mercoledì 29 febbraio 2012

"Diodi" e la società più giusta

Sabato scorso a Firenze: inaugurazione della nuova sede provinciale dell'A.N.P.I. La folla non era certo oceanica ma mi aspettavo peggio. E' stato buffo quando il presidente provinciale, il mitico Silvano Sarti, ha chiesto un bambino per aiutarlo a tagliare il nastro (dando così un messaggio di proiezione verso il futuro per questa associazione) e tra i presenti non se ne trovava neanche uno. Alla fine è spuntato il piccolo Michele che, con i suoi quattro anni, è stato un po' il protagonista involontario della mattinata. La scena però, come sempre, l'ha dominata il nostro "Silvanone" (come lo chiama quel filone del mio sindaco), incontenibile come sempre (anche se ho notato sempre più vuoti logici nel suo discorso).
Anche una settimana prima, al Teatro Puccini, era stato difficile togliere il microfono di mano al Sarti dopo la proiezione del film documentario Diodi che lo vede uno dei quattro protagonisti.
Si tratta di un collage di interviste a quattro protagonisti, due uomini e due donne, che ci riporta a quegli anni, non tanto come racconto di gesta eroiche, quanto come fotografia di una quotidianità nella quale Laila, Pillo, Aldo e Didala, già da bambini, vivevano sulla propria pelle cosa volesse dire essere nati in una famiglia antifascista.
"Mio padre quando mi vestivo da Balilla mi diceva: 'Tu non devi essere contento di vestirti così perché rappresenti un bambino di scarsa intelligenza. Ma non glielo dire agli altri perché la cosa per ora non si risolve.' Avere un babbo che ti parla così," dice Pillo (Silvano Sarti), "e che qualche sera torna a casa bastonato, te quel regime tu lo odi sin da piccino".
Aldo Michelotti, anche lui presente in sala al Puccini e visibilmente commosso, racconta nel film come venne a conoscenza dell'antifascismo grazie a due operai delle Officine Galileo che spiegarono a lui, ragazzo curioso e testardo, perché essi non indossavano la camicia nera.
La dolce Didala racconta invece di come apprese dell'uccisione del marito partigiano, padre del suo piccolo bambino. "Forse perchè ho fatto la resistenza, forse perché ho sofferto parecchio, ma mi sembra di voler bene a tutti. Mi sembra di viver bene perché voglio bene a tutti".
Più combattiva, Laila rievoca come, dopo un mese che faceva la partigiana, lasciò il fidanzato che la voleva di ritorno a casa, remissiva e ubbidiente. "Su in montagna con i ragazzi parlavamo molto del futuro che avremmo voluto costruire: una società più giusta dove i giovani e le donne avessero la possibilità di fare secondo le loro aspirazioni e le loro esigenze." Insiste molto Laila sulla parità uomo-donna che essa non vedeva realizzarsi nemmeno nel Dopoguerra: "Santi numi benedetti, per questi uomini la politica era una cosa, il comportamento personale era un'altra! La donna non aveva nessun diritto. I salari in fabbrica erano anche del 40% inferiori a quelli degli uomini. Per un cambiamento di mentalità dell'uomo verso la donna ci sono voluti praticamente sessant'anni."
Anche Aldo Michelotti insiste sul sogno dei partigiani di una società più giusta e sottolinea però la delusione successiva alla fine della guerra: "In un primo momento questo cambiamento sembrava realizzarsi, ma poi quelli che comandavano prima si riappropriarono del potere. Il nostro intento era una società diversa e non siamo riusciti in questo." La sua è un'analisi semplice ma inappuntabile: "E' sull'ignoranza che i ricchi speculano. E' tutto lì." E poi chiosa: "Ci sono tanti vecchi soli la cui sola compagnia è la televisione e così gli si dà da intendere quello che si vuole."
Dobbiamo fare tesoro di queste testimonianze prima che il destino ce li porti via come è accaduto della volitiva Laila che nel film ci regala il suo ultimo saluto: "Per me la democrazia è la cosa più preziosa che l'essere umano può avere. Ed è per questo che fintanto che ho un respiro io faccio questo."

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