giovedì 4 aprile 2013

Se il cittadino Dino Compagni va al governo della città

Dino Compagni, mercante fiorentino, vissuto tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, scrisse in un piccolo libro Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi dove raccontò cosa voleva dire fare politica nella Firenze dei Guelfi e dei Ghibellini.
Dino era un imprenditore, un uomo ricco, apparteneva alla corporazione di Por Santa Maria e si occupava di import-esport di panni. Per una certa fase della sua vita si trovò alla guida della città, cercando, a suo parere, di fare andare le cose diversamente, poi venne buttato fuori dalla politica e continuò a fare l'imprenditore.
Il bravo e simpatico storico Alessandro Barbero prende spunto dal libro di Dino Compagni per la lezione Come pensava un uomo del Medioevo? Il mercante al Festival della Mente di Sarzana.
Barbero descrive una società della Firenze medievale dove a comandare erano sempre le grandi famiglie nobili, proprietari terrieri e cavalieri che si scannavano tra di loro (un panorama un po' mafioso) e che imponevano i loro privilegi e le loro prevaricazioni al resto della città, anche ai mercanti e agli artigiani come Dino che lavoravano e pagavano le tasse.
A Dino Compagni, un uomo che si era fatto da solo come tanti popolani di Firenze, non importava nulla della contesa tra Guelfi e Ghibellini (che in realtà si trattava di rivalità incancrenite tra famiglie) e che chiamava "le maladette parti". Per lui, che voleva solo portare avanti pacificamente i suoi commerci,  la divisione della città in partiti era la causa di tutti i mali.
Fu così che a Firenze nacque l'esperimento del "governo di popolo", cioè della brava gente che pagava le tasse, con al vertice una giunta di sei priori nominati dalle corporazioni, che cambiavano ogni due mesi per evitare che prendessero troppo potere e cominciassero a fare i propri affari e tra i quali, per un periodo, fu nominato anche Dino Compagni. Fu un esperimento di democrazia allargata sin dove si poteva (non certo agli operai), che prevedeva innumerevoli assemblee nelle quali si discuteva tutto fino allo sfinimento e infinite commissioni che stavano in carica anche solo qualche mese come i sei priori.
Tuttavia, scriveva Dino, i nobili non erano contenti, erano sempre più prepotenti, non ubbidivano alle leggi e spesso erano anche appoggiati dai giudici. Dopo l'emanazione degli Ordinamenti di Giustizia (Giano della Bella), legge straordinaria che impedì ai nobili di avere incarichi di governo, i priori furono costretti a stare barricati nel palazzo della Badia con un corpo armato a proteggerli.
Tuttavia nel libro è descritto un quadro politico sconfortante che Compagni aveva cercato faticosamente e inutilmente di cambiare: dell'interesse pubblico non importava nessuno, tutti erano in politica per fare gli interessi propri e dei propri parenti e del proprio partito, vi era una "gara d'uffici", cioè ad accaparrarsi le poltrone, anche per soli due mesi, si compravano e si vendevano gli appalti, i processi, ecc.
"Ogni cosa decisa un giorno, viene disfatta il giorno dopo". "Il male per legge non si punisce. Come il malfattore ha amici e denaro da spendere, così è liberato dal maleficio fatto." Stare al governo voleva dire non aver problemi con la giustizia in quanto  i propri processi venivano insabbiati. A Firenze alla fine del Duecento il grande problema era la ripartizione del denaro pubblico e delle imposte. Ed invece coloro che erano al potere, scrisse Dino, "trovavano come meglio potessero rubare". Chi era al governo con i soldi pubblici faceva quello che voleva.
Quando arrivava qualcuno che diceva di voler fare pulizia, in realtà voleva solo buttar giù la fazione rivale e salire lui al potere. Una classe politica non in grado di fare l'interesse comune e di mettere fine alle ruberie. La politica di Firenze era in mano a capipartito arrabbiati che volevano solo occupare il potere. Dino si lamentava che, se ci fosse stata la concordia in città, Firenze sarebbe stata così ricca e fiorente.
La città sprofondò nel caos della contesa tra le due grandi fazioni dei guelfi bianchi e neri. Dino Compagni, nel suo libro scritto a distanza di anni, confessò di avere dei rimpianti: "Noi mercanti che eravamo al governo in quel momento siamo stati deboli, non abbiamo capito che non era più il tempo di mediare, di pacificare. Bisognava arrotare i ferri."
L'esperimento finì male. I capipartito potenti, d'accordo con i finanzieri e i mercanti più ricchi, ripresero il potere e per i bottegai e gli artigiani non ci fu più spazio di manovra. A Dino non rimase che sperare nella la giustizia di Dio, "che prima o poi arriva". Gli uomini di quel tempo avevano almeno questa speranza.

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