sabato 30 aprile 2011

Non ci sono morti di destra e di sinistra

Nella mia ignoranza e superficialità ho sempre associato il termine "foibe" alla strumentalizzazione che i gruppi di estrema destra fanno per poter additare una vergogna "di sinistra" da contrapporre a quelle del fascismo e del nazismo.
"Compito della storia invece non è formulare giudizi ma far capire i contesti in cui le cose sono accadute. Non è vero che le vittime delle foibe siano di destra e quelle della Risiera di San Sabba siano i morti di sinistra. Entrambi sono vittime della storia italiana che hanno pagato le colpe di ciò che l'Italia è stata tra il 1922 e il 1940."
Questa in sintesi l'intervista a Fahrenheit Radio3 al professor Gianni Oliva, che ha studiato a lungo quel periodo di vuoto di potere che si è creato tra il 1943 e il 1948 e che ha pubblicato il saggio fotografico "Esuli".
Per capire, al solito, bisogna risalire alle radici dei problemi. Nella zona del Nord Adriatico, alla caduta dell'Impero Romano, si forma un ceppo italiano, che si basa sull'eredità romana, e un ceppo slavo di nuovi arrivati. Le due etnie convivono pacificamente per tutti i secoli della Repubblica di Venezia fino al Trattato di Campoformio del 1797. Anche con l'Impero Asburgico, che era piuttosto multietnico, la convivenza resta pacifica: gli Italiani tendenzialmente occupano la costa e si dedicano ad attività commerciali, gli slavi occupano prevalentemente l'interno e si dedicano ad attività agricole. Le divisioni nascono quando, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale quella terra diventa Italia, si afferma un regime nazionalista come il fascismo che predica la superiorità italiana sulle altre nazioni e che qui ha un impatto deleterio con una "politica di forzata italianizzazione": soffocamento della cultura slava, obbligo dell'uso esclusivo dell'Italiano negli uffici pubblici, nelle scuole, nelle omelie dei sacerdoti, nazionalizzati i termini geografici e i cognomi. Tra il 1941 e il 1942 con l'occupazione Italo-Tedesca si arriva a creare dei campi di concentramento per slavi ove il tasso di mortalità si aggira intorno al 20%.
Questo quadro, spiega Gianni Oliva, non giustifica affatto il vergognoso crimine delle foibe perpetrato dalle truppe del maresciallo Tito e che ha portato, tra il maggio e il giugno del 1945, all'assassinio di 8/10 mila Italiani e all'esodo di altri 250/300 mila, così come non assolve coloro che fornirono ai Titini i nominativi, ma serve a capire che esso fu il prezzo pagato dagli Italiani Giuliano-Dalmati alla guerra.
Il maresciallo Tito voleva annettere alla Yugoslavia tutte le terre mistilingue addirittura fino all'Isonzo. Per portare avanti questo piano era necessario che nessuno difendesse l'italianità di quelle zone. Di qui l'obiettivo politico di decimare la comunità italiana, tutti quelli che avevano avuto un ruolo nel regime fascista, ma anche tutto il CNL della Venezia Giulia, come gli antifascisti del Partito d'Azione. Dal 12 giugno 1945, con l'accordo sulla linea Morgan tra Italia e Slovenia, le foibe cessarono perché non avevano più ragione e cominciarono gli esodi degli Italiani che si trovavano al di là. Essi abbandonarono volontariamente la loro terra e si ritrovano a vivere nei 109 campi profughi allestiti in tutt'Italia, accolti spesso dal pregiudizio che fossero dei fascisti ricchi che non avevano accettato il regime yugoslavo, mentre invece, il più delle volte, erano poveracci, come raccontano le foto del libro di Oliva.
Seguirono quarant'anni di silenzio con la complicità di tutti: del PCI, che aveva tutto l'interesse a tacere le sue contraddizioni tra l'essere un partito nazionale in politica interna e un partito internazionale in politica estera, ma anche delle potenze occidentali che avendo fatto di Tito, dopo la sua rottura con Stalin, un interlocutore, uno dei leader dei paesi non allineati, e che quindi non si voleva mettere in imbarazzo con domande difficili. Soprattutto c'è stato un silenzio di Stato perché dopo il 1945 abbiamo fatto finta di essere un paese che ha vinto la guerra e che, eliminati Mussolini e il Re, si potessero immaginare risolte tutte le colpe e traghettare tranquillamente la precedente classe dirigente.
Appreso quanto sopra, capisco ancora meno perché la giornata del ricordo per le vittime delle foibe debba continuare ad essere considerata una commemorazione di destra.

mercoledì 27 aprile 2011

Irresistibile voglia di lavorare

Dei nostri colleghi siamo soliti avere una conoscenza superficiale tranne per quelli con i quali lavoriamo a stretto contato. Succede allora che in occasione di viaggi di lavoro ci si conosca meglio. Talvolta rivediamo giudizi, talvolta si hanno piacevoli scoperte, talvolta delusioni.
Ultimamente ho fatto un paio di viaggi a Roma con un mio collega che conosco da tanti anni. Che fosse una persona espansiva e chiacchierona lo sapevo, ma non pensavo che fosse un vero fiume in piena. Praticamente questi viaggi sono stati quasi una seduta psicanalitica dove io facevo l'analista. Spesso succede che le persone si aprano con me, forse perché la mia attenzione a quello che dicono è vera, non le lascio semplicemente parlare, ma faccio domande precise o interventi che rivelano un interesse reale.
Paolo (nome ovviamente di fantasia), non solo mi ha parlato di cosa fa al di fuori del lavoro e come si prodiga per la famiglia, le figlie, i parenti e persino per i semplici conoscenti, ma mi ha raccontato anche tanti episodi della sua vita, della sua adolescenza, del servizio militare, delle sue esperienze lavorative. "Potrei raccontartene tante..." mi ha detto salutandomi alla fine della nostra trasferta.
Mi ha raccontato che da ragazzo non aveva mai un soldo in tasca, che i suoi gli negavano anche quel poco che potevano permettersi di dargli, che non aveva affatto successo con le ragazze ma siccome era (ed è) tanto simpatico, gli amici lo chiamavano sempre per "allietare" la compagnia.
Il mio collega non ha una vasta cultura e le sue aspirazioni sono semplici: gli piace stare all'aria aperta, ha un'irresistibile impulso ad aiutare gli altri e soprattutto a lavorare con le mani. E' uno di quegli uomini che sa far tutto quello che c'è bisogno di fare. "I' cche ci vole!" è la sua frase più frequente. E si mette ad arare la terra, riparare un apparecchio elettrico, segare un albero, imbiancare, sistemare un impianto idraulico, smontare, riparare, rimontare, potare, innaffiare, verniciare, stuccare, saldare, fare iniezioni e così via.
Paolo è la classica persona di cui tutti si approfittano. La tipica persona "con il cuore in mano", sempre disponibile, sempre pronto a farsi in quattro ben oltre quello che è dovuto.
"Lo so che non se lo meritano", dice quando è amareggiato perché qualcuno pretende senza essere riconoscente, "ma tanto io sono uno che vuole bene a tutti." E una lacrimuccia gli fa capolino.
Uno così in un ambiente dove tutti prima di alzare un dito vanno a controllare se questo è previsto dal proprio mansionario o se magari spetta a qualcun altro, per poi comunque contrattare qualcosa in cambio, non può essere compreso.
"Mi sa che anche tu stai nella coda della gaussiana", gli ho detto ad un certo punto.

lunedì 25 aprile 2011

Covo di resistenti


Quest'anno, in famiglia, le tessere dell'A.N.P.I. sono tre.
Praticamente siamo un covo di resistenti.


Qui alcune immagini della celebrazione dell'anniversario a Firenze.

giovedì 21 aprile 2011

In barba a tutto


Incurante dell'umanità che si scanna, che consuma il pianeta, che si arrovella per mille cazzate, una coppia di merli ha fatto un nido sull'oleandro davanti alla mia finestra. In questi giorni stiamo seguendo con ansia le sorti dei tre pulcini.
Stamani nel nido ne era rimasto uno solo, il più fifone o il più prudente.

mercoledì 20 aprile 2011

La lotta delle donne: la voce femminile delle rivolte in Tunisia, Libia ed Egitto

Lunedì sera ho partecipato ad un incontro, organizzato dall'ARCI e dal COSPE, sulla situazione delle donne in Tunisia, Libia ed Egitto. E' stato interessante e mi ha aiutato a capire qualche cosa di più dei movimenti che hanno interessato questi paesi e a tentare di rispondere alle domande che tutti noi ci poniamo: queste rivolte tendono veramente alla democrazia e che speranza hanno di vederla realizzata?
Non sono la sola a credere che la situazione delle donne, la loro libertà e la loro possibilità di partecipazione alla vita pubblica siano la cartina di tornasole per capire se davvero ci sarà un cambiamento.
Deborah Picchi, referente COSPE per i progetti con le donne in Afghanistan, ha introdotto la serata. Cristiana Cella, giornalista de L’Unità, ci ha riportato le testimonianze di protagoniste femminili di spicco come Halima Jouini, dell'Association Tunisienne des Femmes Democratiques e altre donne dei movimenti sia egiziani che tunisini. Mi pare di aver capito che la situazione sia molto diversa nei due paesi. In Egitto stanno prendendo in mano la situazione i militari e i Fratelli Musulmani che hanno intenzione di modificare di pochissimo la costituzione attuale e soprattutto (analogamente a quello che è successo in Afganistan) di lasciarci un articolo che condiziona tutto alla sharia. Infatti le donne che hanno partecipato alle manifestazioni sono già oggetto di persecuzioni e torture. D'altra parte il movimento che è nato spontaneo su internet è molto elitario e non ha la capacita di raggiungere capillarmente gli elettori in tutte le zone del paese come invece hanno i Fratelli Musulmani.
In Tunisia invece sembrano esserci più speranze. La condizione delle donne in quel paese parte già da una base legislativa migliore in termini di diritti e di presenza pubblica. Si è riusciti infatti ad ottenere di indire elezioni per un'assemblea costituente, fatta di metà donne e metà uomini, che dovrebbe riformulare interamente la costituzione.
Francesca De Pasquale, che ha lavorato negli ultimi tre anni presso l'Archivio Nazionale Libico di Tripoli, ci ha illustrato, dal suo punto di vista, la condizione delle donne libiche e la loro "resistenza" nella società a sostegno della lotta in corso. Dalla sua relazione ho capito che le donne in Libia non godono affatto di libertà, devono rimanere sempre defilate, sono costrette a fare lavori che le facciano notare meno possibile e non ci sono associazioni femminili (tranne quelle molto vicine al regime). La De Pasquale si è detta positivamente colpita da come le donne libiche trovino il modo di fare comunque resistenza formando forti reti di solidarietà tra loro. Temo però che la mentalità tradizionalista della società libica non sia affatto pronta ad una vera svolta. Anche dal video che Francesca De Pasquale ci ha mostrato e che potete vedere qui, sul supporto delle donne alla lotta libica, a parer mio, mostra come esse abbiano ancora una volta un ruolo del tutto marginale (la preparazione di migliaia di pasti per i combattenti).
Spero che il vento del cambiamento soffi davvero in questi paesi ma non riesco ad essere molto ottimista.

sabato 16 aprile 2011

Adorabile storia

Storia, la mia grande passione. L'ho capito troppo tardi. Se mi chiedessero oggi cosa mi sarebbe piaciuto studiare all'università, risponderei senza esitazione: storia. Purtroppo quando avevo vent'anni non l'avevo capito e mi sono intestardita ad iscrivermi a Lingue e, soprattutto, a voler lavorare subito.
Eppure mi sento anche un po' portata per la storia perché qualsiasi tema o questione mi trovi ad affrontare mi viene subito da pormi domande tipo: "Da cosa è derivata questa esigenza? Come si è creato questo problema? Cosa c'era prima?"
Oggi quindi non mi rimane che fare scorpacciate di documentari come "La storia siamo noi", "La grande storia" o "Correva l'anno". Non me ne perdo una puntata con tutti i limiti e le semplificazioni che questo approccio comporta. Eppure, grazie ad essi, ho imparato davvero tante cose.
E' questo il tema del saggio "Come la televisione racconta la storia", pubblicato sulla rivista "Nuova civiltà delle macchine" e scritto dal famoso storico Giovanni Sabbatucci, ospite a Le Storie Diario Italiano Rai3.
Tutto sommato il professore dà un giudizio positivo del rapporto storia-TV. Il limite, a suo dire, è che la conoscenza storica tollera male il frammentismo, la parcellizzazione dei fenomeni mentre invece essa dovrebbe basarsi su un'impalcatura generale che la TV non può dare, dovendo, per ovvie esigenze di audience, trattare un avvenimento o una questione per volta, in modo piano e poco faticoso.
Anche in questo campo "il compito di provvedere all'alfabetizzazione di massa spetta ovviamente alla scuola, che negli ultimi anni ha troppo spesso abdicato a questo ruolo, vuoi perché c'è poco tempo, vuoi per discutibili pratiche pedagogiche, vuoi per una malintesa battaglia contro il nozionismo".
Per "discutibili pratiche pedagogiche" Sabbatucci intende il metodo di fare storia senza seguire l'ordine cronologico, partendo da episodi conosciuti e saltando tra un episodio ad un altro, per ovviare alla mancanza di tempo. Secondo lo storico invece solo una conoscenza dei fatti in successione, studiare un prima ed un dopo, causa ed effetto, può dare senso della profondità ai fenomeni.
Molto interessanti anche le domande dei ragazzi presenti in studio:
D: La televisione può manipolare la storia?
R: La si può manipolare anche con un libro, ma la TV è più efficace e immediata e quindi più pericolosa.
D: La televisione semplifica la storia?
R: Un po' è necessario per renderla attraente. L'importante è fare attenzione alla quantità e al modo di semplificare.
D: E' vero che la Storia è "maestra di vita" e che serve ad evitare il ripetersi degli stessi errori?
R: Non proprio. La storia è magistra vitae non perché ci dà indicazioni precise su quello che dobbiamo o non dobbiamo fare, ma solo per capire quanto erano diverse le cose nel passato, per allargare i nostri orizzonti. La storia non ci dà schemi ripetitivi.

mercoledì 13 aprile 2011

In cammino verso casa

La parte più bella è senza dubbio il primo tratto, quello fra i campi della piana fiorentina, in un paesaggio rurale che, specie con la luce pomeridiana, dà un inaspettato senso di serenità anche solo per l'avifauna che la frequenta. Temo che che questo paesaggio andrà a sparire se e quando realizzeranno la nuova pista dell'areoporto.
Passato il ponticino sull'autostrada, si percorre una strada piena di laboratori ed esercizi cinesi dalle insegne curiose. Oltre la via Pratese si entra purtroppo una zona piuttosto degradata. Per fortuna nel sudicio fosso, scorgo una simpatica nutria che fa toeletta al sole.
Siamo in un'anonima periferia che potrebbe essere di una qualsiasi città ed invece tracce di arte e di storia spuntano anche qui: un tabernacolo con una pittura di fine Trecento, una pieve del IX secolo, una dell'XI, un oratorio del 1581, soffocato tra i capannoni e gli svincoli, e un ex-collegio francescano. Queste emergenze mi ricordano che siamo comunque nel territorio di una città d'arte.
Ma anche la natura, specialmente in questo periodo, vuol dire la sua e dal giardino di una casa arriva il profumo di un glicine e persino una misera aiuola spartitraffico ci può regalare un tappeto di margherite.
Per gli anziani di questa zona non ci sono molte cose da fare: bisogna accontentarsi della tombola parrocchiale o di sedersi sotto un albero a guardare le auto che passano.

Mi sto convincendo sempre di più che ogni porzione di territorio ha qualcosa di interessante da raccontare, non necessariamente qualcosa di bello, magari racconta degrado e devastazione, ma non per questo di minore interesse. La strada che si fa tutti i giorni pare non abbia segreti ed invece già percorrendola in bicicletta possiamo scorgere dei particolari inaspettati. Tuttavia è camminando che si fanno le migliori scoperte.

In questo album il racconto fotografico del percorso.

domenica 10 aprile 2011

Bevilacqua, ultimo marxista

"Il capitalismo è entrato in un'era di distruttività radicale. Ci trascina in un vortice che dissolve le strutture della società, decompone lo Stato, cannibalizza gli strumenti della rappresentanza politica e della democrazia, desertifica il senso della vita."
Piero Bevilacqua, professore ordinario di Storia Contemporanea a La Sapienza di Roma, è stato ospite sia a Le Storie di Corrado Augias su Rai3, sia a Fahrenheit Radio3, dove ha presentato il suo ultimo libro: "Il grande saccheggio. L'età del capitalismo distruttivo"
La tesi portata avanti dallo storico è che il tracollo economico-finanziario del 2008-2009 non è una normale crisi ciclica destinata a passare, bensì il campanello di allarme di un meccanismo distruttivo già in atto negli anni Ottanta (anni del: "Lo Stato non è una soluzione. Lo Stato è il problema." di Ronald Reagan e del "Non esiste la società. Esistono solo gli individui." di Margareth Thatcher). Negli anni Ottanta e Novanta infatti, quando l'economia era fulgida, "il grande saccheggio", cioè la predazione tipica del capitalismo, la grande sottrazione di reddito dei ceti ricchi alla grande massa, era già in atto tant'è che il trend positivo non si accompagnava all'incremento dei posti di lavoro e questo doveva già destare allarme. I ceti bassi hanno visto scemare sempre di più il loro potere d'acquisto e in USA si sono indebitati sempre di più fino alla bancarotta del 2008.
Secondo Bevilacqua però è sbagliato puntare semplicemente "a tornare alla situazione di prima", ma bisognerebbe cogliere l'occasione per ripensare un modo di produrre e di concepire la vita economica e sociale che non ha più ragione d'essere, per rivedere stili di vita, sfruttamento delle risorse, distribuzione della ricchezza.
Anche solo il fatto che siamo sommersi di beni ad obsolescenza programmata, come quelli elettronici, la cui produzione richiede ingenti risorse minerarie (tantalio, terre rare e persino oro) sconquassando interi territori, e che poi creano altrettanti devastanti problemi di smaltimento.
Interessante su questo aspetto la citazione del Manifesto del Partito Comunista del 1848, dove Karl Marx si dimostra profetico nella sua analisi del funzionamento del capitalismo: "Ogni crisi distrugge regolarmente non solo una gran massa di prodotti, ma molte di quelle forze produttive che erano state create. Le condizioni del mondo borghese sono ormai diventate troppo anguste per contenere la ricchezza che esse stesse producono. Per quali vie riesce la borghesia a vincere la crisi? Per un verso col farsi imporre dalle circostanze la distruzione di una grande quantità delle forze produttive, per un altro verso con la conquista di nuovi mercati o con il più intenso sfruttamento di quelli esistenti."
Piero Bevilacqua se la prende anche con la classe politica che, dopo la caduta dei grandi partiti di massa, è stata sostituita con delle oligarchie dedite solo alla propria autoproduzione e completamente scollegate dalle masse popolari, dalla classe operaia, dai ceti medi, ecc.
"I dirigenti dei partiti si limitano a vendere prodotti del loro marketing elettorale, mentre le masse sono diventate un indistinto coacervo di clienti."
Soluzioni e proposte? Nell'ultimo capitolo del libro: necessità di controllo del ceto politico magari sfruttando la potenza tecnica di internet, recupero del concetto di beni comuni, incremento di attività cooperative basate sulla fiducia reciproca.

giovedì 7 aprile 2011

Il tramonto del giornale?

Quando ero ragazza, in casa mia il giornale entrava solo la domenica, giorno nel quale i miei genitori compravano La Nazione. I grandi paginoni grigi e scomodi da sfogliare non mi attiravano. E' stato il ragazzo con cui stavo durante l'ultimo anno di superiori a farmi apprezzare la lettura di un quotidiano. Mi passava le copie di Repubblica dopo averle lette e io leggevo i commenti e gli articoli di fondo sul bus andando a scuola. Rimanevo indietro anche di un mese (proprio come ora con le trasmissioni radio e TV che registro!) ma non mi importava perché quello che apprezzavo erano appunto gli approfondimenti e i pareri di firme prestigiose come Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca e altri.
Nei successivi anni Ottanta, anni di ripiegamento nel privato per me, compravo di rado Repubblica, magari in vacanza quando avevo più tempo. Buttare via un qualcosa di cui non ho usufruito è un gesto che non riesco a fare e l'idea che il giornale che ho avuto tra le mani durante il giorno finisca nella spazzatura perché non ho avuto tempo di leggerlo mi infastidisce. E' un po' la stessa fissazione che mi spinge a finire per forza i libri anche se non mi piacciono o che mi impedisce di buttare via il cibo solo perché non ho più fame. Lo vivo come un fallimento personale.
Verso la fine degli anni Novanta c'è stata la presa di coscienza della "consumatrice critica" e così ho capito che anche Repubblica, così strapiena di pubblicità, in realtà non è esente dall'influenza dei poteri forti degli inserzionisti. Sono passata quindi per un breve periodo al Manifesto (che compravo praticamente solo per il pezzo di Robecchi) e poi ho cominciato a comprare L'Unità di Colombo/Padellaro, giornale che, anche nella versione un po' più soft di Concita De Gregorio, sento ancora aderente alle mie idee e al mio temperamento. Il Fatto lo trovo un po' troppo giacobino, anche se come giornale di denuncia è ottimo e difatti lo leggo online. Il giornale per me è un piccolo rito del sabato e della domenica che mi regala un'oretta di relax sul divano. Le mie fonti di informazione quotidiana sono altre.
Ma con le nuove tecnologie, il quotidiano su carta è destinato a sparire? Il pericolo c'è e lo dimostra la crisi che la stampa tradizionale sta attraversando in tutto il mondo ma, mentre in altri paesi se ne discute, in Italia non è assunto come un problema nazionale. Questa in sintesi l'intervista a Fahrenheit a Enrico Pedemonte, giornalista e blogger, autore di "Morte e resurrezione dei giornali. Chi li uccide e chi li salverà".
Nell'ultimo decennio i quotidiani italiani hanno perso il 32% delle copie vendute: da 6 a 4 ML (di cui mezzo milione riguarda i tre grandi giornali sportivi). L'impatto della carta stampata sull'opinione pubblica è ormai marginale.
La crisi mondiale della stampa tradizionale, secondo Pedemonte, è dovuta a vari fattori:
1) la rete, dove si possono trovare anche informazioni che un tempo spingevano all'acquisto di un quotidiano (programmazione al cinema, farmacie aperte, annunci economici, ecc.), anche se in Italia l'accesso alla rete è ancora bassissimo.
2) la free press, che io detesto sia perché riempie di cartacce le strade, gli autobus e la metropolitana, ma soprattutto perché dà alle persone l'illusione di essersi informati quando invece i suoi contenuti sono essenzialmente pubblicitari e non vanno al là di quello che si potrebbe ricavare dal televideo (quindi ben al di sotto di quello che si trova su internet).
3) i giornali gratis su internet e tutti gli altri mezzi per "consumare" informazione (telefonini, tablet, ecc.), anche se è stato calcolato che il tempo che i lettori in Italia dedicano a leggere i giornali su web è solo il 3% di quello che passato a leggere sulla carta, ben al di sotto delle ore trascorse su FaceBook.
Ogni giornalista che scompare sono notizie in meno. La stampa e i giornali stanno perdendo la loro centralità sociale e il loro ruolo strategico. Sicuramente un fenomeno da affrontare però, a dire il vero, trovo che non sia tanto importante il mezzo con cui si divulgano le informazioni quanto la libertà economica e morale e la professionalità di chi le scrive.
Intanto vado a stravaccarmi sul divano con la mia copia de L'Unità.

domenica 3 aprile 2011

Si scopre sempre qualcosa di nuovo

Il cielo grigio di stamattina mi aveva un po' deluso, ma per fortuna si trattava di nebbie che salendo si sono dissolte. Così è uscita fuori una bella giornata tanto che siamo tornati a casa belli cotti dal primo sole della stagione. Ho accompagnato un gruppo di amici per un lungo percorso sui Monti della Calvana: più di 20 km per circa 1000 metri di dislivello.
I Monti della Calvana, crinale subappenninico che si incunea nella piana tra Firenze e Prato, sono una meta che ho frequentato spesso nelle mie escursioni domenicali, sia per la sua vicinanza da casa mia, sia per la discreta scelta di sentieri, molto panoramici per la modesta altitudine dei rilievi.
Non avrei mai immaginato di imparare un sacco di cose preparando questa escursione. Mi ha stupito infatti la mia amica che ha curato la presentazione sul sito dell'associazione quando ha scritto di "carattere carsico con numerose grotte". Grotte? E invece bastava studiare meglio la cartina e notare tutti quei puntini con scritto accanto "Gr." Così ho imparato perchè i torrenti in Calvana si trovano solo sotto una certa altitudine detta "linea delle risorgive", che gli ampi prativi sommitali sono preziosissimi perchè proteggono il terreno carsico dall'erosione.
E chi l'avrebbe mai detto che le mucche che tante volte ho incrociato (e i cui escrementi schifano tanto il marito schizzinoso) sono di razza Calvanina, ecotipo della Chianina presente solo qui e in Mugello? E che soddisfazione imparare che la stazione di Prato Centrale è stata realizzata in occasione della costruzione della Direttissima Firenze-Bologna (praticamente la TAV del periodo fascista), che la Calvana era attraversata da tre strade medievali che collegavano i vari feudi degli Alberti e che su questi monti si è svolta la prima vera battaglia della resistenza toscana combattuta tra i "Lupi Neri" di Lanciotto Ballerini e i fascisti di Duilio Sanesi!
Grazie ai miei pazienti compagni di escursione ed in particolare alla mia amica S. che riesce sempre a trascinarmi vincendo la mia pigrizia e la mia timidezza.