Tutto comincia alle sei del mattino, aspettando l'autobus nella piazza del mio quartiere, insolitamente deserta e silenziosa. Parto per la Calabria, anzi, per il Crotonese, zona che non conosco affatto.
Alla sede del campo di Libera di Isola di Capo Rizzuto mi attende una piacevole sorpresa ma anche una piccola delusione. La prima è il nuovissimo ostello, situato in una posizione magnifica, circondato di campi coltivati dalla
Cooperative Terre Joniche a legumi e cereali e da tante pale eoliche. La punta di delusione invece la provo conoscendo il gruppo che dividerà con me la settimana: metà di adolescenti (che tra l'altro già si conoscono e dei quali a stento riuscirò a sentire la voce) e metà di pensionati con cui ho già avuto esperienza in precedenti campi. E così, al di là dell'affabilità dei singoli, mi accompagnerà un senso di estraneità per tutta la settima come è successo in altre occasioni.
L'esperienza però è riscattata ampiamente, oltre dal luogo sopra descritto, dal lavoro su queste terre confiscate alla ndrangheta. Vasti terreni confiscati due volte: la prima negli anni Cinquanta ai nobili latifondisti a causa della riforma agraria e la seconda negli anni Novanta alla potente famiglia degli Arena.
Ho provato grande ammirazione per i soci della cooperativa Terre Joniche che, tra mille difficoltà e molta indifferenza, riescono a mandare avanti la loro scommessa di un lavoro onesto e pulito.
Mi porto a casa l'aria fresca del mattino sulla mia pelle mentre raccolgo i fagiolini e strappo le erbacce nell'orto della cooperativa oppure mentre aiuto a ripulire dalle erbe infestanti il bel giardino aromatico del podere Cepa, anch'esso confiscato e assegnato alla cooperativa per usi sociali.
Così come mi porto a casa un campione di baccelli di ceci, cicerchie e favino a cui ripenserò quando sarò a vendere i prodotti di Libera nella bottega di cui sono volontaria.