Il 10 maggio 1734 Carlo di Borbone, giovanissimo principe figlio del Re di Spagna e dell'italiana Elisabetta Farnese, entra trionfante a Napoli e diventa Re di Napoli e di Sicilia. Inizia così la storia dei Borboni nell'Italia del Sud, raccontata da Gianni Oliva, studioso del Novecento, nel libro "Un regno che è stato grande. La storia negata dei Borboni di Napoli e Sicilia."
Molto interessante l'intervista che Gianni Oliva ha rilasciato a Fahrenheit Radio 3 in quanto mira a farci capire cosa è successo nell'Italia meridionale senza aderire né da un lato alla lettura "piemontese" dei vincitori, che vedeva nel Mezzogiorno solo oscurantismo, arretratezza economica, superstizione, ecc., né a quella recente neoborbonica che è troppo rancorosa. Oliva cerca di illustrare sia le luci che le ombre dei quasi 130 anni di regno borbonico.
Dopo secoli di dominazione straniera con i baroni locali che avevano carta bianca sul territorio in cambio di pace sociale, con Carlo Borbone appunto il Mezzogiorno diventò un regno autonomo, con un potere monarchico centrale che si affermò sul particolarismo feudale e sull'anarchia dei municipalismi, con uno sforzo di centralizzazione che vuol dire regole uguali per tutti e giurisdizione unica. Carlo cercò di trasformare Napoli in una grande capitale europea rilanciando la cultura, le arti ed anche l'economia (nel 1754 a Napoli si aprì la prima cattedra di Economia e Commercio al mondo) e costruendo strade e porti.
Il rilancio economico e culturale formò una nuova classe media che inevitabilmente reclamò diritti e che fu la protagonista della Repubblica Partenopea del 1799. Quest'ultima fallì sia perché gli intellettuali che la guidavano non erano capiti dal popolo (discutevano di costituzione e di libertà di stampa mentre i contadini bramavano terra) sia perché osteggiati dagli Inglesi che appoggiarono il Borbone di turno, quel Ferdinando marito di Maria Carolina, sorella della Maria Antonietta ghigliottinata in Francia, con successiva feroce repressione seguita da decenni di ristagno.
Nel 1830 con il ventenne Ferdinando II si aprì un nuovo periodo di prosperità e di progresso (si pensi alla Napoli-Portici, prima ferrovia italiana) bruscamente fermato però con i moti del 1848 quando la borghesia tentò ancora di affermarsi. L'errore cruciale dei Borboni, secondo Gianni Oliva, fu proprio quello di rispondere con la difesa dell'assolutismo monarchico al contrario di quello che accadde invece a Torino con Carlo Alberto, chiusura e repressione al posto di Statuto e alleanza con la classe media. Ecco perché la classe dirigente risorgimentale nazionale (proveniente da ogni parte di Italia) si formò a Torino mentre Napoli vide un impoverimento delle teste migliori del mezzogiorno.
L'analisi di Gianni Oliva conduce quindi fino all'oggi: quando l'unità d'Italia si è realizzata il Mezzogiorno non aveva assolutamente completato il suo processo di modernizzazione. Si perse la grande occasione di fare di tutta la penisola una stessa realtà sociale ed economica. Le masse di contadini, che si aspettavano la ridistribuzione delle terre come promesso dai Garibaldini, videro uno stato piemontese che non realizzò nessuna riforma agraria, mantenne un potere fortemente accentrato, si impose con la faccia dell'esattore delle tasse e del carabiniere e soprattutto si alleò con la classe baronale che era la meno propulsiva ma garantiva la pace sociale. Alleanza che pesa ancora oggi. I piccoli "bravi" si trasformarono in manovalanza della criminalità organizzata e lo sviluppo del Mezzogiorno perse una grande opportunità.
Molto interessante l'intervista che Gianni Oliva ha rilasciato a Fahrenheit Radio 3 in quanto mira a farci capire cosa è successo nell'Italia meridionale senza aderire né da un lato alla lettura "piemontese" dei vincitori, che vedeva nel Mezzogiorno solo oscurantismo, arretratezza economica, superstizione, ecc., né a quella recente neoborbonica che è troppo rancorosa. Oliva cerca di illustrare sia le luci che le ombre dei quasi 130 anni di regno borbonico.
Dopo secoli di dominazione straniera con i baroni locali che avevano carta bianca sul territorio in cambio di pace sociale, con Carlo Borbone appunto il Mezzogiorno diventò un regno autonomo, con un potere monarchico centrale che si affermò sul particolarismo feudale e sull'anarchia dei municipalismi, con uno sforzo di centralizzazione che vuol dire regole uguali per tutti e giurisdizione unica. Carlo cercò di trasformare Napoli in una grande capitale europea rilanciando la cultura, le arti ed anche l'economia (nel 1754 a Napoli si aprì la prima cattedra di Economia e Commercio al mondo) e costruendo strade e porti.
Il rilancio economico e culturale formò una nuova classe media che inevitabilmente reclamò diritti e che fu la protagonista della Repubblica Partenopea del 1799. Quest'ultima fallì sia perché gli intellettuali che la guidavano non erano capiti dal popolo (discutevano di costituzione e di libertà di stampa mentre i contadini bramavano terra) sia perché osteggiati dagli Inglesi che appoggiarono il Borbone di turno, quel Ferdinando marito di Maria Carolina, sorella della Maria Antonietta ghigliottinata in Francia, con successiva feroce repressione seguita da decenni di ristagno.
Nel 1830 con il ventenne Ferdinando II si aprì un nuovo periodo di prosperità e di progresso (si pensi alla Napoli-Portici, prima ferrovia italiana) bruscamente fermato però con i moti del 1848 quando la borghesia tentò ancora di affermarsi. L'errore cruciale dei Borboni, secondo Gianni Oliva, fu proprio quello di rispondere con la difesa dell'assolutismo monarchico al contrario di quello che accadde invece a Torino con Carlo Alberto, chiusura e repressione al posto di Statuto e alleanza con la classe media. Ecco perché la classe dirigente risorgimentale nazionale (proveniente da ogni parte di Italia) si formò a Torino mentre Napoli vide un impoverimento delle teste migliori del mezzogiorno.
L'analisi di Gianni Oliva conduce quindi fino all'oggi: quando l'unità d'Italia si è realizzata il Mezzogiorno non aveva assolutamente completato il suo processo di modernizzazione. Si perse la grande occasione di fare di tutta la penisola una stessa realtà sociale ed economica. Le masse di contadini, che si aspettavano la ridistribuzione delle terre come promesso dai Garibaldini, videro uno stato piemontese che non realizzò nessuna riforma agraria, mantenne un potere fortemente accentrato, si impose con la faccia dell'esattore delle tasse e del carabiniere e soprattutto si alleò con la classe baronale che era la meno propulsiva ma garantiva la pace sociale. Alleanza che pesa ancora oggi. I piccoli "bravi" si trasformarono in manovalanza della criminalità organizzata e lo sviluppo del Mezzogiorno perse una grande opportunità.
Gianni Oliva è uno storico serio (ho apprezzato moltissimo i suoi lavori sulle foibe e sull'Istria); fu anche valido Assessore alla Cultura della Regione Piemonte nella Giunta Bresso, prima della era di Quello-con-la-pochette-verde. Il tema è appassionante, se visto con una logica serena e non da tifosi: me lo segno!
RispondiEliminaAmo molto leggere Gianni Oliva, lo trovo schietto e diretto, con questo libro ha ridato dignità al nostro bistrattato sud,nei suoi libri ho sempre notato serietà e obbiettività, uno storico di grande onestà intellettuale
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