sabato 31 marzo 2012

Lasciamo che siano gli uccellini a cinguettare

Grande strumento la rete. Se domani mi dicessero che non posso più accedervi, penso che entrerei in crisi. Ciò nonostante ho sempre chiaro dentro di me che essa è uno strumento e come tale si può anche farne a meno, magari con un po' di fatica in più. Soprattutto bisognerebbe non lasciarsi prendere la mano. Mentre sto continuando a resistere (tranquillamente, direi) al fascino di Facebook, apprendo che esso è già sorpassato perché i più aggiornati ormai preferiscono "cinguettare".
E se Repubblica Firenze sente il bisogno di dedicare un articolo alla così poco avvincente notizia che il sindaco di Napoli twitta più del mio, mi sento in linea con Michele Serra il quale ha scatenato le ire della twitter-sfera osando affermare che la brevità a cui si è costretti dai 140 caratteri comporta inevitabilmente semplificazione, banalizzazione, mancanza di dialettica e comunque regressione culturale.
Adoro la sintesi ma in questo caso ha ragione Michele Serra: Twitter non è esercizio di sintesi ma comoda semplificazione in un "mi piace/non mi piace", bianco o nero, Y/N, anche su cose che richiederebbero un po' di sforzo di ragionamento e di pensiero. Strumenti come Twitter, come gli SMS o come FB sono comodi per le "comunicazioni di servizio", tipo per concordare un appuntamento, non certo per scambiarsi opinioni o imparare a riflettere.
Ai mali della rete io aggiungerei anche la confortevole quanto deleteria possibilità di nascondersi dietro una tastiera e un nickname che fa sentire tanti in diritto di dare la stura ad offese ed a dichiarazioni sprezzanti che non avrebbero il coraggio di fare di presenza. Cito un caso in cui mi sono imbattuta di recente. Il presidente dell'ANPI, l'avvocato Carlo Smuraglia, un gentleman dotato di una eccezionale dialettica, ricca quanto chiara, è stato preso di mira in rete da alcuni fanatici a proposito del movimento NoTAV. Il presidente si è sentito in dovere di rispondere loro nell'ultima newsletter, anche se forse, a mio modesto avviso, certe uscite andrebbero solo ignorate:

"Ho notato, specialmente in alcune note apparse sul web, dichiarazioni apodittiche, prese di posizione non motivate, atteggiamenti sprezzanti. Non si capisce bene, ad esempio, se alcune osservazioni provengano da iscritti o meno; nel primo caso, sarebbe piuttosto singolare una discussione che fa riferimento al Presidente chiamandolo “Sig. Smuraglia”, con tono evidentemente spregiativo in relazione a ciò che ha detto. Si discute, soprattutto, rispettando le rispettive idee e le rispettive posizioni; altrimenti la discussione è monca o addirittura non è una discussione. Capisco che in molti casi un vincolo deriva dallo strumento di comunicazione, che in qualche modo induce alla brevità e talora alla sommarietà. Ma con le frasi sommarie e apodittiche una discussione non riesce veramente a fiorire e ad approfondirsi; qualche volta finisce per risolversi semplicemente in uno spregio o in un insulto che francamente non serve alla bisogna e non produce alcun risultato."

Anche l'ANPI comunque è su Facebook e su Twitter...

giovedì 29 marzo 2012

Il disagio dell'esule in patria

Corrado Augias si è guadagnato da tempo le ire e il risentimento di molti Cattolici italiani (compresi i miei amici blogger). Non sta a a me difenderlo, non ne ho né le competenze né l'interesse anche se devo dire, da esterna, che non l'ho mai trovato irrispettoso. Per esempio, nella sua intervista a Fahrenheit Radio 3, sul suo ultimo libro "Il disagio della libertà. Perché agli Italiani piace avere un padrone", Augias si mostra fortemente critico verso la "tiepida religiosità degli Italiani" confrontando empiricamente il comportamento riscontrato durante la messa in una chiesa gesuita di Parigi rispetto a quello che egli ha rilevato in una chiesa romana. Anche l'esagerato culto dei santi tipico del Cattolicesimo secondo Augias rivela l'indole italiana e ripropone lo schema del patronus e del clientes della Roma classica.
Al di là della scivolosa questione della religiosità, mi sento di concordare con Augias quando sottolinea negli Italiani una propensione al servilismo, al familismo, al comodo delegare le scelte all'uomo forte piuttosto che prendersi la responsabilità di impegnarsi e di agire. Mali che, d'altra parte, già segnalava il buon Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani del 1824 appellando gli Italiani come "popolaccio dei popolacci", così come anche Piero Gobetti che scriveva "Bisogna amare l'Italia con orgoglio di europei e con l'austera passione dell'esule in patria." Quest'ultima definizione calza perfettamente con il sentimento con il quale mi trovo quasi costantemente a convivere. Non perché io sia esente da pecche, ci mancherebbe, ma perché mi capita continuamente di notare intorno a me una maleducazione, un lassismo, un'approssimazione, un menefreghismo che mi addolorano ancora prima di farmi rabbia.
Esercizi di libertà per gli Italiani proposti da Augias nell'intervista? Studiare, leggere, seguire programmi che aiutano a riflettere, impegnarsi, cercare di capire. La libertà, troppo spesso interpretata con un "fare quello che ci pare", è invece impegno, fatica, partecipazione, è un bene fragile e bisogna lavorarci.

lunedì 26 marzo 2012

Disinformata per difesa

Mi sento leggermente in colpa e sono comunque rammaricata, però non ce la faccio a star dietro alle notizie di attualità. Da qualche mese non leggo più i giornali (i telegiornali sono anni che non li guardo più), non compro più L'Unità nemmeno nel finesettimana e non riesco a leggere nemmeno i titoli del Fatto Quotidiano online a cui sono abbonata in feed (anche perché 100/150 post al giorno sono davvero troppi). So che informarsi è il primo dovere di ogni buon cittadino ma davvero i mezzi di comunicazione oggi sono troppi e mi sento come sotto un bombardamento. Mi dico anche che l'eccesso di input informativi alla fine diventa disinformazione perché si legge tutto e il contrario di tutto espresso con altrettanta autorevolezza. Si finisce quindi per farsi un'opinione "emotiva" e non razionale e ponderata.
Sarebbe utile limitarsi agli approfondimenti. Purtroppo non ho tempo neppure per quelli. Per esempio, sono indietro di due mesi nella lettura delle uniche due riviste (mensili) a cui sono abbonata. Inoltre ci sono infiniti blog interessanti su tutti gli argomenti possibili e immaginabili ma io non ho il tempo, le energie e la concentrazione necesssaria per seguirli.
Last but not least, le notizie, da tempo immemorabile, mi provocano solo rabbia, scoramento, delusione, quando non ansia per il futuro. Pertanto nel poco tempo libero dal lavoro, dalla casa e dalla famiglia, preferisco dedicarmi a ciò che mi dà un po' di soddisfazione: 1) scrivere per il blog (di qui il tono diaristico-personale degli ultimi mesi), 2) seguire i programmi televisivi e radiofonici che mi piacciono (ove l'attualità comunque si riaffaccia), 3) leggere libri su carta, su e-reader e con le orecchie (guarda che strano sono tornata ai romanzi dopo anni di saggistica!).
Mi sento un po' in colpa ma neanche poi tanto. Sono pronta all'azione: petizioni? manifestazioni? referendum? scioperi? Sono disponibile ora più che mai, ma non mi chiedete l'arrabbiatura quotidiana che ha effetto solo sul mio fegato (e probabilmente anche sulla mia psoriasi).

(PS Scritto di domenica mattina in 14 minuti ritagliati tra una lavatrice da stendere e il pranzo da preparare.)

domenica 25 marzo 2012

Il pane, la mia madeleine

Sono abbastanza esigente riguardo al pane. Ne mangio poco e per anni ne ho fatto quasi a meno, tuttavia non mi accontento di un pane qualsiasi. Per esempio non mi piace il comune pane toscano, che qui chiamiamo "casalingo" ma che in realtà è fatto, il più delle volte, con farine superraffinate e lievito industriale. Non ho tempo e occasione per comprare il pane tutti i giorni e pertanto la mia prima condizione è che si conservi dignitosamente per più giorni come sarebbe normale un pane fatto secondo tradizione.
Se dovessi stilare una classifica tra quelli alla mia portata, per primo metterei il filone che compro da un contadino al mercatino del venerdì, fatto con grano kamut che coltiva egli stesso, lievitato con la pasta madre, un po' scuro ma non del genere integrale sbricioloso che tradisce la semplice aggiunta di crusca alla farina bianca.
Per secondo metterei il pane di Montegemoli. Anch'esso integrale, si trova in grosse ruote da due chili e "invecchia" benissimo tanto che è commestibile anche dopo una settimana. A pari merito, anche perché è molto simile, metterei il pane di Vinca che compro quando sono in vacanza in Lunigiana.
Terzo metterei il pane di Romano Berti, un forno vicino al mio ufficio dove i clienti entrano e dicono solo la quantità che ne desiderano perchè il Berti fa solo "quel" tipo di pane. E' un pane toscano bianco, con poco o niente sale, ma assai diverso da quelli industriali. Non so se il segreto stia nell'acqua o nel lievito ma è molto più buono del comune filone, tanto che si mangia volentieri anche da solo.
Pur essendo di tutt'altro genere, mi piace anche il pugliese del forno vicino a casa. Non so se la sua ricetta corrisponde veramente a quella tradizionale pugliese perché, per esempio, non è affatto salato. E' soffice, di colore tendente al giallo e profuma tantissimo di lievito di birra. Proprio addentando una fetta di questo pane morbido spalmato di marmellata di mirtilli (accompagnata dalla irrinunciabile tazzona di tè delle cinque) ho avuto un deja vu. Improvvisamente, proprio come Proust con le sue madeleine, mi sono venuti in mente i panini morbidi che mia madre, quando ero bambina, farciva con la marmellata e che mi dava sulla spiaggia appena uscita dal bagno pomeridiano. Questi panini non avevano nulla di particolare, ma mi davano un piacere incredibile, in quel momento di relax che si prova uscendo dal bagno, tanto che mi sembravano la cosa più buona del mondo.

giovedì 22 marzo 2012

Italiani cinquant'anni fa


"Italia, 1962. Mandateci le vostre foto" è il titolo di un concorso lanciato da una nota catena di distribuzione per festeggiare i propri cinquant'anni. Ed in tanti hanno risposto con un entusiasmo che, secondo me, va al di là dell'attrattiva dei premi.
Sfogliando la galleria delle foto inviate, alcune sciupate o storte o sfocate, si viene presi dalla tenerezza. Si capisce che si tratta di ricordi affettivi senza alcuna pretesa artistica. Tuttavia esse rendono bene il ritratto di vite semplici, modeste ma allegre. Tanti bambini ritratti sopra la Vespa o la moto oppure alla guida dell'auto, oggetti che rappresentavano un traguardo raggiunto di cui essere orgogliosi. E poi tavolate dei giorni di festa oppure picnic all'aperto, neonati incuffiettati dentro carrozzine ingombranti, scene di vita rurale e scorci cittadini privi di traffico, scolaresche con grembiulini e grandi fiocchi, e poi matrimoni, comunioni, cresime, teneri fidanzati e orgogliosi genitori che mostrano la prole.
Le didascalie sono piene di nostalgia: "quando non c'erano tutti i problemi di oggigiorno e ci si divertiva con poco", "la felicità e l'ingenuità della gioventù di quegl'anni", "quando sognavo ad occhi aperti tenendo la mia chitarra in mano", "cosa non abbiamo fatto con quella cinquecento", e così via.
Insomma molto molto carina questa galleria di cui faranno a maggio una mostra e successivamente una pubblicazione. In alto la foto dell'estate 1963 con la quale ho partecipato.

domenica 18 marzo 2012

Genova per me

Penso che l'importanza e la misura di una giornata come quella di ieri si colga meglio restando a casa e guardandosi i servizi dei telegiornali o leggendo gli articoli sulla stampa. Parteciparvi è certo un importante atto di testimonianza ma la prospettiva è inevitabilmente parziale, la stanchezza della levataccia, il vento freddo del Porto Antico, il male ai piedi e alla schiena non fanno apprezzare pienamente l'evento.
Rimane impressa nella mente la bella e colorata massa di giovani (gran parte scout) anche se a Napoli tre anni fa mi pareva che ci fossero molte più scuole e a Milano due anni orsono mi sembrava che ci fossero molte più persone.
Sono rimasta invece colpita da Genova che avevo visto frettolosamente recandomi a visitare l'acquario e che avevo catalogato come brutta, devastata dal cemento e con un centro storico irrimediabilmente degradato. Invece la visita guidata a cui abbiamo partecipato nel pomeriggio attraverso i vicoli del quartiere della Maddalena (chissà se c'è un qualche collegamento tra la Santa e le "passeggiatrici" che lo abitano) mi ha fatto scoprire un'altra Genova, nascosta sotto la scorza dei vicoli fatiscenti e desolati. Una Genova antica, medievale, fatta di palazzi prestigiosi e bei portali in marmo che rivelano una ricchezza che fu. Sorprendente uscire dai carrugi su via Garibaldi (l'ex "Strada Nuova") dove si possono ammirare i sontuosi palazzi costruiti dalle straricche famiglie genovesi nel Cinquecento, e che fanno parte del sistema dei "Rolli", patrimonio dell'Unesco.
Mentre la guida ci spiegava che al posto della anonima piazza Caricamento e dell'orribile sopraelevata, vi era il mare ove si affacciavano direttamente i portici dei palazzi, mi si è concretizzata nella mente quella città magnifica che era detta "la Superba" e che ho visto raffigurata anche nelle vedute esposte alla mostra "La bella Italia". Una città che vive ancora sotto il cemento e l'incuria. Chissà se si riuscirà a farla riemergere in qualche modo.
L'annuale Giornata della Memoria e dell'Impegno per ricordate le vittime innocenti di tutte le mafie serve a non dimenticare queste persone (i cui nomi, a forza di approfondire questi temi, mi sono sempre più "familiari") ma anche a trovare stimolo per impegnarsi di più per la legalità, impegno che, per quanto mi riguarda, spero si possa concretizzare ora che ho conosciuto i ragazzi che stanno mettendo su un presidio di Libera a Firenze.

Qui alcune immagini della giornata.

sabato 17 marzo 2012

Oggi sono a Genova

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«Nel primo anniversario della strage di Capaci, mi si avvicinò una donna, in lacrime. Mi chiese perché il nome di suo figlio non veniva mai ricordato. Suo figlio era Antonio Montinaro, caposcorta di Giovanni Falcone, anch’egli morto il 23 maggio 1992. In quel momento ho capito, abbiamo capito perché ero con altri amici ed è sempre il noi che vince, che avremmo dovuto fare qualcosa di concreto per ricordare questi avvenimenti e che avremmo dovuto trasformare questa memoria in impegno.
Non si tratta di un corteo, di una manifestazione o di un evento: è l’abbraccio che cittadini responsabili che hanno deciso da che parte stare e che provengono da tutta Italia, daranno ai famigliari delle vittime delle mafie, presenti con una delegazione di oltre 500 persone»

(Don Luigi Ciotti, estratto da un articolo dell'ultimo numero di Narcomafie)

venerdì 16 marzo 2012

Che mi metto stasera?

Attraversando le belle sale damascate della Meridiana di Palazzo Pitti, abbiamo fatto, condotti dalla brava Dr.ssa Daniela Matteini, un viaggio nella moda dal '500 al '900, dalla braghetta che custodiva i genitali del Granduca Cosimo I agli straordinari modelli degli stilisti contemporanei: Ferré, Pucci, Cavalli, ecc.
Alla Galleria del Costume gli abiti ruotano ogni due anni perché sono talmente delicati e preziosi che temono la luce e la polvere.
Salvo qualche eccezione, la collezione si incentra soprattutto sulla moda femminile e ci fa capire come essa si sia trasformata seguendo la condizione della donna nei secoli.
Le nobildonne del Settecento conducevano una nonvita. Costrette sin da bambine nel loro rigido busto, impedite nei movimenti da gonne gonfiate dal panier, con maniche strette e scarpette con tacco alto, si potevano sbizzarrire solo nelle decorazioni degli abiti talmente preziosi da non poter essere lavati (con immaginabili conseguenze olfattive e non solo).
Relativamente più libera la donna di epoca Neoclassica che vestiva abiti chiari e retti tanto da farla assomigliare ad una statua greca (o addirittura ad una colonna greca con tanto di capitello). Peccato che la moda le imponesse lo stesso abito leggero di cotone, con maniche corte e spalle nude anche di inverno (e conseguente epidemia di polmonite).
Ritorna costretta nel busto la signora della Restaurazione e vi rimane, tra crinoline e sellino posteriore, fino all'affermarsi della donna androgina ed emancipata degli anni Venti del Novecento: magra, seno piatto, capelli corti, abito corto e aderente, fumatrice.
Oltre ad ammirare degli abiti stupendi (detto da una notoriamente poco sensibile alla moda), ho imparato varie cose interessanti. Tipo che l'abito da sposa bianco si affermò solo dopo il matrimonio della Regina Vittoria del 1840. Tipo che l'alta moda nasce nel 1887 con il sarto inglese Charles Worth che per primo impose i modelli alle clienti presso il proprio atelier invece che recarsi presso le loro abitazioni ad eseguire semplicemente i loro dettami. Tipo che il tailleur femminile fu inventato nel 1885 dal sarto inglese John Redfern. Tipo che il bellissimo abito raffigurato nel famoso ritratto di Eleonora di Toledo, opera le Bronzino, probabilmente non è mai esistito. Pare infatti che non ce ne sia traccia nei registri del Guardaroba mediceo dove venivano annotati scrupolosamente tutti i movimenti di tutti gli oggetti, anche minimi, che entravano e uscivano da palazzo. L'abito bianco con broccati d'oro è comunque un'invenzione "verosimile" in quanto presenta il taglio tipico in uso all'epoca con la decorazione più bella che le botteghe fiorentine potessero realizzare.
Suscita invece una gran malinconia vedere i capi che hanno accompagnato la bella Eleonora nel suo ultimo viaggio verso la tomba a soli quarantatre anni.

martedì 13 marzo 2012

Angeli o sbirri?


L'espressione "forze dell'ordine" mi suscita sentimenti contrastanti. Da un lato dà mi un senso di protezione, di qualcuno a cui appellarsi se mi sentissi in pericolo. Mi ricordo che quando ero piccola mia madre mi diceva: "Se ti dovessi perdere, rivolgiti a qualcuno in divisa per chiedere aiuto." Dall'altro lato le forze dell'ordine sono da sempre il tipico strumento di repressione del dissenso da parte del potere costituito. E come non pensare allora, per esempio, agli abusi di Genova nel 2001?
Riflettendoci in modo meno emotivo e più razionale, bisogna considerare che il panorama delle forze dell'ordine è molto vasto e variegato come dimostra la serie di puntate del programma "Sirene" che va in onda in seconda serata (in genere di giovedì) su RAI3.
Nonostante che Margherita Granbassi in studio non mi ispiri grande simpatia, devo ammettere che mi sono talmente appassionata per i servizi di Sirene che ho cominciato a coltivare in segreto il sogno di lavorare nella Guardia di Finanza o nel Gruppo Operativo Antidroga, di fare indagini, pedinamenti, appostamenti, ecc.
Tra i servizi che mi sono piaciuti di più c'è infatti quello ambientato nel porto di Gioia Tauro, dove transitano tre milioni di container l'anno nei quali spesso vi sono nascoste le partite di droga. Nonostante ciò è stato mostrato come un grande successo il primo caso di arresto di un corriere colto in flagrante. Bello anche quello sulla lotta allo spaccio nel quartiere di Scampia, dove i pusher istallano alle entrate dei palazzi delle porte di ferro chiudibili dall'interno per poter fare tranquillamente i loro commerci e i loro affari ("e sono pure bravi in matematica", dice un poliziotto indicando la scritta sul muro "150x2=250").
Emozionante anche il salvataggio ad opera della Guardia Costiera dei migranti alla deriva stipati su un barcone a largo di Lampedusa, alcuni dei quali, in pericolo di vita, trasportati all'ospedale con l'elicottero.
Commovente invece la testimonianza dei Vigili del Fuoco intervenuti sul luogo della strage di Viareggio del 2009: essi descrivono l'orrore di ciò che hanno visto e l'emozione di trovare un bambino vivo tra le macerie di una casa.
Probabilmente molti servizi sono ricostruzioni, magari la trasmissione è un po' uno spot delle divise, mentre sappiamo che in alcuni settori ci sono abusi assolutamente condannabili. Tuttavia credo che sia importante che ci si renda conto di quanto lavoro ci sia dietro alle attività di gestione dell'emergenza e del contrasto del crimine che troppo spesso tendiamo a dare per scontato.
Intanto, continuando ad interrogarmi su questa mia strana passione per le forze dell'ordine, mi accorgo che, sulla strada che da casa mia porta in centro, di tanti bar che ci sono, mi fermo sempre a prendere il caffè in un piccolo locale che espone con orgoglio un attestato di fedeltà della vicina stazione dei Carabinieri. Ovviamente il bar in questione rilascia sempre lo scontrino fiscale.

sabato 10 marzo 2012

Città che si trasformano e l'attesa proibita

Consumo di suolo, edificazione sclerotica, abbandono dei centri storici che vengono "imbalsamati" diventando una sorta di museo a cielo aperto, cannibalizzazione del paesaggio rurale, cementificazione: sono ormai temi di cui si parla tanto (anche se in realtà non mi pare di scorgere nessuna inversione di tendenza) e che ho affrontato tante volte anch'io su questo blog che quasi quasi mi sono anche un po' venuti a noia.
Ci sono però un paio di particolari extra che hanno attirato la mia attenzione ascoltando questa puntata di Fahrenheit Radio3: la scomparsa dei marciapiedi, delle sale d'aspetto nelle grandi stazioni e in genere di quegli spazi del non far niente.
L'allarme sulla scomparsa dei marciapiedi lo lancia la poetessa Jacqueline Risset su Repubblica riguardo alla proposta (pare rientrata) di toglierli da Piazza Navona. Pensando a Piazza Signoria direi che, se la piazza rimane pedonale, dei marciapiedi si può tranquillamente fare a meno.
Invece della scomparsa delle sale d'attesa, constatata personalmente a Firenze Santa Maria Novella in una giornata di vento gelido un paio di settimane orsono, trattano vari articoli tra cui questo del Corriere.
Gli ospiti di Fahrenheit, architetti e urbanisti, denunciano la trasformazione delle città in spazi sempre più pensati solo per consumare. In effetti anche le stazioni si sono trasformate ormai in centri commerciali ed è per questo (ammesso candidamente dall'ad di Grandi Stazioni) l'intento è quello di non tener ferma la gente, seduta a non far niente, magari leggendo o dormicchiando. Il viaggiatore deve camminare e guardare i negozi. E che dire poi dell'unica sala rimasta, confortevolissima e dotata di wifi ma riservata solo ai possessori di carta FrecciaRossa? Insomma i soliti prilegiati al caldo (o al fresco d'estate) e gli altri fuori. E i pendolari? Si arrangino (anzi, se ne schiatta qualcuno, un problema in meno!)
Messa così la faccenda è davvero inquietante. "Stiamo frantumando la grammatica della città occidentale europea che è in essere da duemila anni" ha affermato apocalittico uno degli ospiti di Fahrenheit.
Personalmente sono combattuta tra l'indignarmi nel constatare che al solito tutto è ricondotto al commercio e al denaro e il sospetto, d'altro canto, di avere semplicemente paura del cambiamento. In fin dei conti, a pensarci bene, le sale d'aspetto delle stazioni spesso finiscono per essere luoghi degradati e sporchi dove può succedere di tutto (provate a fare una ricerca per immagini di "sale d'attesa stazione" e vedete cosa non viene fuori). Fermo restando quindi che non ci penso nemmeno a camminare in su e giù per vedere i negozi, forse gruppi di panchine in zone di transito davanti ai tabelloni come negli aeroporti non è una cattiva idea. Gelo siberiano permettendo.

giovedì 8 marzo 2012

Donne che dicono no

Sarà che ormai la Calabria ce l'ho nel cuore. Sarà che a Rosarno ci sono stata e ho rabbrividito. Sarà che proprio in questi giorni ho finito di leggere il libro "Fratelli di sangue" che mi ha dato la misura precisa della potenza e della pervasività della 'ndrangheta. Sarà che seguo con trepidazione il processo per la morte di Lea Garofalo perché ho preso a cuore la storia della sua giovane e coraggiosa figlia Denise. Sarà che mi sforzo di immaginare quanto deve essere difficile ribellarsi all'ambiente in cui si nasce specialmente quando questo vuol dire pagare con la propria vita.
Sarà per tutto questo e altro, trovo ottima iniziativa quella del Quotidiano della Calabria di dedicare l'otto marzo a Lea Garofalo, Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola.
Tutte e tre, familiari di mafiosi, sono state collaboratrici di giustizia. Lea Garofalo, originaria del Crotonese, è stata uccisa e sciolta nell'acido in Brianza. Maria Concetta Cacciola è stata costretta al suicidio dai familiari. Giuseppina Pesce, sua parente, è scampata per un soffio alla medesima sorte e vive sotto protezione.

lunedì 5 marzo 2012

La domenica esplorando, tra orti sociali, campi rom e vedute metropolitane

Domenica mattina. Tempo mite anche se non bellissimo. Voglia di stare all'aperto. Troppo complicato però organizzare escursioni vere e proprie e poi è l'unico giorno in cui si può recuperare un po' di sonno. Allora io e la mia dolce metà infiliamo la porta di casa e ci incamminiamo in un giro esplorativo di 2-3 ore (una quindicina di chilometri circa). Non si può proprio chiamare "passeggiata", visto manteniamo una velocità media di oltre 6 km/h, ma neanche trekking (termine che non mi piace per nulla). Giusto per prendere un po' di allenamento. Macchina fotografica in tasca io, GPS lui.
Attraversiamo l'Arno sul quale si sono formate insolite barene probabilmente dovute alla siccità (ma com'è che non piove più!).


Poi passiamo vicino agli orti sociali del quartiere 4. La trovo un'ottima iniziativa: un utilizzo intelligente di uno spazio che diventerebbe facilmente una discarica di rifiuti, un'attività che fa bene agli anziani che se ne occupano, li fa sentire utili e li fa stare all'aria aperta anziché davanti alla TV.


Passiamo quindi accanto al campo Rom del Poderaccio. Solitamente evito di pronunciarmi sulla comunità Rom perché non mi piace giudicare un qualcosa che non conosco da vicino e perché non voglio cadere nel facile pregiudizio da un lato o nel buonismo pietista dall'altro. Mi limito ad osservare che tutto intorno al campo, fatto di casette di legno che da lontano appaiono abbastanza dignitose, vi sia una cintura fatta da masse di rifiuti di ogni genere mentre i cassonetti sono semivuoti. Mi chiedo come mai non dà loro noia questo contorno degradato e perché non raccoglierli differenziandoli accuratamente e magari ricavandone qualche soldo dalla vendita.


Continuamo a camminare attraversando la Greve e notiamo un'inquietante scarico bianco che vi si getta a pochi metri dalla confluenza con l'Arno. Siamo proprio sicuri che non sia una sostanza tossica o per lo meno inquinante a livello di ecosistema? Quasi quasi scrivo a Publiacqua.


Riattraversiamo l'Arno passando sotto il Ponte all'Indiano con viste da periferia metropolitana postmoderna. Ancora qualche chilometro e siamo a casa. Non abbiamo visto panorami mozzafiato o paesaggi bucolici, però non abbiamo aumentato di un grammo la CO2 mentre, forse, qualche caloria l'abbiamo bruciata.

sabato 3 marzo 2012

Primavera con nostalgia

Stamani sono uscita in giardino e ho scorto "il segnale" dell'arrivo della primavera: le piccole violette che da un po' di anni imperversano nel minuscolo trasandato fazzoletto di terra. Ho pensato di fotografarle e pubblicarle qui come sintomo del risveglio alla vita.


Poi mi è venuto in mente di aver fatto la stessa identica cosa (non certo originale) diversi anni fa' e così sono andata a ripescare quel post del 2008. Il trionfo di violette era di tutt'altro rigoglio (ed eravamo anche un mese prima sul calendario) ma più che altro mi è caduto lo sguardo sui commenti al post (19). La nostalgia non è tanto per il fatto di ricevere commenti o meno. Ciò mi interessa relativamente. Penso alle persone che lasciavano una traccia di sé e con le quali avevo fatto conoscenza. Tranne i fedeli Spunto, Giulia e Julo, con i quali sono tuttora in contatto, di quante persone non so più niente! Marcouk76, Rino, Dama Verde, Fabioletterario, Frida, Lorenzo, Pandoro, Dona, Liber! Poi c'è la mia sorella che "non ha tempo per stare in internet" e poi ci sono Anna e Marina di cui conosco le tragiche vicende che le tengono lontane da questo spazio virtuale. Continuo a dirmi che è normale che sia così: ci si incontra, ci si conosce, si condivide e ci si saluta. Esattamente come succede nella vita. E' così. Tuttavia non posso fare a meno di sentire un pizzico di nostalgia e torno a mirare le spelacchiate violette della primavera 2012.