giovedì 8 novembre 2012

Homo edens

Non tutto quello che ho sentito dall'antropologo Marino Niola, autore del libro "Non tutto fa brodo", mi ha convinto. Trovo che spesso e volentieri "ricami" su un po'. Tuttavia è sicuramente densa di stimoli sia la sua intervista a Fahrenheit sia, soprattutto, la sua lezione al Festival della mente "Fra bio e dio. Il cibo tra conoscenza, resistenza e penitenza" ed invito chi è interessato al significato culturale e antropologico del cibo e della gastronomia ad ascoltarle entrambi.
Il cibo non solo come nutrizione o come scienza esatta ma anche come cultura, come "cattedrale del gusto", curiosità, estetica, fantasia. Il cibo come "vero carburante della storia" per ragioni naturali e culturali, "si mangia per vivere ma anche si vive per mangiare" (su questo ultimo punto non mi ci rivedo tanto).
I tabu legati al cibo hanno tutti una ragione culturale e storica. Noi pensiamo che il gusto sia una cosa soggettiva ed invece sono categorie mediate culturalmente. Per esempio, da noi non si mangia il cane ma altrove lo fanno senza problemi. Noi mangiamo il cavallo mentre nei paesi anglosassoni è inconcepibile.
L'antropologo culturale guarda con favore le commistioni con culture diverse. Le forme di protezionismo dimostrano cecità e ottusità di fronte a quello che succede. La cucina è meticcia da sempre. Se ci pensiamo, gli ingredienti base delle nostre gastronomie vengono da lontano (pomodoro, peperoncino, patate, mais, ecc.).
Niola recrimina invece il fatto che quasi il 25% del cibo venga buttato, mentre nella cucina povera tradizionale vi erano diversi eccellenti piatti di riciclo degli avanzi.

Interessante apprendere che la tendenza alla cucina vegetariana, oggi auspicata soprattutto per motivi ambientali, ha in realtà origini molto antiche. Il prof. Niola a Sarzana ha citato infatti le raccomandazioni di Socrate tratte dal secondo libro de La Repubblica di Platone (tra il 390 e il 360 a.C.): "In futuro gli uomini si nutriranno di fiocchi d'orzo, di farina di grano, di focacce genuine e pane posato su canne e su foglie ben pulite." Il dialogo su quale sia la migliore alimentazione di una città ideale da fondare si svolge tra Socrate, che auspica un regime di  "abbondanza frugale", e Glaucone che insiste sull'importanza della carne e delle comodità, e richiama incredibilmente un dibattito attuale. Per fortuna Socrate aggiungerebbe anche "sale, olive, formaggio e bulbi come si usa fare in campagna, pasticci di dolci, fichi e fave, bacche di mirto e di ghiande arrostite sotto la cenere, moderato vino. In questo modo ciascuno vivrà di più e potrà trasmettere ai propri discendenti un analogo modo di vivere." E, antesignano della decrescita, accusa Glaucone: "Tu non stai cercando l'origine di una semplice città di sussistenza bensì di una città del lusso." 
Pitagora metteva  matematicamente d'accordo la salute del corpo con la salvezza dell'anima (evitando cioè lo spargimento di sangue) ed aveva una tabella dietetica ineccepibile persino per un vegano di oggi: "pane e miele al mattino, verdura fresca la sera, molti cereali, legumi e fibre".  Mangiare carne, secondo Pitagora, rende feroci e spietati. Non per nulla la dieta vegetariana era chiamata "regime pitagorico".

Ogni cucina, afferma Marino Niola, è lo specchio della società a cui appartiene. La storia delle cucine mediterranee è inseparabile dalla storia dei tre grandi monoteismi. Musulmani ed ebrei, per esempio, sono accumunati dall'avversione per la carne di maiale e per la carne al sangue. Il Levitico è denso di divieti. I Cristiani hanno invece un atteggiamento onnivoro ma temperato. San Paolo disse: "nessuno vi separi in base a ciò che mangiate e ciò che bevete." E' infatti la moderazione il vero precetto del Cristianesimo a tavola ed è un atteggiamento che permane anche nella nostra società secolare di oggi che raccomanda di mangiare di tutto ma poco. L'ascetismo di San Paolo riaffiora nella nostra ricerca spasmodica del mangiar sano, della leggerezza che redime (qui mi ci rivedo). La nostra società tanto appesantita dall'abbondanza ha trasformato l'astinenza in un'etica e la magrezza in un segno di superiorità. Il paradosso è che viviamo in un mondo diviso tra poveri, che cercano disperatamente di mangiare, e ricchi, che cercano disperatamente di non mangiare. 

Secondo l'antropologo oggi chiediamo al cibo ciò che non gli apparterrebbe: non solo la salute del corpo ma anche la salvezza dell'anima. E' singolare aprpendere che negli USA il 30% del mercato alimentare è occupato da cibi kosher mentre gli ebrei sono meno del 2% della popolazione. E' come se ad un'esigenza di genuinità si associasse l'idea di purezza. In un mondo come il nostro, preda di mille insicurezze e paure, contaminazione ambientale, OGM, pesticidi, diossina, grassi idrogenati, sostanze cancerogene, non sapendo "a che santo votarsi" ci buttiamo sulla "vacca sacra come antidoto alla mucca pazza". "Se non è bio che ci pensi Dio", afferma provocatoriamente Niola. 
Un'altra caratteristica ci porta a preferire cibi SENZA: senza grassi, senza zucchero, senza calorie, senza latte, senza glutine, ecc. Siamo ossessionati da un ideale di purezza e di leggerezza è tutto un levare. Non si trratta tanto di sacrosanta educazione alimentare, quanto di un misto di ascetismo e di disciplina, di astinenza e di continenza, di etica e dietetica. 
L'obesità è solo l'altra faccia della medaglia. I grandi obesi, presenti in particolar modo nella provincia americana, sono prima presi per la gola dal junk food e poi condannati come onnivori compulsivi, come parassiti, soggetti senza volontà, insostenibili per il sistema sanitario. In una società dell'efficienza e della velocità e della leggerezza non c'è posto per le taglie forti.
La criminalizzazione della pinguedine è antica ma la differenza la fanno i pesi e le misure che cambiano nelle epoche. Nell'europa medievale il grasso era segno di ricchezza e di prestigio e talvolta di bellezza. Con la rivoluzione industriale il sovrappeso smette di essere un marchio morale e razziale e diventa un segno individuale di quella persona. Nasce l'idea che il peso esteriore abbia un contrappeso interiore. Incredibile apprendere che fino ai primi del Novecento nessuno si pesasse.

A dir la verità, personalmente, non ho un palato molto raffinato né una grande passione per la gastronomia. Sono d'accordo con la mia amica blogger Alchemilla quando scrive che "diamo troppa importanza al cibo". Per quanto mi riguarda, prediligo la semplicità e la genuinità del cibo anche a discapito del gusto. Mi interessa molto di più il "cibo della mente" e difatti ho trovato discretamente "appetitosa" la lezione di Marino Niola.

5 commenti:

  1. Sei sempre una fonte di buona informazione.
    Ciao Arte!
    Cristiana

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  2. Mh.. Credo che genuino e povero in genere si coniughino bene con appetitoso proprio perche' il cibo e' un fatto culturale. Nella cucina (povera) il cibo era cucinato con semplicita', ed era quindi genuino. Da li' deriva il nostro gusto.
    Tendenzialmente il consumismo tenta di modificare dal punto di vista culturale il gusto proprio per aumentare il consumo del cibo e dei profitti di chi lo produce.
    Anche la moderazione secondo me deriva da un fatto culturale. Io non credo diventero' mai vegetariano, perche' credo nel valore del cibo come fatto culturale, e credo nel valore della cultura. Ma sono anche convinto che la carne debba essere un elemento eccezionale in un contesto di frutta e verdura. E questo ha un senso anche come economia sostenibile. Il pollame e' un ottimo metodo per il riciclo degli avanzi. Una gallina sopravvive mangiandosi le bucce delle mele scartate dall'uomo, e produce ottimo guano per la concimazione, qualche uovo e, alla fine, poca carne per l'alimentazione. Peccato sprecare tutto cio'. Chiaramente mangiare un pollo al giorno non e' sostenibile. Ma uno ogni tanto si'.

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    1. Per "semplice e genuino a discapito del gusto" intendo anche roba insipida...
      Stile macrobiotico per intendersi. Non che disdegni l'ottima cucina povera tradizionale, è che personalmente non mi interessa applicarmi nel cucinare. Basta che cucinino gli altri, io mangio di tutto. :-)

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    2. Ottimo, allora, perche' a me piace cucinare. Ti invito quindi a casa nostra. O puoi magari invitarmi tu, ma cucino io :-)

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  3. Grazie per il riassunto, non ho ancora ascoltato gli interventi. Non sono molto organizzata con il trasferimento su mp3...Leggendoti mi rendo conto ogni volta che mi perdo qualcosa ma la pigrizia vince sempre...
    Sempre nell'incontro di stasera si diceva della necessità di "ritornare poveri": in tempo di guerra mangiavano saggina e vivevano. Oggi siamo obesi (io per prima!) e mai contenti. Sfoghiamo sul cibo tutte le nostre frustrazioni. Credo sia questo il motivo fondamentale per cui gli diamo così importante. E' un surrogato della nostra vita, affidiamo a lui gioie e dolori e buttiamo tantissimo tempo che potremmo impiegare a fare molto altro.
    Quando poi tutto questo tempo porta anche ad una cucina poco sana ed "etica" lo spreco è raddoppiato...

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