"- Vede, dottore, qui il 31 dicembre festeggiano così, sparando. Intorno alle sette io e i miei ragazzi dobbiamo chiuderci dentro la caserma, non possiamo uscire fino a quando non hanno finito di "festeggiare". [...]
Ero senza parole. Avevano sparato contro tutto ciò che lì rappresenta lo Stato. Lo facevano tutti gli anni. Tutti gli anni costringevano lo Stato a nascondersi, a lasciare campo aperto, ad arrendersi. Attribuire a questi fatti il valore di una dimostrazione simbolica della supremazia della 'ndrangheta è un modo fin troppo semplice di liquidare la questione. Si tratta di qualcosa di molto più importante di un simbolo.
E' la prova tangibile dello strapotere che può sfacciatamente dilagare, del crimine che ha ragione delle regole, dell'indifferenza di chi costringe uomini con la divisa a umiliarsi, a offendere il proprio giuramento, la propria fedeltà allo Stato, alle sue leggi. Un paese che tollera eventi come questo è un paese arreso, inerte, addirittura complice. Che si tratti di colpi sparati a edifici o alle persone, non cambia nulla.
Quale speranza può dare uno Stato che accetta consapevolmente di subire, con quale coraggio si chiede a qualcuno di collaborare, a un testimone di rispondere, a una vittima di denunciare? Perché dovrebbero fidarsi di noi? Perché le persone dovrebbero ragionare in modo diverso dallo Stato che si nasconde?"
E' un passo del libro di Francesco Cascini "Storia di un giudice" che ho appena finito di leggere. Un bel libro, breve e di piacevole lettura, ma che ti lascia diversi spunti di riflessione piuttosto amari.
Cascini, giovane magistrato nato a Lucca, vissuto a Napoli, ha iniziato la sua carriera a Locri e racconta proprio la sua esperienza di pubblico ministero, dal 2001 al 2006, in questo territorio così difficile. L'impatto con una realtà intrisa di paura e omertà, la sensazione di essere impreparato ad affrontarla con il proprio bagaglio di bei principi fatti sui libri, la difficoltà di prendere decisioni combattuto tra il rispetto delle regole e quello che invece detterebbe il buon senso, il sentirsi impotente di fronte all'immane lavoro che ci sarebbe da fare per un giudice e gli scarsi mezzi a disposizione, la sensazione di trovarsi in un posto in cui è in atto una guerra.
Di ciò ci si può fare un'idea anche dall'intervista rilasciata da Francesco Cascini a Fahrenheit Radio 3.
Oggi Cascini lavora a Roma, dove si è trasferito per seguire la donna che sarebbe diventata sua moglie, ma ricorda quegli anni di procuratore a Locri come la sua esperienza umana e professionale più bella anche se più difficile.
Ero senza parole. Avevano sparato contro tutto ciò che lì rappresenta lo Stato. Lo facevano tutti gli anni. Tutti gli anni costringevano lo Stato a nascondersi, a lasciare campo aperto, ad arrendersi. Attribuire a questi fatti il valore di una dimostrazione simbolica della supremazia della 'ndrangheta è un modo fin troppo semplice di liquidare la questione. Si tratta di qualcosa di molto più importante di un simbolo.
E' la prova tangibile dello strapotere che può sfacciatamente dilagare, del crimine che ha ragione delle regole, dell'indifferenza di chi costringe uomini con la divisa a umiliarsi, a offendere il proprio giuramento, la propria fedeltà allo Stato, alle sue leggi. Un paese che tollera eventi come questo è un paese arreso, inerte, addirittura complice. Che si tratti di colpi sparati a edifici o alle persone, non cambia nulla.
Quale speranza può dare uno Stato che accetta consapevolmente di subire, con quale coraggio si chiede a qualcuno di collaborare, a un testimone di rispondere, a una vittima di denunciare? Perché dovrebbero fidarsi di noi? Perché le persone dovrebbero ragionare in modo diverso dallo Stato che si nasconde?"
E' un passo del libro di Francesco Cascini "Storia di un giudice" che ho appena finito di leggere. Un bel libro, breve e di piacevole lettura, ma che ti lascia diversi spunti di riflessione piuttosto amari.
Cascini, giovane magistrato nato a Lucca, vissuto a Napoli, ha iniziato la sua carriera a Locri e racconta proprio la sua esperienza di pubblico ministero, dal 2001 al 2006, in questo territorio così difficile. L'impatto con una realtà intrisa di paura e omertà, la sensazione di essere impreparato ad affrontarla con il proprio bagaglio di bei principi fatti sui libri, la difficoltà di prendere decisioni combattuto tra il rispetto delle regole e quello che invece detterebbe il buon senso, il sentirsi impotente di fronte all'immane lavoro che ci sarebbe da fare per un giudice e gli scarsi mezzi a disposizione, la sensazione di trovarsi in un posto in cui è in atto una guerra.
Di ciò ci si può fare un'idea anche dall'intervista rilasciata da Francesco Cascini a Fahrenheit Radio 3.
Oggi Cascini lavora a Roma, dove si è trasferito per seguire la donna che sarebbe diventata sua moglie, ma ricorda quegli anni di procuratore a Locri come la sua esperienza umana e professionale più bella anche se più difficile.
Ciao Artemisia
RispondiEliminaInteressante la recensione che hai fatto al libro di Cascini: io non l’ho letto ma ricordo l’ intervista al giudice nel programma della Dandini. Il mio paese ( Calabria del Nord) apparentemente sembra diverso, quasi luminoso, rispetto alle zone della Locride e i fatti di sangue appartengono ad un passato ormai remoto ma… l’atteggiamento mafioso lo respiri nell’aria che è davvero l’aria pesante di una realtà parallela come quella che descrive Cascini. Razionalmente non ho più fiducia che le cose possano mutare, neppure con un ricambio generazionale, e mi sento veramente sola ( tanti amici sparpagliati nella regione,anche loro soli a presidiare la fortezza dei nostri ideali comuni) con l’atteggiamento che “Ci si può convincere di essere un eroe, di essere l'unico che può capovolgere il mondo e rimetterlo nel giusto verso”. Il senso di frustrazione non è peculiare solo in chi lavora per la giustizia in una zona controllata dagli uomini della ‘ndrangheta, è una percezione costante nelle piccole cose giornaliere. É, come commentava Dario in un tuo post precedente, un nuotare nella me…a assuefacendosi all’odore da essa emanante.
Eppure, testardamente, io voglio continuare a sognare, voglio “indignarmi” per ogni sopruso, non voglio abituarmi all’odore stagnante che mi circonda, voglio condurre quotidianamente le mie piccole battaglie comportandomi in modo onorevole, voglio essere come un funambolo che cammina in precario equilibrio sulla fragile ragnatela di questa ambigua esistenza sebbene questo atteggiamento incontri sempre sorrisetti di compatimento . Come riesco a capire lo sguardo di Cascini sul mondo contraddittorio che si è lasciato alle spalle… lo sguardo di chi “ci crede” ancora, nonostante si sia spesso privi dell’appoggio anche dei colleghi -ormai rassegnati e che fanno solo da cassa di risonanza al senso di solitudine che si prova nell’impresa di restare al proprio posto- tenendo cara dentro il cuore e la testa la ferma convinzione che la legge sia ancora l'unico, necessario spiraglio per uscire dal tunnel malefico.
Cordialità ( scusami per il logorroico commento).
Silvia
No, anzi, grazie per la tua testimonianza, Silvia. Te ne sono grata. Per me che l'anno scorso ho imparato ad amare l'Aspromonte grecanico (Bova, Palizi, ecc.) è particolarmente doloroso leggere questo affresco dell'altro versante.
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