lunedì 28 novembre 2011

La bella Italia

Oltre 360 capolavori distribuiti tra il Museo degli Argenti, la Galleria Palatina, la Galleria d’Arte Moderna e la Galleria del Costume: da Giotto a Michelangelo, da Rubens a Bronzino, da Canova a Velazquez, da Beato Angelico a Parmigianino. Dopo due ore e un quarto di visita con gli Amici dei Musei alla mostra "La Bella Italia, arte e identità delle città capitali", rincorrendo per le sale di Palazzo Pitti una entusiasta ma ansimante Diletta Corsini, francamente mi sento di dare ragione a Tommaso Montanri che stronca la mostra nel suo articolo "Ma che Bananitalia! In mostra a Palazzo Pitti i 150 dell'Italia unita".
Sul valore delle opere esposte non si discute, ma è proprio l'operazione in sé che desta perplessità. E' vero che sembra un'antologia, è vero che ci sono pochissime spiegazioni, è vero che molte opere sono sacrificate in spazi angusti oppure offuscano alcune sale grandiose del palazzo.
Per fortuna, nonostante tutto, la passione e la bravura della dr.ssa Corsini mi hanno dato alcuni spunti interessanti. Tanto per cominciare, la mostra è pensata come un Gran Tour, cioè un viaggio di istruzione che i giovani di buona famiglia europei facevano in Italia per arricchire la loro cultura e completare la loro formazione (per esempio, a Torino si imparavano le arti militari). Una sorta di Erasmus antelitteram che durava circa tre anni e che introduceva il rampollo presso le varie corti italiane.
Inoltre mi è piaciuto riflettere, grazie alle vedute esposte, su quanto sono cambiate le città italiane rispetto ad un paio di secoli fa: una Roma tranquilla, bucolica, quasi provinciale senza i palazzoni ministeriali di fine Ottocento e senza i retorici edifici del Ventennio fascista, e una sorprendente Genova, "una città piena di rose e di luce", la più ricca d'Italia (la Superba), la seconda più ricca d'Europa dopo Anversa, adagiata nel suo golfo, con uno splendido mare davanti, con le ville incastonate come diamanti nelle verdi colline, lontana dalla città inquinata e devastata dall'edilizia del dopoguerra.
Pare che l'espressione "la bella Italia" fosse stata di uno Stendhal diciassettenne che aveva appena varcato le Alpi, sconvolto non solo dalla bellezza delle opere d'arte famose, alle quali era preparato, ma anche dall'incredibile variegata sfaccettatura del nostro paese, dalla "iridescente pluralità della nostra cultura", per usare le parole di Antonio Paolucci. Uno stupore che ho ritrovato negli occhi di mio figlio quando a Roma, qualche giorno or sono, ha visto dal vivo le chiese, i dipinti, i palazzi e gli scenari che aveva appena studiato a scuola.

sabato 26 novembre 2011

Politicamente scorretto


Mi piacerebbe davvero andarci. Non è neanche tanto lontano da casa mia. Purtroppo sono affogata di cose da fare. Per fortuna forse potrò seguire qualcosa su web.

mercoledì 23 novembre 2011

Ho letto il mio primo ebook

A mio avviso, come ho già avuto occasione di scrivere, i libri in circolazione sono troppi e pochissimi meritano di essere posseduti e conservati. Quante volte ho avuto curiosità ed aspettative per un libro che poi mi ha deluso! Una volta comprato e letto me lo trovo tra i piedi, occupa lo scarso posto sugli scaffali di casa mia, va spolverato, ecc.
Così, visto che persino i miei suoceri si sono convertiti alla lettura degli ebook e dopo aver scoperto con sorpresa che mio marito possiede diversi tablet, mi sono decisa a leggere un ebook: "La vita accanto" di Mariapia Veladiano, sul quale avevo sentito un'intervista da Augias.
Il romanzo mi è piaciuto assai poco ma l'esperimento è stato positivo. Dopo un primo attimo di smarrimento (oddio, come faccio a sapere a che pagina sono e quanto manca alla fine?), non trovo assolutamente nessuna differenza con il libro su carta, anzi, ci sono casomai dei vantaggi.
E così ora sono contenta di essermi tolta la curiosità che avevo spendendo meno e senza ritrovarmi a giro il romanzo della Veladiano.
In una puntata di Fahrenheit che ascoltavo in questi giorni si affermava che il boom degli ebook, atteso da diversi anni, in realtà continua a non verificarsi in quanto siamo ancora allo zerovirgolaqualcosa di vendite rispetto ai libri su carta. Io non credo affatto che ciò sia dovuto al bisogno di sentire il fruscio delle pagine o il profumo della carta, quanto al costo degli apparecchi, alla possibilità o meno di accedere rete, di saperli scaricare e passare sul tablet. Infatti senza l'esperto di casa, non credo che avrei mai vinto la pigrizia di imparare.

domenica 20 novembre 2011

Come in un quadro di Bosch


Roma, Stazione Termini, 18 novembre 2011, ore 18

Mentre attendo qualche minuto davanti al tabellone luminoso sul quale comparirà il binario assegnato al mio treno, mi sento tramortita dalla folla turbinosa che si agita come in un vortice nel frastuono indististinto. Molti camminano con il telefono all'orecchio in un colloquio infinito, come se non bastassero le voci presenti. Una ragazza, visibilmente adirata, grida tutta la sua rabbia contro qualcuno dall'altra parte dell'apparecchio che non si deve essere presentato ad un qualche appuntamento. Un giovane parla invece a voce alta con l'auricolare trascinando di corsa il suo trolley; anni or sono l'avrebbero preso per pazzo ma la tecnologia ci ha reso familiari queste scene. Annunciano il binario di un regionale in ritardo ed istantaneamente, come se avessero dato il segnale di via ad una maratona, una folla si muove risoluta verso la mia direzione tanto che a stento riesco a stare in piedi. Un homeless raccoglie una cicca ancora accesa da terra per darle l'ultima tirata. Poi, con la sua bocca priva di denti, mi chiede qualcosa ma io non capisco cosa dice. Un altro, dalla pelle più scura, dopo aver pietito uno spicciolo da tutti gli astanti, rovista negli sportellini dei resti dei distributori di bibite.
Sarà che ho dormito pochissimo la notte passata, sarà che una fastidiosa nevralgia mi fa martellare un dolore acuto alla nuca, ma a me pare di essere in un incubo.
Due giovani che si baciano teneramente accanto ad un Eurostar in partenza mi sembrano l'unica cosa umana di tutto questo quadro di Bosch.

mercoledì 16 novembre 2011

Che colpa abbiamo noi?



Così cantavano i Rokes nel 1966, canzone che è stata citata, tra altri testi, durante un'interessante lezione tenuta domenica scorsa presso la sede del Consiglio Regionale della Toscana dallo storico Marco De Niccolò e dalla sociologa Chiara Saraceno dal titolo "Giovani e No: Generazioni alla prova".
Il professor De Niccolò ha fatto un bell'escursus sulla partecipazione o meno dei giovani ai processi storici partendo dalla Rivoluzione Francese fino ai giorni nostri. Il Risorgimento come è noto ha visto molti protagonisti giovani ma essi vi parteciparono non in opposizione bensì in armonia con i patrioti più anziani con i quali condividevano gli stessi ideali. Nelle prime due decadi del Novecento invece i giovani si sono visti prima attratti dalla guerra e poi, delusi da essa, trasferirono la violenza della trincea in quella squadrista tanto che con il fascismo abbiamo avuto il governo più giovane che ci sia mai stato in Italia (a dimostrazione, ha detto De Niccolò, che non sempre "giovane" è sinonimo di "migliore"). Mentre nella Resistenza si ebbero di nuovo giovani e meno giovani combattere insieme, la ricostruzione ha visto al potere la generazione più anziana.
Il vero movimento di ribellione generazionale è stato, come è noto, quello del Sessantotto che ha provocato un bello smottamento in tutti i campi e in molti paesi del globo. Negli anni Settanta abbiamo assistito ad una deriva che ha portato i giovani a scomparire dalla scena pubblica a partire dagli anni Ottanta fino ad oggi, periodo nel quale si sente la necessità di un contributo giovanile che però dovrebbe essere "autonomo e originale", secondo il parere di Marco De Niccolò.
La professoressa Chiara Saraceno ha sottolineato alcuni aspetti importanti della condizione giovanile di oggi: il fatto che, con l'allungamento della speranza di vita, essa si protrae (anche psicologicamente) fino alla soglia dei quarant'anni, il fatto che il riaffiorare o meno dei giovani come protagonisti nella storia abbia riguardato quasi esclusivamente i maschi e soprattutto il fatto che oggi la difficoltà per i giovani nel farsi strada è dovuta soprattutto alla loro scarsa consistenza numerica in confronto alla generazione dei loro genitori.
In effetti a rifletterci bene, è vero che la mia generazione (quella dei babyboomer, dei nati dal Dopoguerra agli anni Sessanta) che oggi detiene i posti di comando non facilita l'inserimento dei giovani, non li accoglie, ma è anche vero che siamo tanti e che dobbiamo lavorare più a lungo per mantenere l'esercito sempre più numeroso e longevo di anziani. E' un problema anche demografico.
La sociologa ha inoltre sottolineato come i ragazzi di oggi non stiano poi tanto peggio dei loro padri quando avevano la loro età: sono generalmente più istruiti, più attrezzati, godono di un benessere familiare che i loro genitori non avevano, hanno più libertà e più possibiltà. Manca tuttavia loro la prospettiva futura, la sicurezza di poter trovare un lavoro degnamente restribuito, di farsi una famiglia o comprarsi una casa. Non stanno troppo male perchè il welfare familiare ancora resiste e sostiene ma, proprio perchè il benessere si basa troppo sulla famiglia di origine, le disuguaglianze sociali e tra Nord e Sud del paese si accentuano. Un ragazzo nato in una famiglia di ceto e istruzione medio-alta del Nord ha molti più strumenti di chi nasce da genitori con bassa scolarizzazione nel Sud. Il discorso si fa ancora più pesante per le ragazze perchè oggi, spiega Chiara Saraceno, il carico di lavoro complessivo delle giovani è anche più pesante di quello delle loro madri.
Mentre seguo, insieme a mio marito, la lezione, ricevo una telefonata dal bamboccione di casa mia che ci rimprovera di "essere usciti senza averlo avvertito" e così il "poverino" si trova fuori casa non avendo pensato di portarsi con sé le chiavi. Ma che colpa abbiamo noi?

lunedì 14 novembre 2011

L'ANPI ci salverà?

Sabato, di ritorno dagli Stati generali dell'ANPI Toscana, ho avuto la conferma di quante persone come me ripongano in questa associazione storica aspettative che vanno oltre quella che è la sua funzione. Mi sono iscritta all'ANPI nel 2008 (su suggerimento di Luposelvatico che ringrazio ancora una volta) spinta dal bisogno di far parte di qualcosa in cui riconoscermi, un punto fermo nel marasma di certezze che vengono meno, di valori messi in discussione ogni giorno. Successivamente ho cercato anche di prendere parte attiva alle iniziative di questa associazione, ma, a parte le manifestazioni ufficiali e le ricorrenze importanti al fine di non dimenticare, ho percepito un certo "vuoto organizzativo".
Così sono andata a questo convegno immaginando che avrei assistito ai soliti interventi rievocativi dei giorni eroici della lotta di liberazione, pronta a commuovermi per la nostalgia ma comunque con la sensazione di un qualcosa di chiuso nel suo passato. Invece mi sono dovuta ricredere. Innanzitutto il format era quanto mai attualmente renziano: cinque minuti a disposizione di chiunque chiedesse di parlare, con un presidente severissimo a far rispettare i tempi incurante del fatto che stesse parlando un presidente di un'importante sezione o l'ultima iscritta ventenne. Inoltre un posto dove ci si chiama "compagni" senza tante fisime, con persone che, con idee anche diverse, di politica si sono sempre occupate e appassionate. Alcuni interventi mi hanno fatto una gran tenerezza: l'anziano compagno di Massa che si è scusato per il suo italiano perché abituato a parlare in dialetto, la partigiana di Lucca che ha vinto la fatica di salire sul palco e di parlare, il mio mitico Pillo che ha finito per strapparmi la lacrimuccia.
I temi più gettonati sono stati l'ansia per il cosiddetto "governo tecnico" che ci ritroveremo a breve e sul quale in molti hanno espresso forti critiche e grandi contrarietà, l'apertura verso i giovani e soprattutto la richiesta di collegarsi al movimento degli indignati, ed altre richieste ancora più ambiziose tipo "opporsi al liberismo", portare avanti una proposta di legge per ripristinare il sistema elettorale proporzionale, porre attenzione ai migranti e alla pace. Insomma l'ANPI come panacea di tutti i mali, come ancora di salvezza.
Per fortuna, l'intervento conclusivo del nuovo presidente nazionale, Carlo Smuraglia, ha riportato tutti alla ragionevolezza: sì giudicare i provvedimenti del governo che verrà perché siano improntati all'equità, no allo schierarsi contro o a favore di una certa soluzione politica; sì a rapportarsi con i giovani, no ad interlocutori privilegiati (Smuraglia ha avuto parole dure verso i cosiddetti "antifascisti militanti"); non prestarsi all'antipolitica (che egli vede trapelare anche dal movimento degli indignati) perché "senza politica non c'è democrazia"; no ai privilegi e agli abusi, ma ribadire l'importanza dei partiti così come sancito dalla Costituzione all'art. 49; aprire ai giovani ma formarli adeguatamente. Il presidente nazionale è un po' infastidito dall'espressione del "passare il testimone" perché secondo lui "siamo ancora in tempo a correre insieme".

sabato 12 novembre 2011

L'uomo non può sopportare una vita priva di senso

La psicologia analitica di Carl Gustav Jung mi è sempre rimasta un po' oscura. Mentre della psicanalisi freudiana ho letto qualche libro che mi ha appassionato soprattutto in gioventù, il pensiero di Jung l'ho trovato sempre un po' fumoso, poco scientifico e più sconfinante nella filosofia. In una conferenza sull'argomento di Luigi Zoja al Festival della Mente ho sentito citare una famosa intervista rilasciata dall'anziano psicologo a John Freedman nel 1959 e pubblicata in quattro parti su YouTube. A me è piaciuta molto perché rivela una personalità molto umana e anche ironica.



Cresciuto in campagna, il padre pastore, tollerante e democratico, la madre amata di giorno ma "temuta di notte", Jung racconta nell'intervista come è maturata la sua scelta degli studi. Gli piaceva l'archeologia ma ci volevano molti soldi e la sua famiglia era povera. Così optò per la medicina, che pure non lo entusiasmava, perché ci intravedeva più possibilità e perché almeno gli avrebbe permesso di studiare scienze naturali che era la sua seconda passione. Il giovane Jung aveva un fisico piuttosto possente ed un carattere abbastanza irascibile, tanto che doveva stare attento a non perdere il controllo e farsi trascinare in risse.
Dopo la laurea, la rivelazione per la psichiatria che allora, dice Jung, era considerata "nothing at all". "Ma io ci avevo visto la possibilità di conciliare certe contraddizioni che erano in me. Il cuore mi batteva forte. Era come se ad un tratto due correnti si congiungessero."
Si passa all'incontro con Freud, all'ammirazione per lui anche se: "Mi accorsi presto che quando pensava una cosa per lui era conclusiva, mentre io ero sempre pieno di dubbi su tutto."
I due grandi si analizzavano a vicenda raccontandosi reciprocamente i propri sogni. Tuttavia Jung non condivideva alcune idee di Freud in particolare il suo approccio personale e la sua noncuranza per le condizioni storiche dell'uomo. "Noi dipendiamo largamente dalla storia."
Di qui sviluppò gli studi per lo strato impersonale della nostra psiche, che chiamò "inconscio collettivo".
Riguardo alla sua teoria dei tipi psicologici, Jung afferma che però essi non sono statici (cioè non sono etichette) ma cambiano durante il corso della vita e alla domanda di Freedman su quale sia il suo tipo, egli si definisce un pensatore dotato di grande intuito ma con qualche difficoltà con i sentimenti e qualche sfasatura nel suo rapporto con la realtà.
Siamo nel 1959 e il tema all'ordine del giorno è la guerra fredda e la paura per una terza guerra mondiale. Su questo Jung dice di non saper fare previsioni precise anche se "E' imminente un grande cambiamento del nostro atteggiamento psicologico. Abbiamo bisogno di capire meglio la natura umana perché l'unico vero pericolo esistente è l'uomo stesso. Non sappiamo niente dell'uomo, o troppo poco. Dovremmo studiare la psiche umana perché siamo noi l'origine di tutto il male a venire."
Uno degli aspetti che mi convincono meno del pensiero di Jung è quando attribuisce alla psiche facoltà particolari, per cui non è del tutto confinata entro lo spazio e il tempo. Non capisco come possa dimostrare in modo scientifico queste pur affascinanti intuizioni.
Riguardo al significato più profondo della vita invece mi sono piaciute molto le sue parole:
"Dobbiamo considerare la morte come una meta e negarlo elude la vita e la priva di scopo. Ma la persona anziana deve continuare a vivere e guardare con attesa il giorno dopo come se avesse secoli davanti a sé. Tutti noi sappiamo che moriremo ma il nostro inconscio a quanto pare non ci crede. L'uomo non può sopportare una vita priva di senso."

mercoledì 9 novembre 2011

Far la spesa a scuola

Ci passo davanti in bicicletta da anni recandomi in palestra, ma non avevo mai fatto caso al cartello un po' artigianale che recita "vendita diretta". O forse l'avevo anche notato ma subito archiviato nella mia mente pensando che si riferisse a piante. Invece in occasione della fiera agricola di questo autunno ho sentito dei ragazzi dell'età dei miei figli che pubblicizzavano la cosa: "Siamo studenti dell'Istituto Tecnico Agrario. Venite a comprare i nostri prodotti. Abbiamo olio, vino e ortaggi."
Già, perché non provare? Così, in alternativa o in aggiunta al mercatino di campagna amica del venerdì, il sabato mattina facciamo un salto all'I.T.AGR. (storico istituto, erede della Regia scuola di Pomologia e Giardinaggio). Bisogna andarci presto perché i prodotti freschi sono pochi e finiscono subito. Però sono buoni e convenienti: in questo periodo porri, cavoli, rape, cachi. Il vino, venduto in confezioni da 5 e 10 litri con il rubinettino da cui spillarlo, non è male. Talvolta si riesce anche a trovare le uova fresche mentre con l'olio dell'anno scorso hanno fatto delle ottime saponette aromatizzate alla lavanda.
Un modo per comprare prodotti locali e contribuire alle entrate di una scuola pubblica. Perché non ci ho pensato prima?

lunedì 7 novembre 2011

Sììììì, se ne va!!!!

Ore 20, grido di esultanza dal piano di sopra:


"Sììììì, se ne va!!! Ce ne siamo liberati!!!"

Io e mio marito corriamo speranzosi davanti allo schermo del PC di mio figlio...
                                      ...quindi la delusione.


sabato 5 novembre 2011

Tra l'ansia e la rabbia

Questa estate, mentre imperversavano le discussioni sulla manovra economica, ho letto un opuscolo di Altreconomia dal titolo Paradisi perduti. Mi aveva colpito (e mi riproponevo di parlarne sul blog) perché, con estrema chiarezza, esso mette in evidenza l'enorme ricchezza che viene sottratta all'economia produttiva dai flussi illeciti di capitali, dall'evasione e dalla elusione grazie ai paradisi fiscali. Si parla di centinaia di miliardi di dollari di mancate entrate per tutti i paesi, sia quelli più ricchi sia (e soprattutto) per quelli più poveri. Nell'opuscolo sono spiegati, in modo semplice, i meccanismi del tutto legali che consentono l'elusione fiscale, quanto sia facile aprire una società offshore ed evitare di pagare un bel po' di tasse con espedienti come il tranfer pricing (cioè la vendita virtuale tra filiali della stessa corporation in modo che il guadagno risulti realizzato nel paradiso fiscale). "Ai voglia a far manovre e sacrifici!" ho pensato con rammarico.
Mentre continuavo a non trovare il tempo per scrivere su questo tema un po' ostico, la crisi è andata avanti e i temi economici sono talmente all'ordine del giorno che ormai tutti noi parliamo di spread e di debito pubblico. Così alla sensazione di impotenza che mi è rimasta dopo la lettura dell'opuscoletto, si è sommata la paura di non uscirne. Questo debito pubblico che aumenta di giorno in giorno ("non siamo ancora ai livelli della Grecia ma quasi, quindi tra poco tocca a noi"), questo mantra dei sacrifici da fare, questa sensazione di pericolo immaginando gli speculatori che con un click possono gettarci tutti sul lastrico, mi mette proprio ansia e mi fa vivere il benessere quotidiano come una sorta di vigilia della catastrofe.
All'ansia si è aggiunta la rabbia dopo aver visto la puntata di Report di domenica scorsa in quanto da ciò che ho appreso ho cominciato a vedere le cose sotto un'altra luce. Le riassumo un po' grossolanamente anche se il tema è complesso:
1) La ricchezza non è sparita, anzi, non ce n'è mai stata tanta, ha solo preso un'altra strada, quella della finanza, che non per niente è venti volte il PIL del mondo. Pare che un grande banchiere affermasse che "le crisi servono a far tornare le ricchezze ai legittimi proprietari". Dal dopoguerra agli anni Settanta la crescita economica ha portato un certo benessere diffuso ma poi il capitale ha cominciato a perdere profitti e si buttato sulla finanza.
2) Un broker intervistato ha dichiarato che il mondo finanziario pensa solo a se stesso e non dà alcun contributo alle imprese e che le scommesse della finanza (cioè non il semplice guadagnare sugli interessi per il capitale investito ma il poter vendere anche quello che ancora non si ha scommettendo sul suo ribasso) sono capaci di mettere in ginocchio il mondo.
3) Oggi più del 55% del nostro debito è in mano ad investitori stranieri che guadagnano appunto dalle scommesse sull'oscillazione del suo valore. Le banche di investimento possono quindi scommettere anche sul fallimento di uno stato. La politica di un paese allora risponde al mercato e non agli elettori, quindi non è più sovrana. La BCE si permette di dirci cosa fare ma essa non è un organo eletto ma al servizio delle banche private. Se lo permette perché gli stati nazionali europei, nella paura di cedere sovranità, si fanno mettere i piedi addosso; sono occupati a farsi concorrenza (come se il Texas cercasse di far le scarpe alla California) invece di mettere in piedi una politica economica e fiscale unitaria.
4) Non è sempre stato così. Dopo la crisi del 1929 fu sancita la Glass-Steagall Act che separava le banche tra istituti commerciali (banche tradizionali la cui attività è coperta dallo stato) e banche di investimento, dedite ad attività speculative. Negli anni Novanta, su pressione dei grandi banchieri e con la scusa che "il mercato penserà a regolare tutto", questa legge fu abolita. Le stesse banche che hanno causato la crisi del 2008-2009 e che sono state salvate con soldi pubblici, hanno ricominciato a speculare aggirando i paletti posti dopo il loro salvataggio.
5) Le famose agenzie di rating non sono arbitri indipendenti ma sono in collusione con i grandi interessi bancari, non c'è trasparenza su come danno i giudizi, quasi una situazione incestuosa. Gli Italiani devono quindi tirare la cinghia nei confronti delle dieci società che dominano il mercato finanziario.
Insomma poiché non si può pretendere che gli speculatori siano dei filantropi e vista la latitanza di un governo forte europeo (men che meno italiano), io la vedo buia. Sinceramente ho davvero paura del futuro.
Si riuscirà mai a mettere in riga i paradisi fiscali? Si riuscirà mai a far pagare la crisi a coloro che l'hanno causata? Si riuscirà mai a scoraggiare la speculazione finanziaria, anche solo non permettendo che si possa vendere titoli che non si possiedono? Si riuscirà mai a mettere (a livello mondiale altrimenti non serve) anche una piccola imposta sulle transazioni finanziarie come propone la campagna 0,05.it?
Intanto per non deprimermi del tutto, mi lascio andare alla commozione ascoltando Roberto Vecchioni (una mia vecchia passione di adolescente) sul palco di Piazza San Giovanni:


giovedì 3 novembre 2011

Quattro stracci lisi di millesettecento anni fa'

Forse nemmeno i Fiorentini sanno che nel Museo Archeologico di Firenze è conservata la più importante collezione egizia d'Italia dopo quella di Torino. Infatti non ci va mai nessuno tranne le scolaresche. Sabato scorso invece la brava Carlotta Ansaldi (della quale ricordo l'affascinante visita sui busti degli Imperatori Romani) ci ha guidato in un excursus sull'abbigliamento nell'Antico Egitto.
Forse a non molti interesserà sapere che è molto raro che siano arrivati fino a noi abiti e stoffe antiche a causa della loro difficile conservazione nei secoli e che, tranne per l'Antico Egitto e il Sudamerica, per capire come si vestivano nelle civiltà antiche, bisogna rifarsi esclusivamente alle raffigurazioni. Saranno state realistiche? Sì e no, ci ha spiegato l'archeologa. Sicuramente quello che rappresentavano era il meglio a cui tendevano ma non necessariamente il vero. Di qui sorge qualche dubbio sulla rappresentazione holliwoodiana dell'antica Roma. Per esempio, avete presente quegli elegantissimi vestiti a tubino delle dee egizie, stretti stretti e lunghi fino ai piedi? Beh, quando gli archeologi alla metà dell'Ottocento hanno cominciato a trovare nelle tombe egizie casse di tessuti, hanno notato che il modello era sì quello ma la larghezza era almeno il doppio. In effetti, a pensarci, non esistevano tessuti elasticizzati e con un vestito come quello della dea Hathor sull'affresco dalla tomba di Sethi I le donne egizie non avrebbero potuto assolutamente camminare.
Inoltre non bisogna dimenticare quanto la vita fosse disagevole anche in questo campo: niente bottoni o cerniere lampo, gli abiti erano tenuti su da spille e spilloni, si cuciva ovviamente tutto a mano e con aghi di osso, la filatura e la tessitura era fatta con mezzi arcaici e con ritmi massacranti. Ecco perché nel mondo antico l'abito faceva eccome il monaco: le classi meno abbienti si potevano permettere al massimo un perizoma, i sacerdoti magari un paio di bei gonnellini sovrapposti (NB solo i Celti e gli Etruschi portavano i pantaloni), e su su fino al faraone che vediamo indossare nell'affresco i suoi bei sandali, un morbido gonnellino, cinture colorate, pettorale e un elegantissimo mantello trasparente e plissettato che doveva costare un occhio della testa.
Il piatto forte della visita sono stati degli abiti e dei tessuti del periodo Greco-Copto (dal III secolo d.C. al 640, data dell'arrivo degli Arabi). Vediamo finalmente la lana (che gli Egizi non avevano mai lavorato perché considerata impura essendo di origine animale) e quindi un paio di calzini, una mantella intera con cappuccio e numerose decorazioni da applicare sulle tuniche frutto del distretto artigianale del Fayum. Vi si nota l'evoluzione dei soggetti, dapprima geometrici, poi mitologici ma con allusioni al Cristianesimo ed infine con espliciti temi Cristiani. Come sono arrivati fino a noi questi manufatti con i loro bei colori vividi? Conservati per secoli sotto l'arida terra egiziana (gli Arabi non toccavano le tombe) e poi venduti a peso dopo l'epoca napoleonica quando il saccheggio dei sepolcri andava a caccia più che altro di oro e gioielli, snobbando questi quattro straccetti che oggi invece hanno riacquistato la loro importanza storica.