Qualche giorno fa', recandomi alla mia periodica donazione di sangue, ho notato con un po' di tristezza l'atteggiamento poco attento e irritato degli operatori del centro sangue i quali, durante i trent'anni nei quali ho frequentato quel luogo, mi avevano sempre colpito per la loro cortesia, scrupolosità e capacità di accoglienza. Al bar dell'ospedale dove mi sono recata poi per fare colazione la scortesia e la sciatteria erano ancora più evidenti. Ma perché la gente non ha amore per quello che fa? Capisco che per molti (anche per me) il lavoro che ci si trova a fare non sia il massimo, probabilmente è un ripiego, magari avremmo altri centomila migliori sogni. In ogni caso quello che si fa parla di noi, è nostro malgrado “una nostra creatura” e dovremmo metterci quel minimo di cura e di attenzione che mettiamo per il nostro aspetto, per la nostra casa e così via.
A tale proposito mi è venuta in mente un'intervista rilasciata a Fahrenheit Radio 3 da Luigino Bruni, professore di Etica e Filosofia dell'Economia all'Università di Milano Bicocca ed autore di "Le nuove virtù del mercato".
Non si può non essere d'accordo con il professor Bruni quando dice che nella società contemporanea l'asse della dialettica sociale non è più il conflitto imprenditore-lavoratori ma quello fra rendite e mondo dell'impresa e che i grandi flussi di ricchezza non sono dentro le fabbriche ma fuori. Pertanto bisognerebbe smettere di guardare il mondo con gli occhi del Ventesimo secolo e pensare che rendendo più flessibile il mercato del lavoro, più facile il licenziamento, si riporterebbero in Italia i grandi capitali. La finanza speculativa infatti, a differenza dell'imprenditore, tratta il lavoratore solo come un costo e non come un investimento e quindi, mossa dall'idea del massimo profitto, troverà sempre un posto dove il lavoro è meno protetto.
Mi convince un po' meno Luigino Bruni quando, rifacendosi alla corrente della cosiddetta Economia Civile, afferma che è necessario riscoprire e mostrare che il principio economico del mercato non è l'interesse personale ma il reciproco vantaggio. Mentre la finanza speculativa ha trasformato il mercato in un gioco a somma zero, una specie di poker dove uno vince e l'altro perde e la somma algebrica delle fiche è zero, in uno scambio di mercato normale entrambi soggetti ne escono con un vantaggio. Mi sembra di aver capito che la svolta nel pensiero economico sia avvenuta a metà Ottocento in quando i grandi economisti napoletani del Settecento, come Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri, per esempio, affermavano che "il mercato è mutua assistenza, non egoismo personale."
Ma quello che mi è piaciuto di più dell'intervista al professor Bruni e che riporta alla mia riflessione dell'inizio, è la necessità di tornare all'etica del lavoro. Secondo l'economista infatti gli esseri umani hanno nella loro natura il bisogno di dare un senso a quello che fanno, il lavoro è molto di più di un mezzo per vivere ed in esso c'è tanta “gratuità”. Per “gratuità nel lavoro” Bruni intende il concetto di far bene un lavoro al di là di quanto esso è remunerato. Come Primo Levi racconta che anche nel lager il muratore, pur odiando i nazisti, costruisce dritto il suo muro «Non per obbedienza ma per dignità professionale», così la giustificazione di un lavoro ben fatto deve essere dentro la pratica di quella professione. Gli economisti anglosassoni del Novecento hanno invece introdotto la pratica dell'incentivo, cioè “lavoro perché e quanto sono pagato e lavoro male se sono pagato poco e non controllato”. Il pagamento invece è sicuramente un riconoscimento importante ed essenziale ma non la motivazione.
Ecco perché, a mio avviso, anche il barista che prepara il millesimo caffè della giornata dovrebbe metterci un briciolino d'amore altrimenti non si capisce cosa lo distingua dal distributore automatico di caffè.
A tale proposito mi è venuta in mente un'intervista rilasciata a Fahrenheit Radio 3 da Luigino Bruni, professore di Etica e Filosofia dell'Economia all'Università di Milano Bicocca ed autore di "Le nuove virtù del mercato".
Non si può non essere d'accordo con il professor Bruni quando dice che nella società contemporanea l'asse della dialettica sociale non è più il conflitto imprenditore-lavoratori ma quello fra rendite e mondo dell'impresa e che i grandi flussi di ricchezza non sono dentro le fabbriche ma fuori. Pertanto bisognerebbe smettere di guardare il mondo con gli occhi del Ventesimo secolo e pensare che rendendo più flessibile il mercato del lavoro, più facile il licenziamento, si riporterebbero in Italia i grandi capitali. La finanza speculativa infatti, a differenza dell'imprenditore, tratta il lavoratore solo come un costo e non come un investimento e quindi, mossa dall'idea del massimo profitto, troverà sempre un posto dove il lavoro è meno protetto.
Mi convince un po' meno Luigino Bruni quando, rifacendosi alla corrente della cosiddetta Economia Civile, afferma che è necessario riscoprire e mostrare che il principio economico del mercato non è l'interesse personale ma il reciproco vantaggio. Mentre la finanza speculativa ha trasformato il mercato in un gioco a somma zero, una specie di poker dove uno vince e l'altro perde e la somma algebrica delle fiche è zero, in uno scambio di mercato normale entrambi soggetti ne escono con un vantaggio. Mi sembra di aver capito che la svolta nel pensiero economico sia avvenuta a metà Ottocento in quando i grandi economisti napoletani del Settecento, come Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri, per esempio, affermavano che "il mercato è mutua assistenza, non egoismo personale."
Ma quello che mi è piaciuto di più dell'intervista al professor Bruni e che riporta alla mia riflessione dell'inizio, è la necessità di tornare all'etica del lavoro. Secondo l'economista infatti gli esseri umani hanno nella loro natura il bisogno di dare un senso a quello che fanno, il lavoro è molto di più di un mezzo per vivere ed in esso c'è tanta “gratuità”. Per “gratuità nel lavoro” Bruni intende il concetto di far bene un lavoro al di là di quanto esso è remunerato. Come Primo Levi racconta che anche nel lager il muratore, pur odiando i nazisti, costruisce dritto il suo muro «Non per obbedienza ma per dignità professionale», così la giustificazione di un lavoro ben fatto deve essere dentro la pratica di quella professione. Gli economisti anglosassoni del Novecento hanno invece introdotto la pratica dell'incentivo, cioè “lavoro perché e quanto sono pagato e lavoro male se sono pagato poco e non controllato”. Il pagamento invece è sicuramente un riconoscimento importante ed essenziale ma non la motivazione.
Ecco perché, a mio avviso, anche il barista che prepara il millesimo caffè della giornata dovrebbe metterci un briciolino d'amore altrimenti non si capisce cosa lo distingua dal distributore automatico di caffè.
Sante parole, Artemisia. Condivido totalmente il concetto di "gratuita' nel lavoro" del professor Bruni.
RispondiEliminaIl che, tra l'altro, ha come effetto pratico, almeno nel mio caso personale, un miglioramento della vita: fare una cosa bene rende l'attivita' di farla piu' interessante, e quindi piu' divertente il tempo speso per farla.
Pero' ci sarebbe da aggiungere che, a meno che uno faccia l'artigiano e lavori da solo per se stesso, la qualita' del lavoro, e quindi l'amore per esso, e' mediata dall'organizzazione (fabbrica, ufficio, azienda...) nella quale e' inserito.
Pur mettendoci tutto l'impegno per fare le cose bene, il prodotto del mio lavoro fa schifo perche' nella sua costruzione intervengono anche altre persone e, soprattutto, un loro coordinamento. Alla fine, la bonta' del prodotto non dipende dalla qualita' del lavoro dei singoli, ma dalla volonta' manageriale di ottenere un prodotto buono. Di questa cosa sembra essere piuttosto carente l'azienda dove lavoro. E il mio impegno per ottenere il migliore risultato non solo non e' apprezzato da chi mi da' lo stipendio, ma risulta vano perche' il risultato non e' efficacie, per colpa dell'ignoranza ed incapacita' di chi mi sta sopra (se non per dolo).
E qui ci sarebbe da aprire una parentesi sulle motivazioni secondo cui certe scale gerarchiche nell'organigramma sono apposta costruite secondo criteri meritocratici al contrario, ma :-) andrei fuori tema.
La regola secondo cui bisogna amare il proprio lavoro e' corretta, in generale. Pero' un rapporto d'amore funziona se e' reciproco: non riesco ad amare l'oggetto del mio lavoro se so che indipendentemente dal mio lavoro l'oggetto e' destinato a riuscire una schifezza. Bello l'esempio del muratore nel lager. Ma, l'esempio opposto e' quello del manovale specializzato di ottime qualita' e pagato profumatamente: tira su un muro perfetto che pero' dopo due giorni crolla perche' la qualita' del cemento che e' stato costretto ad utilizzare e' pessima. Non lo biasimerei se, sapendololo, per tirar su il prossimo muro non ci mettesse lo stesso impegno.
Fermo restando che :-) come dicevo in un post sul mio blog, la maleducazione del barista non e' mai giustificata. Un sorriso e' gratis e aiuta la collettivita' a vivere meglio.
Mi spiace Dario per la tua frustrazione (di cui sono al corrente grazie al tuo blog). Ma il discorso non cambia. Il concetto di far bene il proprio lavoro si ferma a quello che uno fa, indipendentemente dal prodotto finito (e magari sciupato da altri successivamente).
EliminaCiao, Artemisia. Scusa se (per ora) non commento il post, ma sono solo di passaggio. Ti ricordi di me? Come stai? Meno male che il tuo blog è ancora attivo: di quelli che conoscevo sono tutti spariti.
RispondiEliminaCiao Lorenzo, certo che mi ricordo? Ti stavo anche pensando in questo periodo perchè so che hai la maturità. Come sta andando? Immagino che ti manchi solo l'orale.
EliminaFammi sapere e in bocca al lupo!
Confermo il fatto che la passione in qello che si fa è direttamente proporzionale alla gratificazione che comporta. Dove lavoro io, per quanto ci sforziamo a fare un buon lavoro, c'è sempre la nostra responsabile che sottolinea gli errori di tutte eccetto, chiaramente, di sua figlia.....come si fa a lavorare? Passa la voglia!
RispondiEliminaCoto