Mi accorgo che quasi tutte le bozze di post che ho in lavorazione riguardano l'economia e la crisi economica. E' strano (ma neanche poi tanto) che la discussione tra gli intellettuali su questo argomento veda il fiorire di tentativi di lettura diversa da quella tradizionale (economia di mercato sì/no, capitalismo sì/no, ecc.).
Mi affascinano queste letture "altre", che non buttano a mare completamente un sistema ma auspicano un cambiamento ragionato e ponderato. Una di queste è quella che l'economista Stefano Zamagni ha illustrato al festival Dialoghi sull'Uomo con un intervento dal titolo: "Senza dono l'economia è triste e rende infelici. Un'analisi che mi sembra molto interessante anche se mi suona un po' utopica, tipicamente cattolica (non a caso scopro che Zamagni lavora insieme a Luigino Bruni di cui ho parlato qualche post addietro) cioè che conta sul bene che abita l'essere umano e che alla fine inevitabilmente trionferà. Personalmente sono più pessimista e temo che l'egoismo purtroppo avrà sempre la meglio.
Secondo il prof. Zamagni, non è assolutamente vero che il concetto del dono sia quanto di più lontano dall'economia. Prima di tutto il fatto che la scienza economica si basi oggi sull'utilitarismo non è scontato e non è sempre stato così. Fino al 1700 infatti l'economia era intesa come la "scienza della felicità pubblica". L'influenza del Positivismo unita a quella dell'Utilitarismo (teoria filosofica di fine Settecento dell'inglese Jeremy Bentham) hanno trasformato l'economia da "scienza della felicità" a dismal science (scienza triste). E' stato allora che
è passata l'idea che la felicità e l'utilità fossero la stessa cosa.
Invece, secondo Zamagni, l'utilità è la proprietà della relazione tra la persona e le cose ma essa non basta per essere felici. La felicità invece è la proprietà della relazione tra persona e persona. La felicità sta nella relazione perchè è la risposta al bisogno insopprimibile che ognuno di noi ha di essere riconosciuto e questo non ce lo possono dare le cose. Anche Aristotele diceva che non si può essere felici da soli. Questa confusione tra utilità e felicità ha fatto sì che, a partire dall'Ottocento, l'economista sia diventato colui che insegna ai singoli o agli stati la tecnica per massimizzare l'utilità e in questo orizzonte il concetto del dono non può entrare.
Zamagni distingue inoltre il dono dalla donazione. La donazione è il valore della cosa donata, può essere anche impersonale, può creare dipendenza e persino odio da parte del ricevente. Seneca diceva che non c'è odio più funesto come quello di chi, ricevendo una donazione, non è in grado di ricambiare. Il dono invece sta nella relazione e mette chi riceve in condizione di ricambiare. I tipici ambiti del dono sono la famiglia o le associazioni di volontariato. La politica, che doveva essere l'attività per eccellenza che ha come
obiettivo il bene comune e quindi ospitare il concetto di dono, soffre invece perchè in essa ormai regna il principio di scambio di
equivalenti.
La vera sfida, secondo il professore, è introdurre il principio del dono anche nelle aziende capitalistiche e addirittura dentro la finanza.
Come è possibile? Lasciando alle spalle il metodo tayloristico di organizzazione del lavoro. L'ingegner Taylor nel 1911 pubblicò il suo libro fondamentale
sull'organizzazione scientifica del lavoro che prevedeva per ognuno il suo posto nella
catena di montaggio ad eseguire senza pensare quello che il capo gli diceva. Questo tipo di organizzazione impersonale, ove il dono non trova posto, non ha futuro. Il successo delle imprese nell'era della globalizzazione è legato alla possibilità di valorizzare la tacita conoscenza, che è quella che applicava anche Leonardo da Vinci nella sua bottega, cioè la trasmissione del sapere attraverso il contatto personale, stando vicino ed osservando, attraverso la relazione, la testimonianza. Dalla conoscenza tacita, da una relazione
interpersonale forte, da un'organizzazione aziendale ove il principio del dono viene messo al centro viene fuori la creatività.
Se l'organizzazione del lavoro prevede una conoscenza fatta solo di codici e protocolli dove ognuno deve mettere il suo bullone senza capire cosa si va costruendo, senza poter "donare" il suo contributo di conoscenza personale, il lavoro è solo alienazione, sfruttamento, sofferenza necessaria per vivere.
Quello mi è piaciuto di più dell'intervento di Stefano Zamagni è proprio l'idea che ognuno di noi è portatore di una qualche conoscenza tacita ed è capace di dare un contributo, ed anche l'idea che il lavoro è sì fatica, ma anche gioia. Il lavoro visto anche come luogo di fioritura personale ove il lavoratore deve avere la
possibilità di fiorire secondo le proprie inclinazioni e capacità. Applicare il principio del dono come reciprocità significa, secondo Zamagni, tendere nei
luoghi di lavoro a pensare un'organizzazione che permetta di far
scoprire a tutti la gioia di lavorare. Quelle imprese (poche, ammette l'economista) che
hanno capito questo sono quelle che avranno successo.
Nessun commento:
Posta un commento