domenica 30 settembre 2012

Il piccolo (si fa per dire) cammino di San Jacopo

Quando all'ultima assemblea del mio quartiere ho sentito la proposta di ripercorrere un antico pellegrinaggio medievale che da Firenze arrivava a Pistoia mi sono subito entusiasmata. Quando però, leggendo il programma, ho visto che si trattava di una quarantina di chilometri da fare a piedi in un solo giorno, mi sono un po' spaventata. Le tappe più lunge del mio cammino di Francesco, fatte tra l'altro dopo aver acquisito un certo allenamento che ora non ho, erano di 28/30 km. Ma so bene che non resisto alle sfide, soprattutto quando si tratta di condividere un'esperienza con altre persone. Infatti sono davvero rimasta stupita dal numero di aspiranti pellegrini che ho trovato all'appuntamento in piazza la mattina alle 6.30. E sono stata ancora più impressionata nel constatare quanti (quasi tutti), giovani e anziani, uomini e donne, con abbigliamento tecnico o con inopportune scarpe cittadine, mantenendo un passo assai veloce (4,8 km all'ora di media), sono arrivati alla meta.

Abbiamo camminato sulle tracce di quegli antichi pellegrini che, non avendo la possibilità di andare a Santiago de Compostela, si accontentavano di fare questo percorso che, da Firenze, passando per Campi Bisenzio, Prato, Agliana, arrivava fino al Duomo di Pistoia dove è conservata una piccola reliquia di San Jacopo. Abbiamo attraversato, come oggi purtroppo è inevitabile in un territorio fortemente antropizzato, zone piuttosto desolate, anonime periferie, fatte di capannoni, rotatorie e rifiuti abbandonati. Però abbiamo percorso anche tratti ameni, soprattutto sugli argini dei fiumi oppure attraversando i numerosi vivai della piana pistoiese (qui alcune immagini).
Tornando a casa la sera con il treno (che ha percorso in 45 minuti la distanza che ci ha visti impegnati per 11 ore), con i piedi e le articolazioni doloranti, mi sono sentita soddisfatta di me stessa, della compagnia e della giornata trascorsa.

giovedì 27 settembre 2012

Un fiore ti sorprenderà



Non c'è neve, gelo, vento, siccità, scarsità di luce, terreno poco buono o persino traumi che tengano. Queste specie di palme derivano tutte da una sola: un classico "tronchetto della felicità" o qualcosa di simile regalato ad un mio ex e dal quale mi portai via un paio di germogli. Trapiantati in altrettanti vasi sopravvissero egregiamente in una piccola corte buia della mia vecchia casa. In una giornata di vento una lastra di plastica che faceva da tettoia ne troncò uno a metà ma le due parti sopravvissero entrambi alla grande (una è ancora bella florida nell'appartamento dei miei genitori).
Vent'anni fa la pianta, ormai in duplice copia, fu trasferita nella nuova casa e trapiantanta nel "giardino responsabile", quello nel quale ci cresce solo l'ortica e la parietaria. Niente paura, oramai i due ex germogli sono due palme che arrivano in altezza fino al primo piano con un tronco del diametro di 30 centimetri ciascuna e in questi giorni, dopo un'estate senza una goccia d'acqua, il miracolo: una delle due ha prodotto un'infiorescenza bellissima (le foto non rendono). Chissà quale combinazione ha permesso questa fioritura! E chissà cosa succederà all'indistruttibile pianta ora che ha messo tutte le sue energie nel produrre questa creatura dall'aspetto delicato. La natura riserva sempre sorprese.


domenica 23 settembre 2012

Apuane da salvare


Il blog langue perché tante altre cose mi cannibalizzano il tempo. Quasi tutte cose noiose ma anche qualcuna piacevole come questo finesettimana passato a camminare sulle Alpi Apuane (Monte Procinto e Monte Forato). Il tempo non è stato splendido ma sono grata alla mia amica S. quando riesce a stanarmi di casa e coinvolgermi in belle camminate sulle sue amate montagne.
Le Alpi Apuane sono montagne particolari, con le loro rocce, le loro grotte, il reticolo di sentieri, il paleo insidioso, i panorami che sanno essere grandiosi.
Purtroppo queste montagne se le sta mangiando un'attività estrattiva che non è più quella dalla quale Michelangelo attingeva i suoi pregiati pezzi di marmo bianco e nemmeno quella che costava sudore ai cavatori da sempre anarchici. Oggi queste montagne le stanno sciaguratamente sbriciolando con l'esplosivo per ricavarne carbonato di calcio per l'industria come si può vedere da questo filmato così straziante per chi ama questo territorio.
Salviamole!

lunedì 17 settembre 2012

Filosofia, che passione!

Tre giorni al Festival della Filosofia di Modena-Carpi-Sassuolo che quest'anno ha avuto come tema le COSE. Un'overdose di parole e di concetti, alcuni più afferrabili, altri davvero complicati, di quelli che alla fine ti fuma il capo, però che bello quando ti ritornano in mente associati alla vita di tutti i giorni!
Si comincia venerdì pomeriggio nella tranquilla cittadina di Carpi con Michela Marzano, chiara, puntuale e stimolante come sempre. Ascoltandola ti sembra di toccare con mano il tuo io più profondo. "L’amore come il bisogno di colmare il vuoto della mancanza di senso." "Ognuno ha il suo vuoto che nessuno può colmare, però ci possiamo dare la mano e attraversarlo insieme." "Bisogna appoggiarsi a quel nocciolo duro che rappresenta la nostra autonomia ma dal quale l’altro non è escluso."
Sabato siamo invece a Modena e partiamo la mattina con Emanuele Coccia, un giovane professore con la tenera aria da secchione, che ci propone una tesi provocatoria: le merci come oggetti morali, la produzione e lo scambio di merci rispondono a bisogni morali. Cosa?!? Salto sulla sedia. Un inno al capitalismo e alla sua mercificazione di tutto? Ma quella di Coccia è un'analisi, una costatazione, non un giudizio, mi spiega il mio consulente filosofico personale (mio figlio). In effetti il giovane professore (che confessa di amare i suq) lo dice: "Adoriamo le cose e le consideriamo la forma della nostra felicità." In una società irrimediabilmente secolarizzata, che ha accettato la morte di Dio e che non crede più che il bene venga dalla storia, la morale della pubblicità ha il vantaggio di non essere ultramondana, non promette un aldilà. E il bene di tutti sta in un quello spazio di proiezione immaginaria condiviso che sono i muri delle città. Non so se mi ha convinto del tutto però l'ho trovato molto stimolante e davvero innovativo.
Più pesante e forse esposta non troppo chiaramente è la lezione di Fabrizio Desideri sul famoso (ah sì?) libro di Walter Benjamin "L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica”.
Ma il record dei neuroni che fumano si batte con la lezione magistrale di Emanuele Severino: "Il senso originario della cosa è la resistenza che oppone alla volontà." "La cosa è la resistenza che progressivamente cede." "Il diventare altro non appare, non è oggetto di esperienza, non è empiricamente verificabile. La saggezza del nostro tempo sta tutta in quel tutto diviene."
Caspita! Non c'ho capito nulla, ma intuisco che dentro il ragionamento di questo signore ultraottantenne che si rivolge al pubblico con il "loro" c'è qualcosa di grande, qualcosa che va oltre la banalità dell'immediato. Infatti il professore collega il suo discorso alla crisi attuale e conclude: "Per rimediare alla crisi occorre ben altro che la politica o l’economia. Ci vuole il piacere filosofico. Altrimenti siamo carpentieri che riparano la nave senza sapere dove essa sta andando." Meraviglioso!
La nostra lunga giornata a Modena si arricchisce anche della bella atmosfera che c'è nelle vie e nelle piazze cittadine, del pranzo con il cestino filosofico chiamato "razion sufficiente", del pubblico così incredibilmente numeroso ad ascoltare discorsi tanto lontani dalla banalità dei programmi televisivi ed anche (per me) dell'emozione di vedere e ascoltare dal vivo i miei amati conduttori di Fahrenheit.  Che strano dare forma a queste voci così familiari ed accorgersi della loro "umanità" quando Felice Cimatti per provare il microfono esclama "forza Inter!" e quando Marino Sinibaldi si materializza con il suo sorriso radioso ma anche con la sua postura non proprio corretta.
Domenica mattina a Sassuolo, Silvano Petrosino ci coinvolge con la sua simpatia mentre ci fa riflettere sul denaro, che non è una semplice "cosa" e nemmeno un semplice "mezzo" per raggiungere gli oggetti che desideriamo. ll desiderio umano, infatti, è assenza che permane anche nella sua soddisfazione, è inquietudine, sconcerto. Per superare l'inquietudine l'essere umano coagula intorno agli oggetti (la casa più grande, l'auto di lusso, la moto potente, il jeans ultima moda, il viaggio che abbiamo sempre sognato, la bella ragazza che vorremmo conquistare, ecc.) un fantasma che per un po' abita intorno ad essi ma appena li afferriamo esso vola via e noi ci troviamo a desiderare qualcosa oltre.
Partiamo in fretta lasciando a malincuore a metà la lezione di Sergio Givone su dono e perdono.
Cose, è stato il tema del Festival. Filosofia come cosa astrusa e inutile? Discorsi che oscillano tra il banale e l'incomprensibile come dice il cinico materialista di casa? Può darsi. Io invece li ho trovati  molto affascinanti e, catturando al volo una definizione sentita da Michela Marzano, mi piace più vedere la filosofia come "esercizio di virtù e conoscenza".

giovedì 13 settembre 2012

Impigliati nella rete?

Il mio capo si era proposto di prendersi una settimana di riposo prima di Ferragosto, per stare a casa. Peccato che però non ha mai smesso di collegarsi per leggere la posta elettronica ove continuava a ricevere richieste di tutti i tipi alle quali si sentiva in dovere di rispondere. "Uffa!" si lamentava, "Ma perchè continuano a scrivermi se avevo detto a tutti che questa settimana sarei stato in ferie?"
Un'ennesima riprova di quanto siamo condizionati da questo strumento potente quanto invadente che è la rete. Staccarsi da essa è diventata faccenda sempre più difficile, ma anche condizione necessaria per potersi dire davvero in vacanza.
Nella puntata di Fahrenheit riascoltabile qui si parte dal libro di Raffaele Simone "Presi nella rete. La mente al tempo del web" nel quale il linguista descrive una scena di un vagone di treno dove tutti sono impegnati non a conversare, nè a leggere, nè a guardare dal finestrino, quanto a smanettare su tablet, smartphone, notebook, ecc. Una coppia addirittura, pur sedendo a fianco, si rivela uno connesso con l'altra, scambiandosi App e facendo dialogare i due telefonini con i due portatili. Secondo me la descrizione dell'autore è un po' esagerata ma posso dire che negli USA una situazione del genere è invece molto frequente.
Il cruccio principale di Raffaele Simone (riportato anche in questo suo articolo pubblicato su L'Espresso) è però il fatto che la rete sta depotenziando il livello generale (soprattutto nei giovani) di linguaggio, di scrittura, di pensiero e di narrazione. "In quarant'anni di insegnamento", dice il professore, "ho potuto osservare un campione di circa sei mila studenti. Negli ultimi vent'anni ho calcolato una diminuzione cognitiva di un gradino all'anno. Va scemando quella che si chiamava "cultura generale". Le conoscenze sono "irrelate", cioè composte di tanti frammenti, che chiamerei straccetti di fonti varie e incongrue. Possono provenire da un testo importante, da un film o da un brano di dubbia qualità pescato in Internet".
Ad essere sincera una posizione come quella del professor Simone mi sembra un po' vetero-elitaria. Non è il mezzo che crea ignoranza, ma il suo uso, anche se è vero che ciò che non costa sforzo crea dipendenza (basti pensare al fatto che non facciamo più due passi a piedi perchè abbiamo l'auto a disposizione oppure non sappiamo fare una somma perchè abbiamo la calcolatrice sempre a portata di mano). Tuttavia perchè rifiutare dei mezzi che comportano una grande possibilità di ampliamento delle nostre conoscenze? Oggi, come dice il filosofo Maurizio Ferraris intervenuto nella medesima puntata di cui sopra, posso portarmi facilmente in vacanza una cinquantina di ebook al prezzo di 49 centesimi l'uno senza aver bisogno un valigione per trasportare i loro analoghi su carta.
Il trucco sta nel sapersi difendere, nel saper sfuggire all'assedio di domande che ci vengono fatte via rete, di mail a cui dovremmo rispondere, alla contrazione del tempo che ci costringe a fare più cose contemporaneamente.
Insomma bisogna imparare a ritagliarsi i nostri tempi per leggere, per pensare, per noi stessi. Bisogna imparare a scollegarsi, come ho tentato inutilmente di spiegare al mio capo.

lunedì 10 settembre 2012

Et si omnes, ego non

Opporsi alla tirannia anche quando è spietata e implacabile. Rifiutarsi di  essere parte di una società che subisce passiva, e in definitiva sostiene, la ferocia del tiranno. Non rassegnarsi, per quieto vivere o per paura, ad accettare quello che la coscienza ci suggerirebbe di contestare. La dittatura nazista, basata sulla religione del sangue, durò dodici anni. Si è parlato di colpevole connivenza del popolo tedesco, di ostinata volontà di non vedere. Tuttavia, per quanto la resistenza tedesca al nazismo non fu un movimento popolare, vi furono coraggiosissimi intellettuali, aristocratici ma soprattutto religiosi, cattolici e protestanti, che la sfidarono a costo della vita. Dal Vescovo di Muenster, Clemens August von Galen, una voce che si levò alta e decisa  contro l’agghiacciante progetto di eliminare le vite definite dal regime “indegne di essere vissute”, ai giovani universitari della Rosa Bianca, al borgomastro di Lipsia, Carl Friederich Goerdeler, che invano cercò appoggi all'estero, ai membri del circolo di Kreisau, al coraggioso colonnello della Wehrmacht Claus von Stauffenberg, il protagonista del fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944.
Avevo fatto l'errore di caricare la puntata "La Croce e la svastica" del programma di RAI3 La Grande Storia sul lettore di mp4 che accendo la notte quando non riesco a dormire. Niente di meno indicato. Infatti la tensione presente nel film-documento e le atrocità mostrate tutto fanno meno che conciliare il sonno. Merita invece vedersela con calma questa inquietante e bella puntata di storia.
Commovente la storia del giovane diacono Karl Leisner, malato di turbercolosi, che fu arrestato in sanatorio per aver espresso disappunto per il fallito attentato a Hitler del 8 novembre 1939 e deportato a Dacau. Nel campo i preti suoi compagni riuscirono, pur malato e sofferente, a fargli coronare il sogno di diventare sacerdote. Una cosa affatto banale (come stupidamente pensavo nella mia ignoranza): era necessario infatti un vescovo (e ne trovarono uno francese appena internato), l'anello episcopale, il pastorale, la mitra, ecc. Tutti i religiosi prigionieri, mossi dalla forza che dava loro la fede e dalla volontà di riscatto morale, cattolici e protestanti insieme, si dettero da fare e riuscirono nell'impresa nella terza domenica di dicembre 1944, sotto gli occhi ignari dei loro aguzzini. Realtà e immaginazione, forza e preghiera, fuse in un sogno che finalmente prese corpo e divenne potente testimonianza: la consacrazione a Dio in un luogo di miseria, di morte, di annientamento e di dolore. Il 26 dicembre 1944 Karl Leisner celebrò la sua prima messa nella cappella del campo. Il 12 agosto del 1945 morì.
"Non c'è nulla di più indegno per un popolo civile che lasciarsi governare senza alcuna opposizione da una cricca di irresponsabili dominati dai propri istinti." Comincia così il primo volantino distribuito da un gruppo di cinque studenti dell'Università di Monaco: i fratelli Hans e Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf, tutti poco più che ventenni, aiutati dal loro professore, Kurt Huber. Fogli distribuiti clandestinamente, infilati negli elenchi telefonici, spediti per posta, abbandonati sulle panchine, ecc. Il 18 febbraio 1943, Hans e Sophie Scholl distribuirono il sesto volantino all'Università e vennero arrestati. Furono torturati ma non rivelarono (purtroppo inutilmente) i nomi dei loro compagni. I funzionari della Gestapo che li interrogarono rimasero stupiti per il coraggio e la determinazione dei due giovani che furono ghigliottinati dopo pochi giorni all'alba nel silenzio del carcere. La loro vicenda è narrata nel bel film La Rosa Bianca - Sophie Scholl (Sophie Scholl - Die letzten Tage)  diretto da Marc Rothemund.
Oggi troppo spesso ci dimentichiamo quanto sia preziosa la libertà di poter dissentire, di poter dire la propria, di poter persino vomitare improperi tramite una tastiera di computer.
"Non è necessario uccidere il tiranno. Per sconfiggerlo basta sottrargli il rispetto e l'obbedienza del popolo intero" scrivevano i ragazzi della Rosa Bianca. E se talvolta ci viene comodo obbedire, allinearsi al "così fan tutti", adeguarsi all'andazzo, ricordiamoci il bellissimo motto dei dissidenti tedeschi al regime nazista: "et si omnes, ego non", "e se pur tutti, io no."

venerdì 7 settembre 2012

Donare conviene

Mi accorgo che quasi tutte le bozze di post che ho in lavorazione riguardano l'economia e la crisi economica. E' strano (ma neanche poi tanto) che la discussione tra gli intellettuali su questo argomento veda il fiorire di tentativi di lettura diversa da quella tradizionale (economia di mercato sì/no, capitalismo sì/no, ecc.).
Mi affascinano queste letture "altre", che non buttano a mare completamente un sistema ma auspicano un cambiamento ragionato e ponderato. Una di queste è quella che l'economista Stefano Zamagni ha illustrato al festival Dialoghi sull'Uomo con un intervento dal titolo: "Senza dono l'economia è triste e rende infelici. Un'analisi che mi sembra molto interessante anche se mi suona un po' utopica, tipicamente cattolica (non a caso scopro che Zamagni lavora insieme a Luigino Bruni di cui ho parlato qualche post addietro) cioè che conta sul bene che abita l'essere umano e che alla fine inevitabilmente trionferà. Personalmente sono più pessimista e temo che l'egoismo purtroppo avrà sempre la meglio.
Secondo il prof. Zamagni, non è assolutamente vero che il concetto del dono sia quanto di più lontano dall'economia. Prima di tutto il fatto che la scienza economica si basi oggi sull'utilitarismo non è scontato e non è sempre stato così. Fino al 1700 infatti l'economia era intesa come la "scienza della felicità pubblica". L'influenza del Positivismo unita a quella dell'Utilitarismo (teoria filosofica di fine Settecento dell'inglese Jeremy Bentham) hanno trasformato l'economia da "scienza della felicità" a  dismal science (scienza triste). E' stato allora che è passata l'idea che la felicità e l'utilità fossero la stessa cosa.
Invece, secondo Zamagni, l'utilità è la proprietà della relazione tra la persona e le cose ma essa non basta per essere felici. La felicità invece è la proprietà della relazione tra persona e persona. La felicità sta nella relazione perchè è la risposta al bisogno insopprimibile che ognuno di noi ha di essere riconosciuto e questo non ce lo possono dare le cose. Anche Aristotele diceva che non si può essere felici da soli. Questa confusione tra utilità e felicità ha fatto sì che, a partire dall'Ottocento, l'economista sia diventato colui che insegna ai singoli o agli stati la tecnica per massimizzare l'utilità e in questo orizzonte il concetto del dono non può entrare.
Zamagni distingue inoltre il dono dalla donazione. La donazione è il valore della cosa donata, può essere anche impersonale, può creare dipendenza e persino odio da parte del ricevente. Seneca diceva che non c'è odio più funesto come quello di chi, ricevendo una donazione, non è in grado di ricambiare. Il dono invece sta nella relazione e mette chi riceve in condizione di ricambiare. I tipici ambiti del dono sono la famiglia o le associazioni di volontariato. La politica, che doveva essere l'attività per eccellenza che ha come obiettivo il bene comune e quindi ospitare il concetto di dono, soffre invece perchè in essa ormai regna il principio di scambio di equivalenti.
La vera sfida, secondo il professore, è introdurre il principio del dono anche nelle aziende capitalistiche e addirittura dentro la finanza.
Come è possibile? Lasciando alle spalle il metodo tayloristico di organizzazione del lavoro. L'ingegner Taylor nel 1911 pubblicò il suo libro fondamentale sull'organizzazione scientifica del lavoro che prevedeva per ognuno il suo posto nella catena di montaggio ad eseguire senza pensare quello che il capo gli diceva. Questo tipo di organizzazione impersonale, ove il dono non trova posto, non ha futuro. Il successo delle imprese nell'era della globalizzazione è legato alla possibilità di valorizzare la tacita conoscenza, che è quella che applicava anche Leonardo da Vinci nella sua bottega, cioè la trasmissione del sapere attraverso il contatto personale, stando vicino ed osservando,  attraverso la relazione, la testimonianza. Dalla conoscenza tacita, da una relazione interpersonale forte, da un'organizzazione aziendale ove il principio del dono viene messo al centro viene fuori la creatività.
Se l'organizzazione del lavoro prevede una conoscenza fatta solo di codici e protocolli dove ognuno deve mettere il suo bullone senza capire cosa si va costruendo, senza poter "donare" il suo contributo di conoscenza personale, il lavoro è solo alienazione, sfruttamento, sofferenza necessaria per vivere.
Quello mi è piaciuto di più dell'intervento di Stefano Zamagni è proprio l'idea che ognuno di noi è portatore di una qualche conoscenza tacita ed è capace di dare un contributo, ed anche l'idea che il lavoro è sì fatica, ma anche gioia. Il lavoro visto anche come luogo di fioritura personale ove il lavoratore deve avere la possibilità di fiorire secondo le proprie inclinazioni e capacità. Applicare il principio del dono come reciprocità significa, secondo Zamagni, tendere nei luoghi di lavoro a pensare un'organizzazione che permetta di far scoprire a tutti la gioia di lavorare. Quelle imprese (poche, ammette l'economista) che hanno capito questo sono quelle che avranno successo.

martedì 4 settembre 2012

Se il trombaio è anche ingegnere

"Non è detto che tutti debbano avere una laurea, magari di malavoglia."
"Basta con le lauree inutili. I giovani hanno l'intelligenza nelle mani."
"E' meglio un carrozziere che un laureato in nulla."
"A che serve pagare uno scienziato quando facciamo le scarpe più belle del mondo?"
Queste alcune “perle” che esponenti istituzionali (non scrivo chi tanto lo ricorderete) ci hanno elargito negli ultimi tempi. Messa da parte l'irritazione che queste uscite infelici provocano, soprattutto pensando che essi stessi per primi hanno spinto i propri figli verso una professione intellettuale, il dubbio è di grande attualità nella mia famiglia: impiegare anni di studio e di energia per qualcosa che ci appassiona ma che poi probabilmente non ci servirà per trovare lavoro o mettersi ad imparare un mestiere manuale, che sicuramente sarà più richiesto anche se non ci darà la gratificazione sperata?
Qualche mese fa un articolo sull'Espresso dal titolo "Cercasi artigianodisperatamente" citava i mestieri più richiesti secondo l'Ufficio Studi di Confartigianato: installatori di infissi, panettieri e pastai, tessitori e maglieristi a mano o su telai, pasticceri e gelatai, lastroferratori, sarti, tornitori artigianali, modellisti e cappellai, parrucchieri, estetisti, falegnami, spedizionieri, attrezzisti, cuochi, verniciatori industriali, valigiai e borsettieri, conciatori di pelli e pellicce, pellettieri, installatori di impianti di isolamento e insonorizzazione.
In questa puntata di Fahrenheit si affronta però il dilemma in modo nuovo cercando di dimostrare che l'abilità artigianale non è oggi necessariamente qualcosa di separato e contrapposto al lavoro intellettuale. Francesca Coin, sociologa, ci dice che in realtà l'Italia è il paese dove i laureati sono pochi e vanno diminuendo. La popolazione dei diciannovenni si è contratta ed un numero sempre minore raggiunge una laurea rispetto ad altri paesi europei (20% contro il 37% di media). Stefano Micelli, economista e autore di "Futuro artigiano", afferma che non ci sono più due carriere formative separate, una di serie A (intellettuale) e una di serie B (lavoro manuale) in quanto il mercato del lavoro richiede figure ibride capaci di mescolare queste attività in modo creativo. Negli USA, per esempio, oggi si sta riscoprendo la figura dell'artigiano tecnologico (i cosiddetti makers). D'altra parte anche da noi l'idraulico tradizionale non ha più senso. Chi fa impianti deve avere competenze nuove per rendere, per esempio, le case energicamente più efficienti. Magari andrebbe fatto uno sforzo di comunicazione per far capire ai giovani che l'artigiano non è più un lavoratore manuale puro ma ha una responsabilità e una legittimità diversa. Insomma non c'è più bisogno di un semplice trombaio (per dirla alla fiorentina).
E allora cosa consigliare a mio figlio diciannovenne? Entrambi gli ospiti della puntata invitano comunque i giovani a mettere per prima la propria passione e il proprio desiderio e ad investire nel futuro secondo le inclinazioni di ciascuno. Il futuro per questi ragazzi è così nebuloso che è difficile stabilire cosa sia meglio e poi, come dice l'interessato, “i sogni bisogna anche provare ad inseguirli ogni tanto”. Come dargli torto?

sabato 1 settembre 2012

Cinque anni di solitudine

Regna, comprensibilmente ma pericolosamente, il risentimento verso i politici professionisti e la convinzione (forse più una speranza) che, se certe cariche fossero ricoperte da persone “normali”, prestate alla politica dalla società civile, tutto andrebbe meglio. Ma è proprio così?
Ho sempre avuto l'idea che amministrare un sistema complesso come una città, una regione ed ancor più un paese costringa il nuovo eletto, pur onesto e competente, a perdere di vista la società ideale che può avere in mente. Si può dire banalizzando il classico “tra il dire e il fare...”
Un po' me lo ha confermato l'intervista rilasciata a Fahrenheit Radio 3 da Roberto Balzani, professore di Storia Contemporanea all'Università di Bologna, autore del libro "Cinque anni di solitudine, memorie inutili di un sindaco", dove egli racconta appunto la sua esperienza di amministratore della cittadina di Forlì.
Il prof. Balzani afferma nel suo libro: "Scrivo prima che la patologia da cui sono colpito, l'impossibilità di concentrarsi a lungo su qualcosa di specifico che non siano problemi immediati, urgenti, indifferibili, sia veri sia presunti tali, abbia annichilito l'abitudine prevalente coltivata nell'altra vita di soffermarmi sulle cause dei problemi per analizzarli e poi decidere."
Balzani vinse a sorpresa le primarie e investì tutta l'energia di studioso per cercare di capire i suoi concittadini che avrebbe amministrato. Presto però si rese conto che il bombardamento di informazioni a cui era soggetto, sin dalla campagna elettorale, lo costringeva ad una vita fatta di relazioni molto superficiali ed anche poco utili a produrre poi delle decisioni razionali. Il sindaco diventa il terminale di tutte le richieste, le aspirazioni e le proteste senza che spesso possa avere una reale capacità di intervenire. Nella sua intervista, lo storico descrive le sue difficoltà un po' fumosamente, ma per quello che ho potuto capire, la sua recriminazione è stata quella di non avere avuto gli strumenti e il tempo di capire a fondo i problemi e quindi di essersi dovuto affidare abbastanza all'istinto, imparando ad “annusare” le persone cercando di intuire se le loro richieste fossero ragionevoli e oneste. A queste difficoltà ultimamente si sono aggiunte quelle economiche che fanno sì che i sindaci non possano neanche più essere i dispensatori di promesse a caccia di consenso ma siano ridotti ad essere l'ultimo anello istituzionale a cui è affidato il compito di sceriffi di Nottingham.
Ascoltandolo mi è venuto naturale associarvi l'esperienza molto più modesta di direttore per l'istituto per cui lavoro, carica che è elettiva all'interno dell'ente e che viene rinnovata ogni quattro anni (+ 4 di eventuale secondo mandato). Non è un compito facile perchè a questa figura, di professione scienziato e professore universitario, sono richieste anche competenze giuridiche e contabili, abilità manageriali ed organizzative, e, cosa ancora più difficile, di gestione del personale. Tutti quelli che non sono mai stati direttori sono pieni di grandi idee e dispensano saggi consigli su come opererebbero loro, su quanti adempimenti burocratici e assurdi si potrebbero eliminare, su come gestirebbero in modo snello ed efficace le risorse. Dopo trent'anni che lavoro per questa istituzione e sei direttori visti alla prova posso dire loro solo: “provare per credere”.
Analogamente temo che anche tutti quei bei volti nuovi che tentano di rinnovare la classe politica venendo dal nulla inevitabilmente una volta seduti sulla poltrona (soprattutto quella assai impegnativa di amministratore locale) si rendano presto conto che non è poi così banale cambiare le cose. Certamente il rinnovamento è necessario, nessuno lo nega e bisogna provarci, ma francamente diffido di chi si improvvisa in nome del “nuovo”.
Ci sono comunque esperimenti interessanti che varrebbe la pena di studiare. Come l'ormai stracitato Comune di Capannori, 46 mila abitanti (non proprio un comune piccolissimo), dove hanno messo su un bel meccanismo di consultazione dei cittadini sulle scelte di investimento del bilancio comunale 2012. Ne hanno parlato a Report e ne tratta anche quest'articolo di Altreconomia. Trovare un meccanismo equo ma snello per condividere delle scelte con una comunità è un compito arduo. Anche l'ex sindaco di Forlì racconta come su qualunque argomento ci siano tonnellate di pareri opposti persino a livello di caseggiato e lo sforzo di recuperare gli elementi dell'interesse pubblico è faticosissimo. Eppure Capannori sembra esserci riuscito, quindi qualche speranza c'è.