Non sono una psicologa, ma credo che la scoperta dell'amore sia un processo fondamentale per la crescita di un individuo. Almeno per me è stato così e penso anche per tutte le donne. Nei maschi non lo so. Mi piacerebbe anche capire le differenze in questo senso.
Come succede alle bambine, ho cominciato presto a pensare al "fidanzato". Nel mio diario di quando avevo nove anni c'è tanto di classifica, aggiornata periodicamente, con accanto al nome di qualche bambino un simbolino di due labbra e in fondo alla pagina la "legenda" che spiega il suo significato: baciato.
Il mio diario di tredicenne invece è quasi monotematico. Si parla costantemente di ragazzini adocchiati, puntati, incontrati, pedinati ma sempre rigorosamente a distanza. Era il tema centrale della mia vita di quel periodo e anche quello delle mie amiche. Non si parlava d'altro. Spesso a questi ragazzini, non sapendo neppure il nome, affibbiavamo i soprannomi "loden blu", "quello con i Rayban", ecc.
Poi un giorno, durante la messa (ero nel breve periodo in cui tentavo di avere una fede) uno dei ragazzi che avevamo adocchiato approfittò dello scambio del segno di pace per darmi la mano e chiedermi come mi chiamavo. Si chiamava Alessandro, aveva 15 anni e io 13. Era un bel ragazzo, occhi verdi, riccioli neri, il fascino di quello che la sa lunga. Aveva il vespino cinquanta e mi portava per stradine secondarie sulle colline intorno a Firenze. Io ero orgogliosissima di avere finalmente un ragazzo, di piacere a qualcuno. La mia autostima aveva subito un vertiginoso rialzo. Alessandro però era troppo audace nelle sue effusioni per la mia immaturità. Non sapevo come gestire le sue richieste. Per pudore non avrei voluto che lui allungasse le mani sotto il mio maglione ma ero troppo timida per contrariarlo. Per questo dopo solo tre mesi lo lasciai. Lui non capì e forse ci rimase anche male mentre io ripiombai nella triste solitudine di sempre.
Due anni dopo mi misi con Stefano, un ragazzino della mia classe, tenero e inesperto come me, con il quale mi divertii molto. Aveva solo un difetto: era gelosissimo. Appena scherzavo un po' di più con altri compagni maschi mi metteva il muso. D'estate volli provare l'esperienza del lavoro facendo la commessa in un negozio. Poiché mi avanzava ben poco tempo libero e mio padre non mi faceva uscire da sola né la domenica pomeriggio né tanto meno dopocena (non era la Preistoria, si parla del 1978, ma mio padre aveva la mentalità dell'Ottocento), le occasioni per vedersi con Stefano erano minime e giustamente lui reclamava. Così la nostra storia dovette concludersi con mio e suo rammarico.
Tra i sedici e i diciassette anni passai la crisi più dura della mia adolescenza. Mi sentivo incompresa, infelice, una fallita, un'inetta. Ne uscii a 18 anni grazie al mio primo grande amore, Piero, anche lui un compagno di classe. Più maturo della sua età, Piero seppe essere paziente e comprensivo con i miei problemi di "autocensura", nello stesso tempo era allegro e affettuoso. Mi ricordo le telefonate fiume la sera dopo cena e le lunghe discussioni anche di politica. Mi ricordo che arrivavo a scuola sempre prima la mattina perché così potevo stare un po' con lui. Il nostro rapporto durò tre anni alla fine dei quali non ero più la stessa persona. Probabilmente sarei maturata lo stesso ma sicuramente questa esperienza ha dato un contributo importante alla mia autostima.
Scoprire l'amore è un'esperienza bellissima e fonte di emozioni indimenticabili ma anche di sofferenze indicibili che spesso gli adulti tendono ingiustamente a minimizzare.
PS nella foto: i più teneri fidanzati del mondo: i miei genitori.
Come succede alle bambine, ho cominciato presto a pensare al "fidanzato". Nel mio diario di quando avevo nove anni c'è tanto di classifica, aggiornata periodicamente, con accanto al nome di qualche bambino un simbolino di due labbra e in fondo alla pagina la "legenda" che spiega il suo significato: baciato.
Il mio diario di tredicenne invece è quasi monotematico. Si parla costantemente di ragazzini adocchiati, puntati, incontrati, pedinati ma sempre rigorosamente a distanza. Era il tema centrale della mia vita di quel periodo e anche quello delle mie amiche. Non si parlava d'altro. Spesso a questi ragazzini, non sapendo neppure il nome, affibbiavamo i soprannomi "loden blu", "quello con i Rayban", ecc.
Poi un giorno, durante la messa (ero nel breve periodo in cui tentavo di avere una fede) uno dei ragazzi che avevamo adocchiato approfittò dello scambio del segno di pace per darmi la mano e chiedermi come mi chiamavo. Si chiamava Alessandro, aveva 15 anni e io 13. Era un bel ragazzo, occhi verdi, riccioli neri, il fascino di quello che la sa lunga. Aveva il vespino cinquanta e mi portava per stradine secondarie sulle colline intorno a Firenze. Io ero orgogliosissima di avere finalmente un ragazzo, di piacere a qualcuno. La mia autostima aveva subito un vertiginoso rialzo. Alessandro però era troppo audace nelle sue effusioni per la mia immaturità. Non sapevo come gestire le sue richieste. Per pudore non avrei voluto che lui allungasse le mani sotto il mio maglione ma ero troppo timida per contrariarlo. Per questo dopo solo tre mesi lo lasciai. Lui non capì e forse ci rimase anche male mentre io ripiombai nella triste solitudine di sempre.
Due anni dopo mi misi con Stefano, un ragazzino della mia classe, tenero e inesperto come me, con il quale mi divertii molto. Aveva solo un difetto: era gelosissimo. Appena scherzavo un po' di più con altri compagni maschi mi metteva il muso. D'estate volli provare l'esperienza del lavoro facendo la commessa in un negozio. Poiché mi avanzava ben poco tempo libero e mio padre non mi faceva uscire da sola né la domenica pomeriggio né tanto meno dopocena (non era la Preistoria, si parla del 1978, ma mio padre aveva la mentalità dell'Ottocento), le occasioni per vedersi con Stefano erano minime e giustamente lui reclamava. Così la nostra storia dovette concludersi con mio e suo rammarico.
Tra i sedici e i diciassette anni passai la crisi più dura della mia adolescenza. Mi sentivo incompresa, infelice, una fallita, un'inetta. Ne uscii a 18 anni grazie al mio primo grande amore, Piero, anche lui un compagno di classe. Più maturo della sua età, Piero seppe essere paziente e comprensivo con i miei problemi di "autocensura", nello stesso tempo era allegro e affettuoso. Mi ricordo le telefonate fiume la sera dopo cena e le lunghe discussioni anche di politica. Mi ricordo che arrivavo a scuola sempre prima la mattina perché così potevo stare un po' con lui. Il nostro rapporto durò tre anni alla fine dei quali non ero più la stessa persona. Probabilmente sarei maturata lo stesso ma sicuramente questa esperienza ha dato un contributo importante alla mia autostima.
Scoprire l'amore è un'esperienza bellissima e fonte di emozioni indimenticabili ma anche di sofferenze indicibili che spesso gli adulti tendono ingiustamente a minimizzare.
PS nella foto: i più teneri fidanzati del mondo: i miei genitori.