mercoledì 27 gennaio 2010

Metti un gancio nel tuo post

Ho riflettuto sul cruccio di alcuni amici blogger di ricevere pochi commenti e in particolare su Giulia che si dispiace quando le scrivono che i suoi post sono così belli e completi che non viene da aggiungere niente. Sono giunta alla conclusione che per stimolare uno scambio o un discussione sia necessario inserire nel post un qualcosa che faccia accendere nel lettore la voglia irresistibile di intervenire, che gli faccia "prudere le mani sulla tastiera", per usare la simpatica espressione di Dario. Questo qualcosa, secondo me dovrebbe appellarsi alla propria esperienza personale, al proprio gusto unico e particolare e dovrebbe essere anche qualcosa di immediato e di quotidiano.
Per esempio, se mi scappa di fare un post sul mio lavoro e mi metto a scrivere sulla contabilità degli enti pubblici potrei anche essere così brava da suscitare il vostro interesse (ce ne vuole, visto l'argomento) ma non credo che vi verrebbe da aggiungere altro (a meno che non facciate esattamente il mio stesso lavoro). Se invece, nel parlare del mio lavoro, racconto le mie imprecazioni perché il computer si è bloccato dandomi un messaggio di errore proprio mentre stavo terminando un compito lungo e delicato, è facile che ai lettori venga voglia di scrivere consigli su come rimediare o di raccontare analoghi episodi in cui hanno perso i dati, o del loro rapporto di odio/amore verso queste "macchine infernali" e così via.
Anche dal punto di vista della forma, ho notato che è utile inserire una domanda nel post che inviti a raccontare la propria esperienza. Più che un generico "voi cosa ne pensate?" è più efficace un "a voi è mai capitato?" oppure un "voi che fareste al posto mio?".
L'informatico di famiglia mi dice che si chiamano "hook" (ganci) quegli elementi che, in un programma già confezionato, permettono di agganciare in certi punti o una personalizzazione o un altro programma che faccia altre cose. Mi è piaciuta quest'idea del gancio e l'ho associata subito a quel qualcosa di un post che "faccia prudere le mani sulla tastiera".

domenica 24 gennaio 2010

Voglia di ossigeno

La lettura dei giornali (L'Unità e Il Fatto Quotidiano) del fine settimana è un momento di relax che in effetti durante i giorni feriali non riesco proprio a ritagliarmi. La sensazione che mi rimane però non è affatto rilassante, anzi, è sempre più demoralizzante. Da molto tempo infatti (lo avrete notato) non scrivo una riga sulle notizie di attualità e di politica. Non ce la faccio proprio. E' più forte di me. E' vero che certe vergogne vanno denunciate e non devono passare sotto silenzio. Ma a chi le denuncio? Ai miei amici lettori che sono già sensibili e sicuramente più informati di me? Lo trovo inutile.
Invece ho un disperato bisogno di scrivere cose positive, chiamiamole "buone notizie", "gocce nel mare", chiamatele come volete. Non si tratta di nascondere la testa sotto la sabbia. Si tratta di boccate di ossigeno prima di ritornare in apnea.

1) Su L'Unità di un paio di settimane fa Federica Fantozzi ha raccontato l'attività delle associazioni che fanno parte della rete Last Minute Market, ideata dieci anni fa dal professor Andrea Segré, preside della facoltà di Agraria dell'Università di Bologna. Il motto è "trasformare lo spreco in risorse". Ci sono gli addetti dell'Opera Pia di padre Marella che recuperano cibo vicino alla scadenza o con confezione danneggiata e lo portano alla mensa dei poveri, le Dame di San Vincenzo che danno agli indigenti gli avanzi delle mense scolastiche e delle caserme, la pasticceria Orsetti di Ferrara che alla fine della giornata mette a disposizione i dolci avanzati per gli extracomunitari e per il dormitorio comunale. Nel 2009 la rete di Last Minute Market (che funziona soprattutto in alcune regioni del Nord) ha salvato 890 tonnellate di cibo per un valore di 3 milioni di euro offrendo 1.800.000 pasti e contribuendo a risolvere il problema di smaltimento dei rifiuti per i fornitori e quello di indigenza dei fruitori (il tutto però solo se nel raggio di poche centinaia di metri per non creare ulteriore inquinamento). Io la trovo una grande iniziativa.

2) Nando Dalla Chiesa, uno dei miei punti di riferimento quando ho bisogno di storie di persone positive, su Il Fatto Quotidiano del 27 dicembre scorso racconta di una sua amica architetto, Donata Almici, che da direttrice della rivista dell'ordine aveva denunciato la corruzione e gli intrallazzi dei suoi colleghi lombardi e che da membro del consiglio di amministrazione dell'Accademia di Brera ha scovato favoritismi e poste di bilancio non spese. Sempre dello stesso autore su Il Fatto Quotidiano di oggi si racconta invece di Don Cosimo Scordato che nel quartiere degradato di Albergheria, centro storico di Palermo, da anni porta avanti un progetto contro la dispersione scolastica con ottimi risultati. Sono tanti i ragazzi che Don Cosimo è riuscito a far rimanere a scuola. Ha persino fatto laureare un gruppo di ragazzi del Congo.

3) Massimo Gramellini a Che tempo che fa sabato scorso ha raccontato invece di un tassista bengalese di New York che ha trovato una borsa con 21 mila dollari sulla sua auto e ha fatto ottanta chilometri per riportarla alla proprietaria tornandoci ben quattro volte prima di trovarla. La proprietaria, una pensionata italiana, ha offerto una ricompensa al giovane tassista ma egli ha rifiutato dicendo: "Quando avevo cinque anni la mia mamma mi ha detto: sii onesto, lavora sodo e salirai di livello." Lo so, sembra una storia di Natale ma a me fa un gran piacere sapere che esistano ragazzi così.

Buona settimana a tutti.

mercoledì 20 gennaio 2010

Bacheche che passione!

Chi ama la casa in ordine forse inorridirà, ma io adoro le bacheche. Mi piace attaccare sulla superficie di sughero con le puntine tutto quello che non devo perdere, che non deve finire sepolto da altri fogli sul tavolo o che deve ricordarmi di fare qualcosa. La lavagna bianca non mi piace sia perché sia mi ritrovo la polverina nera dei pennarelli dappertutto sia perché le calamite reggono male i fogli. Invece il sughero lo trovo più funzionale. Pensandoci mi rendo conto che ho piazzato bacheche di sughero un po' dappertutto: davanti alla porta di ingresso, in cucina (dove appendiamo anche un foglietto con la lista della spesa che stacchiamo quando ce n'è bisogno senza dover ricopiare), una sopra ciascuna delle scrivanie dei miei figli e di mio marito ed anche in ufficio alle mie spalle. Ci stanno attaccati avvisi di eventi a cui vorrei partecipare, gli orari di ricevimento dei professori, scontrini da conservare per breve tempo, bigliettini di auguri, bollette da pagare, cartoline e anche ricordi come il nastro con scritto "Ci sono anch'io", ricordo della manifestazione dei Girotondi a Piazza San Giovanni nel 2002.

Deve essere proprio una mia fissazione quella di coprire gli spazi verticali. Lo dimostra l'armadio nel mio ufficio che per me è una sorta di "altarino di ricordi confortanti". Da sinistra: le mie tessere di iscrizione all'ANPI, il volantino e un paio di foto della manifestazione della CGIL del 4 aprile scorso, la cartolina del Festival della Resistenza di Fosdinovo, il manifesto della giornata della memoria per le vittime di mafia, il ritratto del Granduca Leopoldo e un paio di disegni di quello spiritoso di mio figlio dove ci sta scritto "Lavora!" e "Se non lavori non campi!".

domenica 17 gennaio 2010

Nere prospettive

Sarà che questi mesi per me sono i peggiori dell'anno. Vivo come in letargo (soffro il freddo, ho le mani e i piedi pieni di geloni, una macchia sopra la mia palpebra segnala che avrei bisogno di sole, ho voglia di aria tiepida, di brezza piacevole, di natura che rinasce). Sarà forse questa mia avversione per l'inverno che mi fa essere particolarmente pessimista. Certo, motivi per vedere nero ce ne sono a bizzeffe leggendo i giornali. Personalmente continuo a ritenermi fortunata e sento che non ho nessun diritto di lamentarmi. Però penso ai miei figli e so che per loro il futuro non sarà facile.
Non sono la sola a nutrire questi timori. In una puntata di Fahrenheit Radio3 che ho sentito qualche tempo fa discutevano sui dati del X Rapporto Eurispes-Telefono Azzurro sull'infanzia e sull'adolescenza: su 1090 bambini tra i 7 e gli 11 anni il 45,4% ritiene che sia molto difficile laurearsi e il 74 % abbastanza o molto difficile trovare un lavoro. Ancora più impressionanti sono le risposte degli adolescenti: su 1374 intervistati tra i 12 e i 19 anni solo il 54,9% esprime il desiderio di laurearsi. C'è da meravigliarsi di questa sfiducia nel futuro e nell'utilità di acquisire delle competenze? E' ovvio che i ragazzi riflettono le ansie adulte ma come dar loro torto? Come nascondere loro che oggi la competizione è più acuta rispetto al passato perché le occasioni sono sempre più ridotte?
Soprattutto manca una prospettiva a largo raggio, una progettualità. La nostra classe dirigente ha perso capacità di progettare e quindi di costruire il futuro. Siamo come consegnati ad un enorme presente.
Allora penso ai miei genitori. Quando ero piccola lo stipendio di operaio di mio padre era l'unica entrata della famiglia e i miei avevano difficoltà a pagare l'affitto finché, piano piano, con sacrificio, riuscirono a comprarsi la casa. Sognavano per me un diploma, un posto impiegatizio possibilmente pubblico, una famiglia e una casa di proprietà. Ho esaudito tutti questi loro desideri. E per i giovani di oggi? Pare che la speranza di una modalità ascendente sia rimasta fino agli anni Settanta mentre successivamente è subentrato sempre più un grande senso di delusione ed incertezza.
Persino per quanto riguarda la sfera privata, il rapporto rileva che il 60% dei bambini pensa che sia molto o abbastanza difficile sposarsi.
Interessanti anche i risultati del rapporto per quanto riguarda i modelli: il 27% dei bambini e il 38% degli adolescenti dichiara di non voler assomigliare a nessun personaggio noto (i modelli più indicati sono Valentino Rossi per i maschi e Belen Rodriguez per le femmine, rincuorante che Fabrizio Corona si fermi al solo 2% battuto dal 3,2% della Rita Levi Montalcini).

venerdì 15 gennaio 2010

Angela esiste

Non sono brava a trovare belle parole di circostanza.
Per questo mi viene solo da scrivere:

Ci mancherai, Angela.

giovedì 14 gennaio 2010

Lasciare tracce di noi

E' dura accettare che di noi non rimarrà nulla dopo che saranno morti anche quelli che ci hanno conosciuto e voluto bene. E' grande la tentazione per la persona comune, di cui la storia non parlerà né in bene né in male, di lasciare una qualche traccia del proprio passaggio: un diario, delle immagini, dei filmati, brani della propria voce.
Ecco che internet e la tecnologia in genere vengono incontro al desiderio, non nuovo ma sempre più crescente, di archiviare la nostra vita.
Questo l'argomento di un'interessante puntata di Fahrenheit Radio3 che ha visto ospiti Maurizio Ferraris, professore di filosofia a Torino e autore di "Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce", e Giacomo Papi, che fa parte dello splendido progetto della "Banca della memoria" (i ragazzi che vanno in giro per l'Italia a raccogliere i ricordi di persone anziane perché non si perdano).
In effetti la tecnologia oggi permette di registrare e archiviare una marea di dati, dalle email, agli SMS, alle foto, ai video, ecc. senza più problemi di spazio o di peso ed in modo sempre più alla portata di tutti.
Ho scoperto che esiste persino un progetto un po' folle, che si chiama MyLifeBits con il quale Gordon Bell, ricercatore della Microsoft, si propone di registrare ogni istante (ogni bit) della propria vita.
Questa facilità tecnologica di archiviazione però presenta degli inconvenienti.
Innanzitutto può "prendere la mano" e renderci incapaci di vivere la vita che ci passa sotto il naso. Vengono in mente quelli che fotografano o riprendono qualsiasi cosa, dallo spettacolino dei figli ai viaggi, come presi da una frenesia di accumulo, come se il presente fosse già subito passato, un qualcosa da archiviare o al massimo da rivedere in salotto. Devo dire che questo pericolo lo avverto anch'io durante i miei viaggi. Pur non essendo una fotografa particolarmente raffinata, talvolta sento che la mia preoccupazione di fronte a un bel paesaggio o a qualunque cosa mi provochi un'emozione sia come "catturarla" con la macchina fotografica dimenticandomi di viverla a pieno. Allora mi fermo e mi impongo di non pensare alla foto da fare.
Ma il pericolo principale della memoria archiviata digitalmente è la sua fragilità: poichè la tecnologia evolve velocissima, i supporti su cui è registrata la memoria sono presto obsoleti e vanno continuamente convertiti. Cosa sarebbe stato dei manoscritti di Aristotele, che sono stati chiusi per secoli in un forziere, se fossero stati su floppy? Non si può certo pretendere che i nostri nipoti facciano la manutenzione dei nostri "archivi" trasferendoli dalle audiocassette o dai VHS ai DVD e così via.
Ed anche queste nostre righe che affidiamo alla rete quanto sopravviveranno? E chi ci garantisce che i nostri provider conserveranno queste (per noi) preziosissime tracce (vero Unodicinque?)? E il racconto che avevo scritto con il computer ventanni or sono che conservo salvato su un floppy da 5 pollici e un quarto? L'umanità potrà sicuramente sopravvivere senza quest'opera della mia fantasia, però mi piacerebbe davvero rileggerlo, visto che ogni traccia di esso, ahimè, è stata cancellata nell'hard disk del mio cervello.


Aggiornamento del 26 gennaio: ho scoperto che un mio collega conservava ancora un PC con un lettore di floppy grandi e cosi' mi ha recuperato il racconto. Che delusione! Il tema erano le sofferenze che stavo attraversando in ufficio in quel periodo.

lunedì 11 gennaio 2010

Tre anni di post

Domenica pomeriggio. Sullo sfondo le urla dei miei figli che assistono alla partita della Fiorentina, il tempo bigio (per fortuna almeno non piove che già sta filtrando acqua dal tetto della mansarda!), sono seduta al solito nella poltrona Ikea (ops, non si fa pubblicità gratuita!) con il vecchio portatile e preparo quelle due o tre bozze di post che mi fanno affrontare con meno ansia la settimana (tanto lo so che i giorni di lavoro non ho tempo e non ho testa e quindi è meglio avere una scortina). Così sfogliando i quattrocento e passa post che contiene questo blog mi accorgo che sono passati già tre anni dal primo.
Questa scoperta mi suscita sensazioni varie:
a) soddisfazione perché non avrei mai scommesso di durare tre anni e, visto quanti amici blogger partiti in quarta, si son stufati o demoralizzati, provo una puntina di orgoglio per il mio piccolo traguardo;
b) senso di impreparazione perché avrei dovuto pensare per tempo a un post adatto all'occasione (che ne so, un bilancio dell'esperienza, ringraziamenti vari, propositi, ecc.) ed invece niente;
c) lieve autocompiacimento come sempre quando mi sorprendo "approssimativa", io, che c'ho sempre 'sto super-io che mi impone di essere metodica, efficientina e rigorosa, sulle ricorrenze invece mi sento libera. In effetti non mi appassiona il fatto che il contatore dei post abbia superato i 100, i 200, ecc., perché il numero non conta un bel niente, così come non mi ricordo nemmeno il giorno del mio matrimonio, così come non festeggio il mio compleanno (se non fosse che essendo Natale i miei me lo ricordano) e poco anche quello dei miei familiari, meno che mai l'inizio di un nuovo anno di cui proprio non me ne importa nulla. Insomma non sento il "dovere" delle ricorrenze e devo dire che mi sento molto leggera per questo.
Quindi per una volta non ho preparato il "compitino" da brava secchiona e ho scritto questo post a briglia sciolta solo per dire: beh sono tre anni che sono qui.

sabato 9 gennaio 2010

Controcommentando

Un dubbio assilla l'anima del blogger (sicuramente del neoblogger ma anche di chi ha una qualche esperienza con l'oggetto in questione): è doveroso, auspicabile o superfluo rispondere ai commenti?
Tutti gli ambienti, fisici o virtuali, hanno le loro convenzioni, le loro leggi non scritte. Quando ci entri non le sai e spesso nessuno te le insegna. Le impari piano piano, anche facendo gaffe.
Io però ancora non l'ho capito se si debba rispondere o no ai commenti e, osservando i blog degli altri, noto che anche qui ci sono i comportamenti più vari che spesso riflettono il carattere del blogger.
Ci sono gli "scrupolosi" i quali, ne puoi star certo, anche se lasci loro un "Ciao!", ti risponderanno con un saluto. Numerosi sono invece i "farfalloni" che volano di blog in blog, lasciano la loro traccia ma, ci puoi scommettere, non ripasseranno di lì neanche se hanno lasciato un punto di domanda (e la risposta non la leggi?).
Infine ci sono quelli che "dipende": se l'argomento è per loro stimolante si abbonano anche al post in modo da ricevere tutti i commenti e continuare così il dialogo o la discussione. Devo dire che questi sono la mia passione perché il dialogo mi diverte. E' anche vero che il blog non è un forum e quindi, forse, non è lo strumento adatto per le discussioni.
Per quanto mi riguarda, la mia indole personale mi suggeriva di rispondere sempre e comunque ai commenti perché lo ritenevo "buona creanza". In effetti mi fanno un po' tristezza i commenti che rimangono lì, sospesi nel vuoto, circondati dal silenzio. Con il tempo però ho notato che ben pochi lo fanno e, dall'altra parte, ben pochi ripassano a leggere le risposte. E' anche vero che non tutti i commentatori si aspettano una risposta. Spesso i commenti sono visti dal loro autore come una semplice traccia di passaggio per farti sapere che hanno letto e che ti seguono sempre (e infatti fa sempre piacere). Per questo mi sono sentita di rassicurare una mia amica blogger che qualche tempo fa si disperava di non riuscire a rispondere a tutti i commenti. "Non è mica obbligatorio", le ho scritto.
Così anch'io mi sono adeguata alla maggioranza e vado un po' sull'impulso del momento. Talvolta rispondo, talvolta no, talvolta aspetto e rispondo con un unico controcommento a più interlocutori. Mi capita quindi, contro il mio carattere metodico, di essere discontinua e dispersiva. Spero mi perdonerete.
Infatti mi scuso una volta per tutte con gli amici che non hanno avuto la risposta che si aspettavano, così come con quelli che mi hanno lasciato qualche risposta sul loro blog che io non ho avuto l'accortezza di leggere (per inciso: come si fa ad abbonarsi sulle piattaforme diverse da Blogger senza registrarsi?).
Sull'arte del commento, facendo una rapida ricerca, ho trovato una miriade di post che danno suggerimenti e consigli, ma io preferisco questo bel post di Marina.

mercoledì 6 gennaio 2010

Che me ne faccio del latino?

"Che me ne faccio del latino, se devo dire pane al pane, vino al vino?" Così cantava Gianni Morandi in una canzone di tanti anni fa citata in apertura della puntata di Fahrenheit Radio3 nella quale Carlo Bernardini, fisico di fama mondiale, e Carlo Carena, docente di Letteratura Latina, sono stati chiamati a dare il loro parere sull'utilità dello studio del latino oggi.
Lo spunto è dato dalla notizia che in Gran Bretagna, dopo oltre 40 anni, propongono di inserire il latino addirittura nelle scuole elementari perché ritenuto un ottimo modo per introdurre i bambini alle lingue straniere.
Il latino serve? Serve per imparare altre lingue moderne? E' il caso di mantenerlo obbligatorio nelle scuole?
Il professor Carena, che pure lo insegna, ritiene non si può imporre lo studio di questa lingua a tutti i giovani e chiedere loro di sacrificare molte ore (pare siano 2000 al liceo classico) per acquisire quella forma mentale che è ad essa collegata, avendo altre cose che fruttano altrettanto come apprendimenti (fisica, geometria, filosofia, letteratura).
Il latinista è d'accordo sul fatto che i valori intrinsechi nella cultura classica sono fondamentali del consorzio civile umano, ma secondo lui si possono acquisire tranquillamente con una bella traduzione. Piuttosto lamenta la mancanza di confidenza degli studenti verso l'Italiano più che verso il latino.
Carlo Bernardini, che in un articolo ha chiamato lo studio delle lingue classiche "gioielli ereditari", ritiene la fissazione per esse "una stranezza della cultura dominante dell'alta borghesia che vedeva nel latino una tratto distintivo di appartenenza sociale". Il fisico propone che il latino sia lasciato opzionale mentre sia curata di più la preparazione scientifica che attualmente è molto carente. Bernardini trova, per esempio, che sia un dramma che la maggior parte degli Italiani non sappia cosa ha scritto Galileo, sia per la lingua che per il contenuto.
Questo argomento è di particolare attualità in casa mia in quanto nei prossimi mesi dobbiamo iscrivere mio figlio minore alla scuola superiore. Mio figlio è orientato per iscriversi allo stesso liceo scientifico del fratello ma è attratto dal nuovo indirizzo (o meglio dalla nebulosa "opzione", da attivarsi senza oneri ulteriori per lo Stato) "tecnologico" dove, a fianco di un maggior numero di ore di materie scientifiche, viene tolto il latino e diminuite le ore di altre materie umanistiche.
Voi che ne pensate?

Consiglio anche l'articolo Vivalascuola. A cosa serve il latino?

venerdì 1 gennaio 2010

Inaridendo

Non è che starò diventando cinica e arida? Perché, per esempio, finisco per prediligere i documentari e i saggi e non riesco più ad immergermi in una storia di fantasia? Perché non riesco a guardare un film o leggere un romanzo senza immaginare il regista o l'autore che stanno cercando di farmi vivere quelle specifiche emozioni costruite appositamente? Perché mi scopro a cogliere subito il filo di retorica in cui è facile, anche in buona fede, cadere esponendo un pensiero? Perché non riesco ad apprezzare la poesia?
Sono un po' preoccupata. Io, che quando ero ragazza mi facevo tante di quelle seghe mentali, forse sono stata contagiata da ventisette anni di lavoro in un ente di ricerca dove si riporta tutti ai numeri. Forse ho assorbito per osmosi il razionalismo e lo scetticismo del mio compagno di vita.
Sono sempre stata curiosa di ascoltare chi ha qualcosa da dire, che sia un giornalista, uno scrittore, un intellettuale o una persona comune. Mi capita però sempre più spesso di provare insofferenza quando sento che il discorso va per le lunghe o che si ripetono gli stessi concetti più di una volta. Sento come se il relatore mi stia rubando il tempo, il bene più prezioso che ho, e mi scopro a pensare: "Sì, e allora?" "Stringi stringi, cosa ci vuoi comunicare?" "Su, arriviamo al punto!". Talvolta scatta un'antipatica e involontaria vocina dentro di me che sentenzia: "Ma qui si sta parlando del nulla!".
Sarà l'età che avanza a rendermi più scafata? Forse, ma la cosa mi dispiace un po'.