possono vedere solo una ventina di buche circolari scavate nella roccia ove erano poste le urne cinerarie, alcune singole, altre "gemelle" che fanno pensare a tombe di famiglia. Il sito è accessibile liberamente nel bosco e non è mai stato ritenuto degno di scavi approfonditi. Ciò nonostante è così suggestivo immaginare che quelle pendici fossero frequentate "dai nostri antenati Etruschi", per usare un'espressione cara all'archeologo che ci guida sempre con gli Amici dei Musei.
Contagiata anch'io dalla suggestione dei "nostri antenati Etruschi", per singolare coincidenza, mi sono imbattuta proprio in questi giorni nella conferenza che Guido Barbujani, ordinario di Genetica all'Università di Ferrara, ha tenuto un paio di anni fa' per il festival "Dialoghi sull'uomo" di Pistoia, proprio con il titolo: "Perché i Toscani non discendono dagli Etruschi".
Barbujani e il suo team hanno studiato il DNA dei reperti etruschi, con le enormi difficoltà che comporta avere pochissimi campioni a disposizione, che non fossero stati troppo manipolati o danneggiati, ecc. Gli studiosi lo hanno quindi confrontato con il DNA delle attuali popolazioni di tre zone toscane (Casentino, Murlo e Volterra) e anche di quella dell'Anatolia (dalla quale secondo un'antica tesi, oggi non più considerata attendibile, gli Etruschi discendevano). Infine hanno fatto delle complesse elaborazioni statistiche secondo le quali è risultato che:
1) la Toscana non è abitata da gente geneticamente identica ma vi sono componenti molto diverse del genoma.
2) Vi sono delle affinità tra gli abitanti del Casentino e quelli dell'Anatolia ma le due popolazioni si sono scambiati i genomi in un periodo che risale almeno a 13.000 anni fa (quindi nel neolitico o forse prima). Niente a che fare con gli Etruschi.
Ho riassunto in un'impietosa sintesi l'interessantissima conferenza del Professor Barbujani, così piena di stimoli, che consiglio davvero di scaricarne l'audio o il video dal sito del festival.
Ognuno di noi è convinto di far parte di una comunità che da secoli occupa una certa località. Tuttavia è preferibile avere la consapevolezza che l'identità genetica è una grande bufala e, anzi, forse è persino un handicap.
Antenati o meno, mi piace pensare con affetto e simpatia ai nostri Etruschi che vivevano a Sesto Fiorentino. Chissà se parlavano con la "c" aspirata. ;-)

domenica 29 aprile 2012

Oro bianco dalle mani dei "barbagianni"

I lavoratori della manifattura Ginori venivano chiamati affettuosamente "barbagianni" perché uscivano dalla fabbrica tutti imbiancati di caolino. Parto di qui per raccontare la storia di una produzione che è anche la storia di un territorio, un territorio che mi è familiare e nel quale lavoro da dieci anni ma che solo di recente, preparando un'escursione, mi sono divertita a scoprire, indagare, perlustrare. Ho appreso in tal modo che la manifattura delle porcellane di Doccia nasce nel 1737 grazie a Carlo Ginori, appartenente ad una antica e ricca famiglia fiorentina. Uno che aveva tutto, Carlo Ginori, ma in più aveva la passione per la chimica e l'alchimia e soprattutto per quel materiale splendido e preziosissimo che chiamavano "oro bianco" e che per secoli si sapeva fare solo in Oriente. Grazie ai suoi viaggi da diplomatico a Vienna, Carlo viene a conoscenza del segreto per fare la porcellana: il caolino. Tornato a Doccia, compra la villa Buondelmonti (accanto alla sua splendida dimora) e mette tutti i suoi contadini a lavorare a quest'impresa. Economicamente la sua attività sarà in perdita perché il suo è un interesse artistico e artigianale mirato a creare superbe e costosissime sculture più che oggetti di uso quotidiano.
Sarà il figlio Lorenzo e poi il nipote Carlo Leopoldo a fare della manifattura Ginori un'impresa di successo, conosciuta in tutto il mondo, con 1400 operai e qualcosa come quattro milioni di pezzi prodotti all'anno alla fine dell'Ottocento. Ma oramai la fabbrica ha perso i connotati artigianali e quasi familiari del tempo di Carlo Ginori, per assumere quelli tipici dell'era industriale, comprese condizioni di lavoro dure e logoranti.
Nel 1896 la Ginori si fonde con la Società Ceramica Richard di Milano, un ulteriore passo verso l'industrializzazione e si trasferisce, negli anni Cinquanta del Novecento, nell'anonima piana fiorentina. Oggi i lavoratori della Richard Ginori combattono perché lo stabilimento non sia chiuso e la produzione non sia delocalizzata altrove dal nuovo padrone, la Starfin S.p.A.
A dir la verità le porcellane non mi hanno mai entusiasmato ma da quando ho approfondito queste vicende comincio a capire tutto il fascino della creatività umana che sta dietro a questi oggetti: dall'idea astratta, alla cura posta in tutte le fasi di lavorazione, alla soddisfazione per un prodotto di eccellenza. Ci si rende conto di questo visitando il Museo di Doccia dove ho visto le sculture barocche realizzate al tempo di Carlo Ginori e i serviti lussuosi dei grandi committenti e ho capito tutto il lavoro e la sapienza che questa produzione porta con sé.
Infine come non amare questa storia dopo averla sentita raccontare mirabilmente da Silvia Frasson nello spettacolo "Quando non avevamo niente e poi venne il signore della porcellane" il quale, attraversando le sale della villa Buondelmonti, mi ha fatto rivivere 270 anni di storia a due passi da casa mia.

mercoledì 25 aprile 2012

Per non dimenticare


Tra i miei desideri di bambina, annotati scrupolosamente sul diario, vi era "di essere una fanciulla della Resistenza". Di certo risentivo dell'influenza della mia maestra che mi aveva sempre dipinto quelle vicende con un'aura epica e non capivo quanto ci fosse di quotidianamente pericoloso nell'essere, per esempio, una staffetta partigiana. Così, quando con i miei andavo su Monte Morello per i tipici picnic estivi, mi piaceva talvolta allontanarmi un po' nel bosco fino alla lapide per i caduti della Battaglia di Fonte dei Seppi e, immersa nel silenzio rotto solo dallo stormire degli alberi, fantasticavo di veder spuntare tra essi questi partigiani con il loro fucile. Solo recentemente, studiando questo territorio, ho scoperto che in quella zona nel 1944 il bosco non c'era (frutto di rimboschimenti successivi) ma solo brulla macchia. Morirono tutti i ragazzi della Brigata Fanciullacci, tutti tranne Silio Fiorelli, detto Saltamacchie, che strisciando tra i rovi e approfittando della polvere alzata dalle bombe a mano, riuscì a fuggire. Lo videro passare di corsa verso il suo paese, graffiato e stravolto, gridando "Li hanno ammazzati tutti!" Non ebbe il coraggio di dire ai suoi genitori che nella battaglia era morto anche suo fratello, Egizio.
Davvero un periodo drammatico, quello dell'estate del 1944, per il territorio di Sesto Fiorentino e di Monte Morello (come per tutta la Toscana). Nelle mie recenti perlustrazioni, mi sono imbattuta anche nella lapide che ricorda Pietro Quinteri, che non era un partigiano, ma che lasciò la vita per mano tedesca davanti alla Villa di Carmignanello, dopo aver partecipato ad un'azione insieme ai soldati alleati. Così come a Querceto ho appreso del martirio di Don Eligio Bortolotti, giovane parroco originario del Trentino, che si prodigò per proteggere i suoi parrocchiani e che fu torturato e fucilato dai Tedeschi il 5 settembre.
Particolarmente toccante la storia dei 23 bambini e del giovanissimo chierico colti dalle bombe alleate in via delle Porcellane, l'8 febbraio 1944, mentre rientravano nel Collegino di San Pietro che li ospitava. I pompieri della Manifattura di Doccia impiegarono quattro giorni per ritrovare i loro resti e di tre bambini non fu ritrovano nulla. Nessuno dei frequentatori del Cimitero Maggiore di Sesto Fiorentino mi sapeva indicare la loro sepoltura finché finalmente un anziano signore me l'ha mostrata ed ha aggiunto: "Pensi che uno di quei bambini era mio compagno alla scuola elementare."
Oggi è il 25 aprile e mi sembra giusto ricordare questi avvenimenti e queste vittime.

lunedì 23 aprile 2012

Cinquant'anni insieme


Cinquant'anni di vita insieme non sono uno scherzo. Quante cose passate insieme! I primi anni: i salti mortali per farsi bastare lo stipendio del babbo, io e mia sorella arrivate subito ad invadere la vostra intimità, l'acquisto della Cinquecento Giardinetta, io che comincio ad andare a scuola e mi accorgo che i miei genitori sono più giovani di quelli delle mie compagne. E poi l'assunzione del babbo in ferrovia che vi portò un po' di tranquillità e i nostri primi viaggi con il dopolavoro ferrovieri. Poi la mamma che comincia a lavorare fuori invece di farsi sfruttare con il lavoro a domicilio e il babbo che si deve adattare a qualche faccenda domestica (la storica frase "questa famiglia va a rotoli" perché gli si era scotta la pasta). Il babbo che riesce a prendere la licenza media e qualche screzio tra voi che noi, ormai adolescenti, eravamo in grado di captare. E poi il mio andarmene di casa ostinatamente voluto, il vostro trasferimento finalmente nella casa di proprietà dopo anni di affitto. Il matrimonio di mia sorella e l'arrivo dei nipoti. E in questi ultimi anni la vostra meritata pensione e la vostra simbiosi sempre più stretta. 
Voi due, una coppia come tante ma nello stesso tempo unica. Ai miei occhi di figlia, quanto di meglio avrei potuto avere come genitori. Auguri!

domenica 22 aprile 2012

Riflessioni di un'ambientalista perplessa


Oggi è la Giornata Mondiale della Terra. Non ho capito bene cosa sia e a cosa serva questa iniziativa. Sono un po' scettica verso questo tipo di eventi spot (come, per esempio, il "M'illumino di meno") perché penso che alla Terra dovremmo pensarci un po' tutti i giorni.
Ha ragione infatti la mia amica blogger Alchemilla quando scrive che il "green" è ormai diventato una moda, spesso una scusa per proporre nuovi bisogni e indurre nuovi consumi, pur ecosostenibili. Così come è vero che, in certi ambienti, di livello sociale e culturale medio-alto, fa chic consumare bio, naturale, ecologico, ecc. La sua riflessione mi ha fatto venire in mente la clientela che osservo quando mi reco in un piccolo supermercato "naturale" vicino a casa mia. L'altro giorno alla cassa mi precedeva una coppia di una certa età. Lei di aspetto ordinario, lui portava un orecchino e i capelli grigi lunghi raccolti in una coda. Hanno speso circa 130 Euro per una serie di prodotti rigorosamente vegan e bio ma di tipo industriale, a lunga conservazione, imballati con un bel po' di plastica e di provenienza estera (a giudicare dalle etichette). C'erano persino un sacchetto di snack tipo patatine fritte, dall'aria veramente poco "naturale".
D'altra parte è anche vero che in molti altri contesti, forse per una questione di cultura, di ceto o anche semplicemente di età, la sensibilità ambientale non c'è proprio e si hanno altre priorità rispetto a misurare la propria impronta ecologica ed a cercare di diminuirla.
Ha ancora più ragione Alchemilla nel sottolineare nel suo post alcune contraddizioni che stanno dietro a questo tipo di consumo, contraddizioni che tuttavia sono inevitabili perché è impossibile vivere "ad impatto zero", salvo forse per chi ha la vocazione all'ascesi (ricordo una giovane coppia incontrata durante un viaggio a piedi che viveva di autosussistenza ai margini di un bosco con un paio di bambini piccoli e sinceramente la loro scelta mi lasciò alquanto perplessa).
L'importante, secondo me, è avere la consapevolezza e chiedersi sempre se il proprio stile di vita può essere migliorato dal punto di vista dell'impatto ambientale. Per esempio, io sono consapevole che l'uso di tovaglioli e fazzoletti di carta usa-e-getta, anche se con il marchio ecolabel, non sbiancati, ecc., è più impattante rispetto all'utilizzo di quelli di stoffa. Tuttavia la mia scelta è frutto di un compromesso personale perché non sono disponibile ad impiegare il tempo necessario per lavare, stendere, ripiegare o, peggio ancora, stirare fazzoletti e tovaglioli di stoffa. Ho fatto questo banale esempio ma ne potrei fare tanti altri.
Alla fine lo stile di vita occidentale capitalista basato sui consumi si può rendere più ecocompatibile ma difficilmente si potrà stravolgere. Le auto inquinano? Se ne producono di meno inquinanti ma di rendere il trasporto pubblico efficiente e praticabile per tutti non se ne parla proprio. La terra soffoca di sacchetti di plastica? Si sostituiscono quelli più inquinanti con modelli più degradabili ma ad ogni acquisto il negoziante ti ripropone sempre e comunque un sacchetto anche se gli fai vedere ti sei portata diligentemente la sporta.
Tra mode e contraddizioni, come dice il sottotitolo di Alchemilla, "sempre meglio di niente", accingiamoci a celebrare questa Giornata Mondiale della Terra.

lunedì 16 aprile 2012

Il pericolo dell'antipolitica

Alcuni storici segnano con il 10 giugno 1924, data del delitto Matteotti, la nascita del fascismo, non più come movimento pararivoluzionario, ma come regime. "La dittatura è un frutto avvelenato della democrazia" afferma Giovanni Borgognone, docente dell'Università di Torino, autore di "Come nasce una dittatura" e ospite a Le Storie - Diario Italiano.
Una democrazia dovrebbe tenersi in equilibrio tra due poli in concorrenza fra loro: i partiti da un lato e i leader carismatici che si appellano direttamente al popolo dall'altro. Gli inevitabili pericoli dei due poli sono, da un lato, la partitocrazia, il potere nelle mani dei funzionari di partito, e dall'altro il leader plebiscitario che può sfociare nella dittatura. Fin qui niente di nuovo.
Tuttavia il quadro che Borgognone traccia dell'Italia dei primi anni Venti fa accendere qualche campanello d'allarme nella mia mente. Approfittando della crisi economica e della impotenza della politica, il fascismo si affermò come movimento anti-istituzionale e Mussolini come leader nuovo, uomo dell'antipolitica, figura che si opponeva ai partiti, sinonimo di corruzione. Peccato che il leader, una volta arrivato al potere, si sia portato dietro un proprio partito, una propria corte da basso impero. Addirittura si scopre che vi erano persino i "fascisti padani", cioè quel gruppo di intransigenti che faceva capo a Farinacci e che accusavano Mussolini di essersi "romanizzato" perdendo lo spirito sanguigno originario della Pianura Padana.
Mussolini fu il primo uomo politico in Italia a rivolgersi direttamente alle masse. Il vecchio Giolitti, uomo di esperienza e per niente sprovveduto, fu talmente spiazzato da questo uomo nuovo spuntato dal nulla che, come tanti, pensò erroneamente che potesse servire per stabilizzare il paese per poi tornare a governarlo con la vecchia partitocrazia.
L'opposizione? Anche allora divisa: i liberali passarono all'opposizione, i cattolici e i socialisti si ritirano sull'Aventino confidando erroneamente sul Re e sulla reazione della stampa. Essi vollero rimanere nei limiti costituzionali temendo che una reazione delle masse sfociasse in una rivoluzione. I comunisti invece, guidati da Gramsci, formarono un parlamento alternativo che doveva essere l'anticamera ai comitati degli operai e dei contadini.
Solo Gobetti, genio liberale capace di leggere contemporaneamente Marx ed Einaudi, aveva capito che il mussolinismo era assai più pericoloso del fascismo in quanto confermava nel popolo l'abito cortigiano, la tendenza alla comoda soluzione di un deus ex machina che ci togliesse dai guai.
Fino al 3 gennaio 1925, quando Mussolini rivendicò la responsabilità morale del delitto Matteotti ("se il fascismo è stata un'associazione a delinquere io ne sono il capo"), secondo Giovanni Borgognone, l'evoluzione degli eventi non era affatto scontata e si poteva ancora evitare lo scivolamento nella dittatura.
Non è tanto importante fare parallelismi precisi con la situazione odierna che risulterebbero forzati, quanto drizzare le antenne e pensare che nel 1924 l'Italia era comunque una democrazia, c'era una stampa libera, una magistratura indipendente e un sistema pluralistico di partiti. Per questo, al di là delle indiscutibili differenze, provo sempre una sensazione di disagio di fronte alle legittime reazioni di disgusto verso i partiti del tipo "son tutti uguali" o ancora peggio di fronte all'investitura popolare di nuovi guru che ci dovrebbero salvare promettendoci tabula rasa di tutto ciò che è stato.

giovedì 12 aprile 2012

Se anche De Mauro fu bocciato...

Che l'adolescenza sia un'età difficile e delicata è fuori dubbio. Si è così impegnati a costruirsi una personalità, a capire chi siamo e cosa vogliamo, a "manipolare" questo io che non è più bambino ma non è ancora adulto, che non ci restano tempo e voglia per fare quello che la società ci chiede: studiare. Studiare? A che servirà mai? Sì, va bene, come ci dicono i grandi, bisogna studiare per farci una cultura, magari forse una posizione o comunque per acquisire gli strumenti per affrontare la vita. Ma a quattordici, quindici, sedici anni altre sirene chiamano con più prepotenza: dalla voglia di affermarsi nel gruppo dei pari (quanta maggiore soddisfazione sparare cazzate tra compagni piuttosto che seguire la lezione!), al desiderio di cimentarsi in quello che ci piace (dal calcio alla musica rock) finanche al richiamo per il gioco dei bei tempi che furono (la fida playstation è sempre a portata di mano).
Ecco che in tutto questo quadro (nel quale qualcuno di famiglia si riconoscerà) tocca invece impegnarsi perché la fine della scuola incombe e c'è da rimediare le insufficienze, onde non giocarsi l'estate o, peggio ancora, l'anno.
Che il successo scolastico non misuri il valore di una persona è confermato da illustri esempi (oltre ad Einstein noto a tutti, scopro che anche Andreotti ha ripetuto la terza media). Uno di questi pare sia Tullio De Mauro, famoso linguista, professore in diverse università, accademico della Crusca ed ex Ministro della Pubblica Istruzione, il quale, intervistato a Fahrenheit sul suo ultimo libro "Parole di giorni un po' meno lontani", racconta che non ebbe vita facilissima come studente, nemmeno con i temi.
Alle medie, per esempio, si era incaponito nell'usare un periodare molto frammentato, di cui andava molto orgoglioso, perché secondo lui esso doveva mimare l'andamento di un ruscello impetuoso vicino alla sorgente per diventare più ampio via via che il fiume proseguiva il suo corso. "Periodetti singhiozzanti" fu il giudizio della professoressa sul tema.
Il ragazzo Tullio De Mauro leggeva molto anche a quell'epoca ma se lo teneva per sé, come succede a tanti ragazzi (o forse "succedeva"). Al Ginnasio fu persino bocciato da un professore che lo aveva preso di mira, rimandato ad ottobre e messo in crisi durante l'esame per farlo fallire. Il linguista afferma però di non esserci rimasto troppo male e di averlo vissuto come un anno di quiete, nel quale ebbe l'opportunità di studiare meglio e di leggere di più, un incidente di percorso quindi.
"Ha tenuto conto di queste esperienze quando è stato chiamato a fare il ministro?" chiede l'intervistatrice. "Sono state un modello di riferimento costante" risponde il professore e sottolinea la necessità della qualità degli insegnanti come risolutiva all'interno della grande complessità del sistema scolastico, elemento senza il quale l'organizzazione e gli investimenti servono a poco.
Tornando ai nostri ragazzi, al di là di quello che faranno nella vita, ritengo comunque che debbano imparare a misurarsi con le difficoltà e la scuola può essere comunque una buona palestra in questo senso.

domenica 8 aprile 2012

Un giorno di ferie in meno alla settimana


Secondo l'ultimo Rapporto Censis le donne italiane che lavorano hanno 7 ore di tempo libero settimanale in meno degli uomini.
"C'era bisogno che ce lo dicesse il Censis?" è stato il commento della mia collega quando, l'altro giorno, si parlava della stanchezza quotidiana e del poco supporto da parte dei mariti. E invece secondo me è importante che vi siano documenti ufficiali che avvalorino e rendano oggettiva quella sensazione perenne di stanchezza, quell'ansia di non riuscire mai a mettersi in pari, che viviamo costantemente noi donne che lavoriamo sia fuori che in casa.
Ha fatto bene quindi Linda Laura Sabbadini, direttrice del Dipartimento statistiche sociali e ambientali dell'Istat, intervistata su questi temi a Fahrenheit Radio 3, a sottolineare che, se vi è stato un indubitabile avanzamento delle donne italiane negli ultimi decenni, esso è avvenuto ad un prezzo assai alto. Secondo le statistiche infatti, le donne italiane lavorano, se si somma il lavoro di cura con quello extradomestico, più di nove ore al giorno, compresi sabato e domenica.
L'aiuto da parte dei partner è senz'altro aumentato (più nel Centro-Nord che nel Sud) ma l'asimmetria nella divisione dei lavori all'interno della famiglia si è ridotta di miseri otto punti negli ultimi vent'anni passando dall'80% delle ore di lavoro di cura assorbite dalle donne al 72%.
Riguardo ai figli, pare che la parità tra i sessi sia quasi raggiunta nelle nuove generazioni ma tutta giocata al ribasso: il 63% dei figli maschi e il 47% delle figlie femmine dichiara di non dare nessun aiuto domestico.
Insomma le donne della mia generazione, tra i 40 e i 60 anni, vivono schiacciate tra il lavoro fuori casa, preziosa opportunità di autonomia e di realizzazione personale ma anche, per molte, necessità economica dettata dal costo della vita, il lavoro domestico, per il quale non riceviamo (o, se preferite, non siamo capaci di conquistare) grande aiuto, il lavoro di cura prima verso i figli piccoli poi verso i genitori anziani e l'impossibilità di andare in pensione per ancora diversi anni.
"C'era bisogno dell'Istat?" direbbe la mia collega (che comunque, come me del resto, può ritenersi fortunata per diversi motivi). Sì, ritengo che ci sia bisogno. Ritengo che si debba sapere che se queste donne dovessero mollare perchè non ce la fanno più, sarebbe dura per tutti, uomini, donne, giovani, vecchi e bambini. Meditate, gente, meditate.

giovedì 5 aprile 2012

Beata informatizzazione!

Bisogna arrendersi all'avanzare del progresso tecnologico (se di "progresso" si tratta) e rassegnarsi a subire l'informatizzazione della nostra vita.
E così se ho bisogno di informazioni riguardo ad una spedizione in arrivo dal Canada vado sul sito del corriere incaricato e digito il codice della spedizione. "Vuoi essere avvisato dello stato della spedizione?" Sì, certo! Peccato che il campo non accetti il mio indirizzo di lavoro che è strutturato come xxx@zzz.it e continua a dirmi "indirizzo non valido". Ma come non valido? Ci ricevo posta tutti i giorni! Scopro dopo vari tentativi che la form prevede solo indirizzi strutturati con xxx.yyy@zzz.it, cioè bisogna per forza averci un nome.cognome anche se uno il cognome sull'indirizzo non ce l'ha!
Caso due della giornata lavorativa. Il mio ufficio legale mi informa costantemente per email sulla normativa che esce. Ottimo servizio! Mi arriva così la notizia di una circolare di un ente che potrebbe interessarmi. Clicco sul link ma questo non funziona (non ho capito se è sbagliata la sintassi oppure se punta ad una pagina interna). Mal di poco: San Google mi aiuta a trovare la circolare. Penso che sia bene avvertire i colleghi dell'ufficio legale perchè magari siano consapevoli del problema. Peccato che i mail al loro indirizzo tornino indietro. Avranno configurato male l'account di posta? E chi lo sa!
La circolare in questione è veramente la ciliegina sulla torta. Nel suo ostico burocratichese ("la ratio fondamentale della novella normativa"), fa riferimento infatti ad uno dei provvedimenti di questo governo che mira appunto alla "decertificazione" e all'informatizzazione della burocrazia. In particolare, una Pubblica Amministrazione non può richiedere al cittadino certificati che sono in possesso di un'altra P.A., ma se li deve acquisire autonomamente da quest'ultima. Giusto! Sacrosanto! Ma saranno in grado le pubbliche amministrazioni di "parlarsi"? I loro sistemi informatici, tipicamente creati ognuno con criteri completamente diversi dall'altro saranno in grado di scambiarsi documenti? E i dipendenti pubblici saranno abbastanza svegli e volenterosi per lavorare in modo snello ed efficiente? Oppure ci sentiremo dire, come è successo a mio marito dall'impiegata di una biblioteca comunale, che non ci possono mandare comunicazioni via email "perché non ce l'hanno insegnato"?
Niente paura: il governo tecnico non si frega con così poco e ci schiaffa nel decreto un bel divieto, non solo di richiedere ai privati cittadini le certificazioni in questione, ma persino di accettarle se egli a tutti i costi, probabilmente per sveltire la pratica della quale è il primo interessato, le fornisce di sua volontà. "Entrambi i comportamenti costituiscono violazione dei doveri d'ufficio". Ahiahiahi, da cittadina e da pubblica impiegata mi metto le mani nei capelli! Qui prima si disegna il libro dei sogni e poi... se ci riesce... forse un domani... si realizza.
Meno male che nella circolare c'è sempre la parolina magica del burocrate: "nelle more..."

lunedì 2 aprile 2012

Come nasce la mafia

Il giorno in cui David Copperfield arriva al collegio Salem fa la conoscenza con i suoi nuovi compagni ma capisce che non è considerato definitivamente ammesso prima dell'arrivo di James Steerforth, discendente di una ricca famiglia, di sei anni più grande del protagonista del romanzo di Dickens e molto ammirato da tutti, tanto che egli dice "Fui condotto alla sua presenza come dinanzi ad un magistrato." Nonostante Copperfield non riceva un'impressione cattiva di questo personaggio (che poi invece si rivelerà egoista e crudele), a me ha colpito subito negativamente per i suoi modi che definirei "mafiosi":

"Quanto denaro hai, Copperfield?" mi chiese poi.
Gli dissi che avevo sette scellini.
"Sarebbe meglio che tu me li dessi per serbarteli; se credi."
Mi affrettai ad obbedire.
"Desideri comprare qualche cosa? Che ne dici?"
"No, grazie," risposi.
"Forse ti piacerebbe spendere uno o due scellini in una bottiglia di vino per berla in dormitorio. Tu sei nel mio dormitorio a quanto pare."
Certamente non mi era mai passata per la mente un'idea simile, ma mi affrettai a dire che ciò mi sarebbe piaciuto.
"Benissimo. Forse ti piacerebbe spendere anche un altro scellino per comprare dei pasticcini di mandorle."
Dissi di sì, che mi sarebbe piaciuto anche quello.
"E uno scellino in biscotti e un altro in frutta? Che te ne pare?"
Sorrisi, perché egli sorrideva, ma mi sentivo a disagio.

Naturalmente Dickens, quando scrisse questa scena, non pensava certo alla mafia, ma d'altra parte Steerforth, ragazzo ricchissimo, non aveva certo bisogno degli scellini del piccolo e ingenuo nuovo arrivato. Il suo era solo un modo per imporre da subito il suo potere, per renderlo immediatamente suo complice e quindi tenerlo in pugno. Non meraviglia quindi che, poco più avanti nel romanzo, Steerforth userà la sua posizione privilegiata per umiliare e far licenziare un insegnante, reo di aver preteso da lui un comportamento analogo a quello preteso da tutti gli altri. Cos'altro è la mafia se non questo: insinuarsi ove c'è una debolezza e una fragilità delle persone o delle istituzioni per affermare il proprio potere e i propri interessi egoistici?
Pier Camillo Davigo, ospite a Le storie - Diario Italiano afferma che, nella scuola italiana, il rapporto insegnante-studente può essere preso come la metafora del rapporto Stato-cittadini in quanto i ragazzi tendono a coalizzarsi tra loro in danno dell'insegnante. A tal proposito, il magistrato racconta che, pur avendo fatto le scuole in Lombardia, ha ricevuto alle elementari una "formazione mafiosa".
"Quando il maestro usciva di classe lasciava al capoclasse l'incarico di segnare alla lavagna i buoni e i cattivi. Il nostro capoclasse segnava i buoni sulla base di rapporti clientelari (chi gli dava un pezzo di cioccolato, chi lo faceva giocare con il pallone, ecc.) mentre i cattivi non li segnava mai. Se qualcuno cominciava a far baccano cominciava a scrivere le prime lettere del cognome e immancabilmente dai banchi partiva l'epiteto "spia!". Si è spia nei confronti del nemico invasore o del tiranno, non nei confronti della legittima autorità. Nessuno di noi aveva mai dubitato che il maestro fosse la legittima autorità e nemmeno che il capoclasse, sia pur fetente, lo fosse per delega del maestro. Ma in quel contesto il grido "spia!" diventa l'apologia dell'omertà che è uno dei pilastri fondanti della cultura mafiosa.