domenica 23 febbraio 2014

Il paradigma delle vittime

Questo mese sto seguendo un nuovo corso di formazione organizzato dall'ANPI a cura dell'Istituto Storico della Resistenza in Toscana (l'altro si era tenuto nel maggio scorso). Il tema di questo ciclo è la memoria, parola che è talmente usata da essermi quasi venuta a noia e in queste lezioni ho capito perché. Il direttore dell'ISRT, Simone Neri Serneri, nella prima lezione ci ha illustrato le tre tappe fondamentali della memoria collettiva dopo la seconda guerra mondiale: la torsione anticomunista degli anni Cinquanta quando la resistenza era dipinta come un movimento del popolo Italiano per riscattarsi, il "paradigma antifascista" degli anni Sessanta/Settanta cioè la mitizzazione della resistenza come base della nostra Repubblica ed infine, dagli anni Ottanta in poi, il cosiddetto "paradigma delle vittime".
Che cosa sia questo "paradigma delle vittime" ce lo ha spiegato bene la storica Marta Baiardi nella seconda lezione di cui ecco alcuni sintetici spunti interessanti:

a) La memoria è fallace (vedi Primo Levi in I sommersi e i salvati). I ricordi con il tempo non solo tendono a cancellarsi, ma anche a modificarsi e addirittura a crescere, cioè ad assimilare elementi estranei.

b) Le ragioni profonde per spiegare la storia non si trovano nelle memorie. La storia lavora sui processi di lungo periodo. La percezione dei fatti da parte dei contemporanei è limitata. Per questo bisogna fare la tara sulla voce dei testimoni, mentre invece è passata l’idea che solo il testimone, colui che ha vissuto quel dato evento, sia l’unico accreditato a raccontarlo.

c) Con la perdita di credibilità delle grandi narrazioni del Nocevento (il marxismo, il cattolicesimo, ecc.) si è affermata la soggettività come valore (in ciò ha fortemente contribuito la televisione). Si è diffusa cioè l’idea che siano più interessanti ed efficaci i racconti soggettivi ed individuali delle ricostruzioni storiche.

d) Nella nostra era postmoderna il mondo è visto in modo orizzontale: tutto vale la stessa cosa, non c’è più una gerarchia di valori, esistono solo racconti (il web è la classica dimostrazione di questa orizzontalità: tutte le opinioni hanno lo stesso valore). 

e) A partire dal processo Eichman con le sue più di cento testimonianze di persecuzione, la vittima conquista la scena. La figura del testimone, da un lato, scava positivamente nella coscienza della vecchia Europa, dall’altro, crea il paradigma vittimario (si veda l'istituzione della giornata delle memoria, del ricordo, delle vittime del terrorismo, ecc.). 

f) Se la vittima occupa troppo la scena, la figura dell’eroe, cioè colui che attua una scelta e ne accetta i rischi, scompare; c’è una deresponsabilizzazione generale. La legge che ha istituito il Giorno della Memoria, per esempio, non contiene neanche una parola sui responsabili, non contiene la parola “fascista”. La legge commemora i deportati, ma non dice chi li aveva denunciati, arrestati e deportati. I colpevoli delle persecuzioni non erano “bande”, come più volte si sono chiamati, ma erano le istituzioni repubblicane stesse che operavano i rastrellamenti. Ci siamo “tranquillizzati” nello stereotipo del nazista cattivissimo, ma i nazisti non avrebbero avuto il personale sufficiente e le informazioni necessarie per fare da soli tutte quelle deportazioni. I morti sono tutti ugualmente vittime, ma quello che cambia la memoria dei fatti sono le loro scelte da vivi. 

Per fare storia, questa la conclusione di Marta Baiardi, i testimoni sono importanti ma non sufficienti. Ci vogliono anche i documenti ma anche un certo spirito critico, quasi da investigatore, dello storico. La realtà è sempre complessa e quindi lo storico deve dotarsi di “passione fredda” e sfuggire le semplificazioni.

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