domenica 30 gennaio 2011

La ferma mitezza del concittadino Ginzburg

Pur incarnando, nell'immaginario comune, il perfetto aplomb inglese, è diventato recentemente cittadino italiano ed è fiero di esserlo. Paul Ginzburg vive in Italia da vent'anni e insegna Storia all'Università di Firenze. Nel suo ultimo libro "Salviamo l'Italia" il professore ripercorre alcuni elementi, non predominanti ma interessanti, nella storia del nostro paese (come la ricerca dell'uguaglianza sociale, l'investimento verso l'Europa, la grande tradizione dell'autogoverno municipale) e punta il dito su questi invitando a rielaborarli per dare all'Italia una possibilità di riscatto.
Ascoltando la sua intervista rilasciata a Controradio il passaggio che mi è piaciuto di più riguarda la proposta di rivalutare il carattere della mitezza. Sarà che, da timida e mite quale sono, mi sono sentita chiamata in causa. Nel piccolo saggio "Elogio della mitezza", Norberto Bobbio scriveva che il mite è l'altro di cui l'uomo ha bisogno per vincere il male dentro di sé. Ampliando questo concetto, Paul Ginzburg fa della mitezza, unita alla fermezza, una virtù sociale auspicando una nazione mite e ferma, che pacatamente ripropone, insiste, capisce, tollera ma cerca anche di cambiare il male attraverso il suo esempio. Lo storico è convinto che ci siano minoranze forti in ogni parte del paese che aspettano disperatamente delle proposte per mettersi in cammino. Rinfranca sentire parlare persone come lui che per primo incarna queste caratteristiche.
Paul Ginzburg, insieme ad altri esponenti dell'associazione Libertà e Giustizia come Gustavo Zagrebelsky e Sandra Bonsanti, ha lanciato un accorato appello a tutta la società civile italiana e straniera per chiedere le dimissioni del Presidente del Consiglio.
Do not despair of Italy!


giovedì 27 gennaio 2011

Se questo è un letto

Lo so, non sono queste le cose importanti nella vita, ma, come si suol dire: "Anche l'occhio vuole la sua parte".


P.S. il proprietario confessa candidamente che tale è rimasto per almeno tre giorni.

lunedì 24 gennaio 2011

Le sigaraie e i ragazzi del Casone


In cima alla torre dell'ex Manifattura Tabacchi a Firenze, che sovrasta il Teatro Puccini, è stato recentemente un bel tricolore, probabilmente per commemorare i 150 anni dall'Unità d'Italia. Mi piace l'architettura razionalista di questo edificio inaugurato nel 1940, dopo dieci anni di lavori, e progettato dall'ingegnere Pierluigi Nervi e dall'architetto Bartoli. Mi piace anche perché è carico di storia.
Le sigaraie fiorentine avevano già dato prova di grande attivismo sia il 29 giugno del 1874, quando scioperarono per rivendicare migliori condizioni per le lavoratrici madri, sia nel marzo 1921 aderendo compatte allo sciopero che seguì l'uccisione, da parte di squadristi, del dirigente sindacale Spartaco Lavagnini.
All'interno della fabbrica, nella quale si trasferirono nel 1940 dalle due vecchie manifatture situate nel centro di Firenze, si stampava e si diffondeva materiale clandestino di propaganda antifascista, si raccoglievano medicinali per il Soccorso Rosso e ci si attrezzava per far arrivare ai partigiani, in montagna, sigarette, viveri trafugati a mensa e armi.
Il 3 marzo 1944, giorno del grande sciopero delle fabbriche fiorentine che segnò l'inizio della liberazione di Firenze, alle 13 in punto due operaie staccarono l'interruttore generale della corrente che alimentava tutti i reparti dando così il segnale dell'inizio dell'agitazione. Sotto la minaccia delle armi furono costrette a riprendere poi il lavoro ma misero in atto un boicottaggio che fece crollare la produzione di sigarette da 2000 a 60 kg al giorno.
Occupata dai tedeschi il 23 luglio 1944 la Manifattura fu successivamente in mano ai partigiani quando, circa un mese dopo, gli occupanti si ritirarono al di là del torrente Mugnone.
Nel bel libretto "I ragazzi del Casone, La Resistenza delle Cascine di Firenze" (scaricabile qui) Renato Terrosi, protagonista di quei giorni, ricorda:
"Nel pomeriggio del 28 agosto 1944 diversi cittadini della zona di via Pistoiese e dell’Olmatello lasciarono le loro case, preoccupati del fatto che la modesta retroguardia dell’esercito tedesco, ancora nella loro zona, si stava rafforzando per l’arrivo di un reparto di paracadutisti. Vennero via dalle loro case per rifugiarsi dietro la linea del fronte, tenuta dai partigiani, e che, grosso modo, correva lungo il Mugnone ed aveva come caposaldo la Manifattura Tabacchi. Informati del pericolo provvedemmo a rinforzare quel presidio, portando a 15 il numero degli occupanti la Manifattura, concentrandoli nella zona del teatro. La squadra occupò la terrazza che dà su Piazza Puccini, sotto la torre. Sulla torre presero posto a turno tre partigiani - Albano Palmieri, Dino Roncucci e Bruno Ferrari - che avevano in dotazione mitra Sten e bombe a mano che ci erano state fornite dal primo presidio dell’esercito alleato, che aveva preso posizione in un quartiere situato sopra il bar sull’angolo tra via Ponte alle Mosse e via Squarcialupi. Purtroppo, come previsto, nelle prime ore della notte i tedeschi attraversarono il Mugnone e con un panzerfaust (antesignano dell’odierno bazooka) sfondarono la porta di destra del teatro ed entrarono nella Manifattura.
Il partigiano Bruno Ferrari fu investito dalla fiammata al fosforo del panzerfaust mentre scendeva dalla torre per rifornirsi di munizioni. Riuscì a fuggire attraverso la platea e, spinto dal dolore e dall’impeto dei suoi vent’anni, raggiunse il Casone dei ferrovieri per dare l’allarme. Nel frattempo il resto del reparto che non era stato troppo vigile, riuscì a lasciare la terrazza e a ricollegarsi, attraverso la Manifattura, ai partigiani che erano di stanza al Casone dei ferrovieri. I tre, che erano rimasti isolati sulla torre, quando si resero conto che i compagni sulla terrazza avevano lasciato la loro postazione e che i tedeschi la stavano occupando, utilizzarono le loro bombe a mano e fecero grave danno ai nemici. I tedeschi, scoraggiati dall’intenso fuoco di tutti i partigiani, che avevano lasciato il Casone e si erano schierati sulla piazza dalla parte di via Ponte alle Mosse, ritennero più conveniente ritirarsi oltre il Mugnone portandosi via i feriti raccolti sulla terrazza.
La formazione partigiana rimase vigile per tutta la notte e alle prime luci dell’alba i compagni rimasti sulla torre poterono scendere accolti dall’abbraccio dei compagni, che avevano vegliato con loro e che erano corsi a liberarli.
Il giorno dopo i partigiani accorsero a Peretola a salutare con i cittadini di quella località il ritorno della libertà per tutti i cittadini di Firenze. Alcuni si spinsero con un reparto di carri armati americani fino al Padule, ma i tedeschi si erano definitivamente ritirati."

Quando passo davanti a questa torre in bicicletta (di solito un paio di volte alle settimana andando in palestra) alzo sempre lo sguardo verso il tricolore e penso con gratitudine a quella battaglia ed anche alle coraggiose sigaraie.

venerdì 21 gennaio 2011

Le responsabilità dei padroni

Non lo diciamo ai giovani, ma cose si fa oggi ad essere ottimisti. Anche solo il fatto che sia stato permesso il vergognoso ricatto della FIAT ai propri lavoratori mascherato, per di più da consultazione referendaria, mi deprime assai. Non ho grandi competenze economiche e non è vero che voglio "rifiutare la globalizzazione", come scrive Gramellini. Semplicemente nessuno mi leva dalla testa che se c'è la crisi, cioè se ci sono meno soldi, invece di redistribuire meglio quelli che ci sono, c'è chi si arricchisce sempre di più e chi invece si vede addossato sulle proprie spalle, con i suoi 1000 Euro al mese, la responsabilità "di essere competitivi". Non è giusto.
Intanto cominciamo con il chiamare gli imprenditori con il loro vero nome come ha fatto Filippo Astone, giornalista economico del Corriere della Sera (NB non un rappresentante della FIOM!), che ha scritto un libro dal titolo "Il partito dei padroni, come la Confidustria e la casta economica comandano in Italia".
Dalla sua intervista a Le Storie RAI3 ho appreso delle cose interessanti su questa categoria che tende ormai a passare come benefattrice.

1) In Italia i grandi industriali investono al di sotto della media europea. La media degli investimenti delle case automobilistiche europee in nuovi modelli, per esempio, è pari all'8%. La FIAT investe il 3%. Ci si può meravigliare se quest'ultima perda quote di mercato? Chiedono ai lavoratori più flessibilità ed efficienza, ma qual è la loro parte di responsabilità nel rendere competitive le loro aziende?

2) Secondo Astone l'Italia, è un intreccio di caste e l'elite della dirigenza economica ha la stessa responsabilità di quella politica e di quella sindacale. La prima continua a chiedere aiuti allo Stato e flessibilità ai lavoratori. Ma fa la sua parte?

3) La crisi che stiamo vivendo nasce dai mutui subprime americani dovuti al fatto che le famiglie, per la troppa liberalizzazione del lavoro, non erano più in grado di pagare i mutui. Il problema principale delle nostre elite economiche sta nel fatto di avere la visione corta e di pensare che tutto si risolva riducendo i salari reali e aggiustando il loro conto economico del prossimo trimestre. Intanto però stanno facendo morire tutta l'economia. "La pecora, se tosata troppo, muore.", dice Astone. Aggiungerei: se anche il mercato dell'auto italiana ripartisse, chi le comprerà quelle auto prodotte se la gente avrà meno soldi?

4) Confidustria non è l'associazione degli industriali, ma il "sindacato" degli imprenditori e non è l'unico visto che sono ben 38 le rappresentative dei padroni. Accusano la politica di essere divisa e litigiosa, ma essi lo sono molto di più (e sono anche molto più costosi dei politici, secondo Astone).

5) I promotori dell'idea di espellere gli imprenditori che pagano il pizzo sono stati Antonio Montante, presidente di Confindustria Caltanissetta e Giuseppe Catanzaro, capo di Confindustria Agrigento che ha fatto il maggior numero di espulsioni. In Sicilia l'operazione ha avuto una rilevanza fortissima, se si pensa che nel passato si voleva espellere Libero Grassi, ma fuori dell'isola tutto ciò non ha avuto alcun effetto pratico, anche se il pizzo viene pagato anche al Nord.

7) I contratti atipici (Co.Co.Pro., partite IVA, ecc.) sono un modo di saltare la contrattazione collettiva per via legislativa. La motivazione di questi contratti non è la flessibilità ma il minor costo. Basti pensare che sono massicciamente utilizzati da aziende che continuano a fare utili, come le compagnie telefoniche.

martedì 18 gennaio 2011

Un imballaggio ci seppellirà

E' mai possibile che comprando una coppia di banalissimi auricolari si debba produrre tale quantità di rifiuti?

domenica 16 gennaio 2011

La variante anomala

Generalmente l'essere umano si muove per convenienza. Sta nella natura umana agire sotto la spinta del proprio interesse, economico soprattutto, ma non solo. Non per niente, per promuovere comportamenti virtuosi, si ricorre ad incentivi e, per scoraggiare certe azioni ritenute dannose, si ricorre a sanzioni. E' normale che sia così.
Risulta spesso inspiegabile e desta stupore il comportamento di chi va controcorrente e, almeno apparentemente, contro il proprio tornaconto, tanto che si tende a spiegarlo come ricerca di notorietà perché ciò almeno rientra in un quadro "normale". Eppure ci sono mosche bianche di cui non si parla neppure e che pertanto risultano ancora più inspiegabili.
Devo dire che queste "varianti anomale" a me sono sempre tanto piaciute, specialmente quando sono sconosciute. Le considero un modello da seguire, mi danno speranza, mitigano il mio usuale pessimismo. E poi a pensarci bene il loro numero non è così esiguo.
Mi accorgo di averne indicate diverse su questo blog: dalle due produttrici di divani che si rifiutano di pagare i lavoratori a nero, al commissario per il risanamento della Valle del Sarno che rifiuta il suo compenso per darlo alle famiglie dei Carabinieri caduti, alla cassiera del supermercato che consegna ai Carabinieri una cassetta piena di soldi che ha trovato, al proprietario di un'azienda tessile di Como in crisi che tira fuori i soldi per salvare la sua azienda invece di venderla.
Ed altre scovate più recentemente:

- Ambrogio Mauri era tra i maggiori costruttori di autobus del nord d'Italia ma non accettò di pagare le consuete tangenti al fine di avere un turno di appalto. Si tolse la vita nel 1997 perché gli soffiarono irregolarmente un appalto ma i suoi figli Carlo e Umberto continuano l'attività dell'azienda resistendo ai tentativi di corruzione del nuovo tipo (Report, puntata del 24.10.2010, rubrica "C'è chi dice no").

- Nei giorni in cui il governo si è salvato grazie alla vergognosa compravendita di parlamentari, leggo su Paneacqua la storia di Vincenzo Zucca, che, dopo aver lavorato per anni nello stabilimento Ilva di Savona e aver partecipato alla lotta contro la sua chiusura, fu eletto negli anni Cinquanta senatore del PCI. Alle elezioni del 1963 Zucca lasciò l'incarico di senatore per il normale turno di avvicendamento dei parlamentari (era rigoroso allora il limite delle due legislature) e rientrò regolarmente in fabbrica per svolgere il suo lavoro di operaio oltre all'attività di militante di base. Una scelta che fece scalpore: ci furono interrogazioni parlamentari ma fu volere preciso dell'interessato rifiutare altre collocazioni. Vincenzo Zucca restò in fabbrica fino al pensionamento avvenuto nel 1964.

- Su L'Unità di qualche giorno fa leggo invece di un imprenditore di Altamura che è stato l'unico a denunciare chi gli chiedeva il pizzo ed è stato per questo isolato da tutto il paese. Una scelta che egli definisce "giusta" ma che ha sconvolto la vita di tutta la sua famiglia dalla sera alla mattina. Chi glielo ha fatto fare?, viene spontaneo chiedersi.

- Antonio Diana, titolare di Erreplast, azienda che ricicla plastica nel Casertano, eletto da Legambiente ambientalista dell'anno, si è costituito parte civile insieme al fratello nel processo contro coloro che avevano ucciso il padre perché non si era piegato alla camorra, come racconta Il Fatto Quotidiano. “Una cosa normale – commenta Antonio – e le cose normali sono quelle che sorprendono di più in queste terre”.

Nel loro piccolo, sono "varianti anomale" tutti quelli che lasciano a casa la macchina per muoversi a piedi, in bicicletta o in bus, quelli che fanno la raccolta differenziata anche se non hanno il porta-a-porta, quelli che leggono un libro invece di guardare la televisione, quelli che non ci pensano nemmeno a passare la domenica all'outlet (anche se ci sono i saldi), quelli che chiedono la fattura di un lavoro accollandosi l'IVA anche se non la possono scaricare, quelli che quando fa freddo si mettono un maglione in più senza accendere la stufa elettrica, quelli che si ricordano di portare la borsa di tela piuttosto che chiedere un sacchetto usa-e-getta (anche bio), quelli accompagnano i figli a scuola a piedi invece che in auto anche se piove, quelli che....

venerdì 14 gennaio 2011

Auguri, quindicenne!


Mi pare di ricordarmi abbastanza bene come ci si sente a quindici anni (forse grazie al mio diario di allora, lo vedi che a qualcosa servono i diari?). Ci si sente già adulti, in grado di fronteggiare il mondo da soli. In fin dei conti che ci manca? Solo qualche informazione in più che hanno i vecchi e che noi che siamo nuovi non abbiamo. Però dentro di noi serpeggia la paura che ci possano fregare grazie a quelle quattro cose in più che sanno.
E poi c'è quella smania, quell'inquietudine che qualche volta si impadronisce di noi e ci fa diventare intrattabili. Viene voglia di spaccare tutto in quei momenti. Figurati se la mamma comincia a rompere perché si è lasciato qualcosa in giro.
Oggi compi quindici anni, caro il mio giovane uomo coi pantaloni sotto i glutei, lo sguardo da bulletto e il chissenefrega sempre pronto. Non pensare che non ti capisca. Non pensare che sia facile sopportare le tue sparate. Non pensare che non lo sappia che dietro quella scorza da duro che ostenti si nasconde un animo tenero e sensibile. Il prossimo passo sarà capire che è proprio quel tuo animo la cosa più bella che hai. Non la nascondere.
Buon compleanno, carino!

martedì 11 gennaio 2011

Quattro anni di blog

Non sono pochi quattro anni di blog, 556 post. Sicuramente al di là delle mie aspettative dell'11 gennaio 2007. Recentemente mi sono decisa a fare una cosa che mi proponevo da tempo, terrorizzata dall'idea che Google mi faccia uno scherzetto. Salvare in pdf e stampare su carta (l'insostituibile carta) tutti i miei post con i relativi commenti**. Mamma mia, quanto ho scritto! Che sensazione strana nel rileggere sia i post che i commenti!
Non posso dire di sentirmi diversa dalla donna che nel 2007 parlava di ecologia e di consumo critico, si lamentava dei figli e del lavoro, raccontava dei suoi viaggi a piedi, cercava buone notizie da citare ogni settimana (ambizioso progetto presto archiviato). Ero solo un po' più entusiasticamente metodica e pedissequa come capita a chi apre un rubinetto chiuso per anni: quello della mia voglia di raccontarmi. Oggi mi sento più smaliziata, sicuramente più scettica e probabilmente più arida. Non è colpa del blog, ovviamente.
Ho riletto con molta nostalgia certi commenti di persone che non sono più in rete e mi dispiace davvero di averne perso le tracce. Mi pare che anche quelli che sono rimasti abbiano meno verve tanto che i loro commenti sono più frettolosi (esattamente come lo sono i miei sui loro blog).
In ogni caso trovo che sia un piccolo successo anche solo il fatto di avere ancora voglia di scrivere, di essere riuscita a tenermi lontana dai social network e di riuscire ancora durante le mie giornate a strappare questi cinque minuti solo per me.

** Per chi volesse ottenere una stampa "pulita" dei propri post (cosa non facile) suggerisco il software PrintWhatYouLike.

sabato 8 gennaio 2011

Tanto per tirarsi su di morale

Purtroppo spesso mi trovo ad ascoltare le mie trasmissioni preferite un po' distrattamente, tipo cambiando bus oppure quando le faccende di case richiedono un po' più di attenzione oppure quando sono interrotta più volte da qualcuno. Capita quindi che mi perdo dei passaggi e mi trovo a chiedermi: "Ma di che si parlava?" D'altra parte, consapevole che o così o niente, scelgo così.
Della puntata di Ambiente Italia sulla situazione dei beni culturali italiani, per esempio, mi è rimasto poco in testa. Tuttavia nella nebbia della mia scarsa concentrazione un ritornello mi si è fissato in mente: "Non ci sono soldi". Tutti gli intervistati, dalla direttrice del Parco Archeologico di Selinunte, alla direttrice archeologica del Colosseo, al presidente del Parco Nazionale del Gran Paradiso hanno continuato a denunciare la medesima carenza di risorse finanziarie cominciando a snocciolare cifre, un po' noiose per gli ascoltatori, ma atte a dimostrare la gravità della situazione.
La breve intervista a Philippe Daverio invece ha attirato la mia attenzione sia per l'estrosità del personaggio (uso a opinioni anche discutibili ma di sicuro inequivocabili) sia perché le sue affermazioni mi hanno dato l'idea di uno che ha una visione ad ampio spettro (non necessariamente giusta però sicuramente stimolante).
"Stiamo raccontando un'Italia che va a pezzi. Ci dica Lei, che è stato assessore alla cultura a Milano", chiede Beppe Rovera, "come facciamo?"
"Non ce la facciamo." E' la secca risposta dello storico dell'arte che indica due motivi. Dopo centocinquant'anni di unità d'Italia dobbiamo ammettere che la faccenda non ha funzionato perchè uno stato abbastanza fragile come quello piemontese, con un patrimonio culturale piuttosto limitato, si è trovato a gestire l'eredità di sette stati ognuno molto più importante del Piemonte. Pensiamo a Venezia, Firenze e Napoli che erano le capitali più importanti d'Italia per l'arte e che poi sono, sempre secondo Daverio, quelle che soffrono di più dell'abbandono. Secondo punto, per gestire questo ingente patrimonio bisognava formare le persone come fanno in Francia dove esiste una scuola specifica che forma ogni anno venti persone con la stessa concezione dei beni culturali e che possono essere spostate ove necessario. In questi anni abbiamo perso un dozzina tra i più bravi sovrintendenti che aveva il Ministero e i concorsi non sono stati fatti. Le cose si fanno solo se c'è una classe dirigente preparata e articolata per quanto riguarda la conservazione dei beni culturali. "Una catastrofe trasversale", secondo Philippe Daverio.
"E l'Aquila tornerà alla sua bellezza originaria?", chiede successivamente il conduttore.
"No, non tornerà più come prima. Come è successo in Umbria, costruendo nuove periferie, il centro storico muore. Si può riuscire a ricostruire gli edifici ma non la vita che nel frattempo si è spostata". D'altra parte, secondo Daverio, questo fenomeno è abbastanza inevitabile con i terremoti con l'eccezione del Friuli (centri piccoli e abitanti dal carattere particolare) e di Tuscania (salvata proprio dalla disgrazia dal suo destino di area turistica). E poi a L'Aquila hanno perso troppo tempo. Nelle grandi chiese cadute doveva essere fatta subito la selezione delle macerie. La pur brava sovrintendente ha solo tre persone nel suo organico. Abbiamo anche delle competenze fantastiche nei tecnici "ma lo Stato ha preferito la comunicazione alla realizzazione. La prima è presto evaporata e la seconda non c'è".
"Anche i Parchi Nazionali soffrono perché non ci sono soldi", continua Rovera. Risposta:"I Parchi sono res publica, una roba noiosissima per gli Italiani medi. Siamo tutti felici che esistano ma quelli che stanno intorno si mangiano il loro pezzettino pensando che quel loro vantaggio immediato non pregiudichi nulla. Lo stesso ragionamento con il quale ci siamo giocati il paesaggio. Si pensi alla valle del Brenta con la più bella architettura del Settecento al mondo, distrutta dai Veneti con la costruzione dei capannoni. Un danno peggiore di un terremoto. Ad un Veneto di oggi non importa nulla se la cultura della Serenissima ha influenzato ben altre realtà, da Amsterdam a New York."

Non c'è che dire: una bella iniezione di ottimismo!

giovedì 6 gennaio 2011

Anche il creativo ha da sudarsela

Anna Maria Testa, con quel suo modo di parlare professorale bocconiano, non mi ispira grande simpatia. Tuttavia ho trovato spunti interessanti nella sua intervista a Fahrenheit Radio 3 sulla creatività.
Mi è piaciuto soprattutto il fatto che la professoressa abbia smontato qualche stereotipo collegato a questo concetto, che nel nostro paese è circondato da un alone di sospetto anche perché, dagli anni Ottanta, la parola creatività è stata usata troppo e a sproposito.
Secondo Anna Maria Testa (autrice del libro "La trama lucente" Rizzoli
e del sito www.nuovoeutile.it) la creatività è quel sistema di connessioni e interconnessioni che si accende nel nostro cervello quando c'è un problema da risolvere o quando arriva uno stimolo nuovo rispetto a quanti ci hanno preceduto su una certa questione. E' come una trama di fili che nel buio ad un certo punto si accendono.

I luoghi comuni che l'intervistata smonta sono:

1) la creatività non è un'idea che viene dal nulla, un gesto immediato. Il processo creativo, in tutti i campi, richiede una fase di analisi e di preparazione in cui tutti gli elementi vanno messi sul tavolo, una di incubazione, nella quale il cervello fa tanti collegamenti che vengono scartati, un momento di illuminazione nel quale la soluzione si manifesta in modo immediato (e spesso in maniera più semplice di quello che si pensava prima) ed infine una fase di sviluppo e implementazione in cui ci si impegna a mettere in pratica l'idea del punto precedente. Insomma la fatica e l'impegno sono sempre necessari.

2) non è vero che la creatività sia per forza una caratteristica giovanile e decresca con l'età. Con gli anni si produce di meno ma con qualità migliore perché si ha una sorta di enciclopedia personale a cui può attingere. Singolare il dato di un'inchiesta Eurispes secondo la quale, oltre a chi deve essere creativo per professione, sono risultati particolarmente creativi gli over64 che corrispondono alla generazione che ha rimesso in piedi, con energia, tenacia, passione e impegno, il nostro paese nel dopoguerra.

3) la creatività non è innata ma la si può coltivare. Secondo Anna Maria Testa, per esempio, i bambini e i ragazzi (soprattutto maschi) iperaccuditi, ai quali ogni più piccolo segno di originalità è premiato, per i quali si tollerano performance scolastiche mediocri, non si abitueranno ad fronteggiare autonomamente le difficoltà che servono a capire la propria strada, non saranno adatti ad affrontare un futuro molto difficile in termini di competizione.

4) creatività non è trasgressione perché quest'ultima distrugge, mentre la prima crea.

5) non è il malessere mentale in sé a generare creatività. Semmai questo può rappresentare uno sfogo produttivo al dolore che altrimenti non riuscirebbe ad esprimersi. A proposito di genio e sregolatezza mi ricordo un intervento di Simona Argentieri che parimenti sfatava il mito del talento artistico che nasce dal tumulto interiore sottolineando che, nonostante numerosi studi in proposito, l'origine della creatività artistica, per fortuna, non sia stata trovata. "Ci sono più tormentati pseudoartisti che artisti veri.", affermava l'Argentieri.

sabato 1 gennaio 2011

Oggi come ieri, domani come oggi

Non è per spocchia, ma davvero trovo abbastanza poco sensato il rito degli auguri per il nuovo anno. Se serve per dirsi "ci siamo ancora e ci vogliamo ancora bene", allora ci sto. Ma perché dovrebbe cambiare qualcosa con l'inizio di questo anno o di questo nuovo decennio? E poi il mondo è grande e non siamo più nell'anno Mille. Ci sono tante persone su questa terra per le quali la data di oggi non ha nessun particolare significato.
In questi giorni mi è tornato in mente il grande Leopardi e la sua impeccabile logica del Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere. Quando lo studiai a scuola da ragazza, mi colpì quel suo smontare i luoghi comuni legati al nuovo anno.
Rileggendolo oggi mi accorgo di quanto sono invecchiata, tanto che adesso non vorrei affatto che il nuovo anno fosse diverso da quello passato. Con la consapevolezza di avere solo da perdere, metterei la firma a diversi anni come quelli appena trascorsi.

DIALOGO DI UN VENDITORE D'ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE

Venditore. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere. Almanacchi per l'anno nuovo?
Venditore. Si signore.
Passeggere. Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore. Oh illustrissimo si, certo.
Passeggere. Come quest'anno passato?
Venditore. Più più assai.
Passeggere. Come quello di là?
Venditore. Più più, illustrissimo.
Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Venditore. Signor no, non mi piacerebbe.
Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
Venditore. Saranno vent'anni, illustrissimo.
Passeggere. A quale di cotesti vent'anni vorreste che somigliasse l'anno venturo?
Venditore. Io? non saprei.
Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
Venditore. No in verità, illustrissimo.
Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
Venditore. Cotesto si sa.
Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
Venditore. Cotesto non vorrei.
Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? La vita ch'ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l'appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Venditore. Lo credo cotesto.
Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Venditore. Signor no davvero, non tornerei.
Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque?
Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz'altri patti.
Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell'anno nuovo?
Venditore. Appunto.
Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore. Speriamo.
Passeggere. Dunque mostratemi l'almanacco più bello che avete.
Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere. Ecco trenta soldi.
Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

da "Operette Morali" di G. Leopardi.