giovedì 28 giugno 2012

Le "ciliege" e il burocrate

Una delle (tante) cose che mi piacerebbe studiare e approfondire è la linguistica. Il bello della lingua italiana (come di tutte le altre) è il fatto di essere una creatura viva, che cambia, si trasforma, si adatta. Capita così che certe regole che noi di una certà età abbiamo faticosamente imparato a scuola, oggi le troviamo, con nostro stupore e un pizzico di disappunto, non più tassative.
Il tipico esempio è contenuto nel titolo del libro "Ciliegie o ciliege?" presentato a Fahrenheit Radio 3 dall'autrice Valeria Della Valle. Dei 2046 dubbi che la linguista, insieme a Giuseppe Patota, aiuta a sciogliere intanto ho scoperto che le due forme del titolo si possono usare entrambi anche se la tradizione voleva corretta solo la prima (come io sapevo). La professoressa Della Valle non è preoccupata dall'influenza dei nuovi mezzi di comunicazione sull'Italiano (come l'affermarsi del "pò" negli SMS invece della forma con l'apostrofo) perchè comunque hanno il vantaggio di costringere a scrivere qualcosa anche chi sarebbe restìo a prendere in mano una penna ed un foglio.Se c'è invece una lingua che sembra rimanere immutabile è quella del burocratichese, oggetto di un'altra puntata di Fahrenheit con ospiti Anna Maria Testa e Angela Frati, ricercatrice che, insieme a Stefania Iannizzotto, sta scrivendo un vademecum per semplificare il linguaggio della pubblica amministrazione.
Tentativi che io trovo benemeriti in quanto usare un linguaggio comprensibile anche al cittadino di bassa cultura è una questione di democrazia. Un linguaggio incomprensibile e vessatorio impedisce di far valere i propri diritti fino in fondo o per lo meno costringe a trovare il tempo e la fatica per decodificarlo.
Perché si continua a trovare espressioni come "Atteso che allo stato non risultano circostanze ostative al prosieguo del previsto iter procedurale tendente all'accoglimento dell'istanza ...” quando si potrebbe rendere perfettamente l'idea con un “non essendoci impedimenti si può accettare la domanda”? Tanto per citare uno dei numerosi esempi portati in puntanta. Lo spiega bene Anna Maria Testa quando racconta che, durante un corso per magistrati, erano proprio i giovani procuratori a fare resistenza verso una semplificazione del linguaggio affermando che per essi, magari di umili origini, l'acquisizione di un linguaggio complesso pieno di tecnicismi giuridici era stata una tale conquista sociale che non avevano nessuna intenzione di rinunciarvi. Così come ad un corso per sindacalisti, gli interessati affermavano di averci messo anni ad imparare come dovevano esprimersi e quindi non erano affatto favorevoli ad una semplificazione. Ciò conferma la mia tesi espressa in questo vecchio post.
Senza contare che usare un linguaggio volutamente oscuro serve anche per affermare il proprio potere di burocrate ed allontanare, mediante l'incomprensione, eventuali discussioni. Per esempio, dietro la forma impersonale come "E' opportuno che venga attuato..." si nasconde facilmente la responsabilità di chi deve attuare la cosa.
E pensare che già nel 1940 Whiston Churchill aveva raccomandato: "Chiedo ai miei colleghi ed al loro personale di scrivere testi più brevi che espongano i punti principali in una sequenza di paragrafi brevi e incisivi. E' ora di mettere fine a frasi come queste: 'E' altresì di estrema importanza tenere presenti le seguenti considerazioni' oppure 'Dovrebbe essere presa in considerazione la possibilità di porre in essere'. La maggior parte di queste frasi fumose non sono che vuota verbosità.“

lunedì 25 giugno 2012

Amare quel che si fa

Qualche giorno fa', recandomi alla mia periodica donazione di sangue, ho notato con un po' di tristezza l'atteggiamento poco attento e irritato degli operatori del centro sangue i quali, durante i trent'anni nei quali ho frequentato quel luogo, mi avevano sempre colpito per la loro cortesia, scrupolosità e capacità di accoglienza. Al bar dell'ospedale dove mi sono recata poi per fare colazione la scortesia e la sciatteria erano ancora più evidenti. Ma perché la gente non ha amore per quello che fa? Capisco che per molti (anche per me) il lavoro che ci si trova a fare non sia il massimo, probabilmente è un ripiego, magari avremmo altri centomila migliori sogni. In ogni caso quello che si fa parla di noi, è nostro malgrado “una nostra creatura” e dovremmo metterci quel minimo di cura e di attenzione che mettiamo per il nostro aspetto, per la nostra casa e così via.
A tale proposito mi è venuta in mente un'intervista rilasciata a Fahrenheit Radio 3 da Luigino Bruni, professore di Etica e Filosofia dell'Economia all'Università di Milano Bicocca ed autore di "Le nuove virtù del mercato".
Non si può non essere d'accordo con il professor Bruni quando dice che nella società contemporanea l'asse della dialettica sociale non è più il conflitto imprenditore-lavoratori ma quello fra rendite e mondo dell'impresa e che i grandi flussi di ricchezza non sono dentro le fabbriche ma fuori. Pertanto bisognerebbe smettere di guardare il mondo con gli occhi del Ventesimo secolo e pensare che rendendo più flessibile il mercato del lavoro, più facile il licenziamento, si riporterebbero in Italia i grandi capitali. La finanza speculativa infatti, a differenza dell'imprenditore, tratta il lavoratore solo come un costo e non come un investimento e quindi, mossa dall'idea del massimo profitto, troverà sempre un posto dove il lavoro è meno protetto.
Mi convince un po' meno Luigino Bruni quando, rifacendosi alla corrente della cosiddetta Economia Civile, afferma che è necessario riscoprire e mostrare che il principio economico del mercato non è l'interesse personale ma il reciproco vantaggio. Mentre la finanza speculativa ha trasformato il mercato in un gioco a somma zero, una specie di poker dove uno vince e l'altro perde e la somma algebrica delle fiche è zero, in uno scambio di mercato normale entrambi soggetti ne escono con un vantaggio. Mi sembra di aver capito che la svolta nel pensiero economico sia avvenuta a metà Ottocento in quando i grandi economisti napoletani del Settecento, come Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri, per esempio, affermavano che "il mercato è mutua assistenza, non egoismo personale."
Ma quello che mi è piaciuto di più dell'intervista al professor Bruni e che riporta alla mia riflessione dell'inizio, è la necessità di tornare all'etica del lavoro. Secondo l'economista infatti gli esseri umani hanno nella loro natura il bisogno di dare un senso a quello che fanno, il lavoro è molto di più di un mezzo per vivere ed in esso c'è tanta “gratuità”. Per “gratuità nel lavoro” Bruni intende il concetto di far bene un lavoro al di là di quanto esso è remunerato. Come Primo Levi racconta che anche nel lager il muratore, pur odiando i nazisti, costruisce dritto il suo muro «Non per obbedienza ma per dignità professionale», così la giustificazione di un lavoro ben fatto deve essere dentro la pratica di quella professione. Gli economisti anglosassoni del Novecento hanno invece introdotto la pratica dell'incentivo, cioè “lavoro perché e quanto sono pagato e lavoro male se sono pagato poco e non controllato”. Il pagamento invece è sicuramente un riconoscimento importante ed essenziale ma non la motivazione.
Ecco perché, a mio avviso, anche il barista che prepara il millesimo caffè della giornata dovrebbe metterci un briciolino d'amore altrimenti non si capisce cosa lo distingua dal distributore automatico di caffè.

sabato 23 giugno 2012

Ezio, macchinista ferroviere

Un mondo che non c'è più quello descritto da Ezio Gallori, macchinista ferroviere, sindacalista, insignito dal Presidente della Repubblica come Stella al merito come Maestro del lavoro, nell'intervista rilasciata a Controradio.
Nel dopoguerra di piena espansione per le FS, grazie anche al passaggio dal vapore all'elettrico, quasi tutta la classe di Ezio, alunni dell'Istituto Tecnico Industriale preparati appositamente per fare i macchinisti, fu assunta in ferrovia. I ferrovieri arrivarono ad essere 225 mila ed oggi sono 70 mila. La ferrovia trasportava il 36% delle merci italiane e nel solo deposito di Firenze vi erano ben 440 macchinisti addetti al trasporto merci. Oggi non si trasporta quasi più nulla come merci. Nel 1964 le FS sfiorarono il pareggio di bilancio mentre oggi, nonostante cospicue sovvenzioni da parte delle Regioni, Trenitalia SpA ha in attivo solo la Freccia Rossa (ma il Gallori ne dubita).
"A quel tempo i pendolari la mattina alle otto avevano la precedenza sui Rapidi e i Direttissimi. Oggi conviene quasi sempre prendere l'auto rispetto alla Freccia Rossa" dice l'ex ferroviere.
Un mondo da sempre antifascista e di sinistra quello delle ferrovie, penso a Spartaco Lavagnini ed anche al presidente della mia sezione dell'ANPI, Alfio Tabani, il quale ogni tanto ama raccontarmi del boicottaggio che subì in occasione del concorso interno o dell'assegnazione della casa da parte delle FS. Un ambiente ultrasindacalizzato come mi dipingeva mio padre e come conferma il buon Gallori in questa intervista quando racconta che lo sciopero politico del 10 luglio 1960 contro il governo Tambroni ebbe un'adesione del 98%. "Quando fui assunto conobbi gente che aveva dei valori immensi, gente che era orgogliosa di essere stata punita per aver scioperato come accadeva ai tempi di Scelba"
Un mondo che non esiste più anche come attenzione alla sicurezza che veniva sopra a tutto. Gallori racconta infatti che dal 1957 al 1985, il periodo in cui lavorò, si registrarono solo 7 macchinisti morti, mentre dal 1985 al 2005 furono ben 54. Prima si puntava alla sicurezza assoluta (ai concorsi non si poteva sbagliare una domanda sulla sicurezza) mentre da quando le FS sono diventate "S.p.A." il confronto costi/benefici può far mettere in conto anche qualche morto se ciò porta a risparmiare.
Ezio Gallori, classe 1938, nomina suoi maestri macchinisti figure storiche come Augusto Castrucci, espulso dalle ferrovie da Benito Mussolini e ripresentatosi subito dopo l'Armistizio al Ministro affermando: "Le ferrovie sono nostre e da oggi le gestiamo noi", e Vasco Palazzeschi, primo segretario della Camera del Lavoro di Firenze. Racconta anche di quando Mauro Moretti era sindacalista delle FS e di come la controparte tentava di superare le trattative da un lato con minacce ma molto spesso con tentativi di corruzione ("Molti sindacalisti furono ripagati con case"). Racconta di lotte importanti e dei suoi diciotto processi subiti per le più svariate ragioni, anche sul diritto di sciopero, dai quali è uscito sempre assolto per aver esercitato un diritto costituzionale. Come quando lo incriminarono per aver denunciato, agli inizi degli anni Novanta, l'acquisto da parte di FS di locomotive assolutamente inutili perché incompatibili con l'impianto elettrico esistente (costo 125 miliardi di lire).
"Bastano cento milioni per sospendere questo sciopero?" gli chiesero una volta e, al suo rifiuto, uno degli interlocutori fece all'altro: "Vedi, come ti avevo detto, è delle Brigate Rosse" "No," rispose Ezio, "sono di un'altra brigata, molto rara, quella dell'onestà."
Ezio Gallori ha sempre goduto di grande consenso tra i lavoratori: "Non credo nelle lotte minoritarie. Gli scioperi, quando si fanno, si devono fare tutti uniti. L'unità è essenziale. Il più coraggioso è quello che fa un passo indietro ma riesce a fronteggiare l'avversario."
E conclude con tutta la sua simpatia: "Viaggio sempre con il cappellino e il fischietto per le manifestazioni. Sono diventato un manifestante continuo. Vorrei che i giovani di oggi, allevati a televisione, capissero che ci sono anche dei valori con i quali ad una certa età devi fare i conti."
Un mondo che non esiste più quello di Ezio.

mercoledì 20 giugno 2012

In gita con i compagni dell'ANPI

Qualche altra piccola sensazione dalla gita di domenica scorsa a Marzabotto, organizzata da una sezione dell'ANPI ben più attiva della mia. Età dei miei compagni di viaggio: dai sedici agli oltre ottanta anni.
Il trentenne con scritto "ala sinistra" sulla maglietta continuava a proclamarsi "comunista e basta", che per lui il PD è di destra e nei partiti non ci crede più. Il liceale dagli occhioni dolci si legge per la gran parte del tempo il suo giornale sportivo. Il signore di mezza età con i baffetti invece ce l'ha a morte con il Renzi. La timida signora anziana di Forlì si scusa quando gli suona il cellulare e sente di doversi giustificare dicendo: "Mio figlio lavora con i telefoni."
Serena*, dal sorriso dolcissimo e solare, ha ventun'anni ma ne dimostra quindici. Studia da due anni infermieristica e "le piace tantissimo".
Ed infine Mario*, dalla chiacchiera infinita almeno quanto la sua simpatia. "Io sono marsista", ci dice e ci racconta di quando, il 18 aprile 1948, a tredici anni, smise di fare il chierichetto dopo un'omelia del prete che sembrava più un comizio ("il rosso è il colore del male, il bianco quello della purezza"). Mario che si dichiara fortunato perchè "ha la sua pensione di 750 Euro al mese." "Ma come fortunato, Mario?!" "Ma certo! A me basta. La casa è mia, ho il mio amato orto dove vado tutti i giorni. Che posso volere di più!"
Mario che invita il senegalese Mustafà a pranzo e lo interroga sulla sua fede islamica. "Gli ho detto: sai che la religione è l'oppio dei popoli? E lui mi ha chiesto 'che cosa è l'oppio?' Avrei voluto mettergli davanti tutti i volumi de Il Capitale, ma ho pensato che era meglio lasciarlo mangiare in pace." Troppo forte, Mario, che tiene per mano la sua timidissa compagna!
"Mi piace parlare con gli estranei" mi dice la mia amica R. mentre torniamo a casa. Anche a me, anzi, più altro mi piace conoscere le persone, specialmente quelle più semplici, quelle più vere come questi compagni dell'ANPI.

* i nomi sono di fantasia

lunedì 18 giugno 2012

Ma che bella festa! Ho pianto così tanto!

"Fare terra bruciata di questo territorio". Solo visitando il Parco Storico di Monte Sole e grazie soprattutto all'esauriente, chiaro e coinvolgente racconto del signor Pampaloni ho capito il significato dell'ordine eseguito con teutonica crudeltà dal 16esimo battaglione delle SS comandato dallo spietato Walter Reder alla fine di settembre del 1944. Non c'è paese dell'Appennino Tosco-Emiliano che non ricordi il suo eccidio nazista, come quello di San Terenzo Monti che ben conosco, ma sull'Altopiano di Monte Sole, in quel territorio che va dalla valle del Setta alla valle del Reno, tra i comuni di Monzuno, Grizzana e Marzabotto, non solo furono uccisi 770 civili inermi, sacerdoti, vecchi, donne, bambini e disabili, ma furono anche distrutte tutte le case, le chiese ed altri edifici, uccisi gli animali e minato campi e boschi perchè fosse letale anche tornare, dopo i lunghi mesi dell'inverno 1944, a recuperare i poveri resti. Nessuno dei pochi superstiti ebbe più il coraggio di vivere in queste frazioni che infatti oggi costituiscono un parco, tanto bello naturalisticamente, quanto agghiacciante dal punto di vista delle rovine rimaste, ma sicuramente da visitare.
Anche la testimonianza della signora Anna Rosa Nannetti, una dei pochi bambini sopravvissuti, ci ha fatto chiudere lo stomaco. "Pensavamo ingenuamente che in guerra i civili venissero uccisi solo per rappresaglia, che venissero risparmiate le chiese, i parroci, le donne e i bambini. Ed invece niente di tutto ciò fu rispettato." Interessante anche il suo racconto del dopo strage: il destino di quello sparuto gruppo di bambini superstiti che, a guerra finita non avendo mezzi di sostentamento, furono accolti con grande generosità da tante famiglie dell'Emilia Romagna. Solo così "i bambini della montagna" che avevano conosciuto solo i propri familiari e i vicini "buoni" mentre tutti gli altri adulti del mondo erano "cattivi", appresero dell'esistenza di altri "grandi buoni".
E come non condividere le lacrime dell'anziana volontaria che ci ha accolto ringraziandoci cento volte al Sacrario di Marzabotto: "Non farò più questo servizio perchè invecchiando si diventa troppo fragili emotivamente e questo non va bene."
Ed infine grande chiusura della Festa Nazionale dell'ANPI con un travolgente, nonostante gli anni e la temperatura torrida, presidente Smuraglia. Ma sì, facciamoci anche questo piantino cantando tutti insieme, giovani e vecchi, il nostro "Bella Ciao" conclusivo.
Che bella festa! Ho pianto così tanto!


Qui qualche foto della giornata.

sabato 16 giugno 2012

Quei cinque ragazzi fucilati al Campo di Marte


Cinque ragazzi di poco più di vent'anni. Cinque giovani di campagna che di politica non si erano mai occupati. Semplicemente non volevano arruolarsi nell'esercito della nuova Repubblica Sociale Italiana. Chi aveva la mamma gravemente ammalata e voleva restarle accanto. Chi semplicemente di guerra non ne voleva sapere.
Fucilati davanti ad una schiera di reclute terrorizzate e davanti agli abitanti del Campo di Marte trascinati a forza a vedere lo spettacolo terribile del plotone che non voleva sparare e dei cinque disgraziati che urlavano disperati "Mamma! Mamma!". Due di loro non morirono subito e le loro urla di dolore furono fatte cessare dallo spietato torturatore fascista Mario Carità.
L'ultima notte e l'esecuzione di Guido Targetti, Antonio Raddi, Leandro Corona, Ottorino Quiti e Adriano Santoni è ben raccontata di questo articolo di Patria Indipendente.
Pur avendo frequentato tante volte lo Stadio Comunale di Firenze non avevo mai notato il sacrario che ricorda il luogo ove avvenne la fucilazione e dove ho fatto servizio di piantonamento per conto dell'ANPI in occasione del concerto di Madonna. I fan in coda sotto il sole di tanto in tanto gettavano sguardi incuriositi verso questo luogo senza avere il coraggio di varcarne il cancello. Così mi sono avvicinata ed ho chiesto loro se volevano sapere il motivo di questo monumento. Qualcuno mi ha guardato con aria ebete ma altri hanno provato curiosità e alla fine del mio brevissimo racconto hanno preso volentieri l'opuscolo che avevamo in distribuzione: due ragazze romagnole, un ragazzo brasiliano, che ha fatto il parallelo con i loro anni di dittatura, e uno fiorentino che mi ha persino chiesto informazioni sull'ANPI.
Piccoli semini gettati perché non si perda la memoria di cinque ragazzi di innocenti uccisi ingiustamente.

mercoledì 13 giugno 2012

I Borboni questi sconosciuti

Il 10 maggio 1734 Carlo di Borbone, giovanissimo principe figlio del Re di Spagna e dell'italiana Elisabetta Farnese, entra trionfante a Napoli e diventa Re di Napoli e di Sicilia. Inizia così la storia dei Borboni nell'Italia del Sud, raccontata da Gianni Oliva, studioso del Novecento, nel libro "Un regno che è stato grande. La storia negata dei Borboni di Napoli e Sicilia."
Molto interessante l'intervista che Gianni Oliva ha rilasciato a Fahrenheit Radio 3 in quanto mira a farci capire cosa è successo nell'Italia meridionale senza aderire né da un lato alla lettura "piemontese" dei vincitori, che vedeva nel Mezzogiorno solo oscurantismo, arretratezza economica, superstizione, ecc., né a quella recente neoborbonica che è troppo rancorosa. Oliva cerca di illustrare sia le luci che le ombre dei quasi 130 anni di regno borbonico.
Dopo secoli di dominazione straniera con i baroni locali che avevano carta bianca sul territorio in cambio di pace sociale, con Carlo Borbone appunto il Mezzogiorno diventò un regno autonomo, con un potere monarchico centrale che si affermò sul particolarismo feudale e sull'anarchia dei municipalismi, con uno sforzo di centralizzazione che vuol dire regole uguali per tutti e giurisdizione unica. Carlo cercò di trasformare Napoli in una grande capitale europea rilanciando la cultura, le arti ed anche l'economia (nel 1754 a Napoli si aprì la prima cattedra di Economia e Commercio al mondo) e costruendo strade e porti.
Il rilancio economico e culturale formò una nuova classe media che inevitabilmente reclamò diritti e che fu la protagonista della Repubblica Partenopea del 1799. Quest'ultima fallì sia perché gli intellettuali che la guidavano non erano capiti dal popolo (discutevano di costituzione e di libertà di stampa mentre i contadini bramavano terra) sia perché osteggiati dagli Inglesi che appoggiarono il Borbone di turno, quel Ferdinando marito di Maria Carolina, sorella della Maria Antonietta ghigliottinata in Francia, con successiva feroce repressione seguita da decenni di ristagno.
Nel 1830 con il ventenne Ferdinando II si aprì un nuovo periodo di prosperità e di progresso (si pensi alla Napoli-Portici, prima ferrovia italiana) bruscamente fermato però con i moti del 1848 quando la borghesia tentò ancora di affermarsi. L'errore cruciale dei Borboni, secondo Gianni Oliva, fu proprio quello di rispondere con la difesa dell'assolutismo monarchico al contrario di quello che accadde invece a Torino con Carlo Alberto, chiusura e repressione al posto di Statuto e alleanza con la classe media. Ecco perché la classe dirigente risorgimentale nazionale (proveniente da ogni parte di Italia) si formò a Torino mentre Napoli vide un impoverimento delle teste migliori del mezzogiorno.
L'analisi di Gianni Oliva conduce quindi fino all'oggi: quando l'unità d'Italia si è realizzata il Mezzogiorno non aveva assolutamente completato il suo processo di modernizzazione. Si perse la grande occasione di fare di tutta la penisola una stessa realtà sociale ed economica. Le masse di contadini, che si aspettavano la ridistribuzione delle terre come promesso dai Garibaldini, videro uno stato piemontese che non realizzò nessuna riforma agraria, mantenne un potere fortemente accentrato, si impose con la faccia dell'esattore delle tasse e del carabiniere e soprattutto si alleò con la classe baronale che era la meno propulsiva ma garantiva la pace sociale. Alleanza che pesa ancora oggi. I piccoli "bravi" si trasformarono in manovalanza della criminalità organizzata e lo sviluppo del Mezzogiorno perse una grande opportunità.

domenica 10 giugno 2012

Ma sono molli codeste scarpe?

"Sono molli codeste scarpe?" domanda una giovanissima ragazza ad un'altra nello spogliatoio della palestra che frequento.
"Molli?? Cioè? In che senso, molli?" fa l'altra.


"Se io vi dico 'queste scarpe sono molli', voi capite che vuol dire?" chiedo a mio figlio ed a un suo compagno mentre li accompagno in auto alla partita.
"Ehm... morbide?" "Soffici?" "Di gomma?"


"Se io vi dico 'queste scarpe sono molli', cosa intendo?" chiedo poi ai genitori che assistono alla partita insieme a me.
"Cioè che sono bagnate!"

Ricchezza della lingua che si va perdendo.

giovedì 7 giugno 2012

Ma perché le posate no?



Probabilmente tutti ormai sanno che da maggio piatti e bicchieri di plastica si possono gettare nella raccolta differenziata della plastica. Non è facile fare una raccolta differenziata corretta. Dopo anni che mi ci impegno scopro ancora qualcosa che non sapevo. In molti probabilmente pensavano che le stoviglie di plastica non fossero riciclabili per cause intrinseche ed invece si trattava solo di "trovare l'accordo" tra i consorzi e i comuni.
Buona notizia quindi. E però però.... le posate non si possono ancora riciclare! Sembra un fatto secondario eppure noto alle macchinette del caffè dove lavoro che ben pochi hanno l'accortezza di gettare la palettina di plastica in un contenitore e il bicchierino in un altro. Mi posso immaginare il casino durante le feste in casa, momento in cui tipicamente si usano le stoviglie di plastica.
Già il ricorso alla raccolta differenziata dovrebbe essere un passaggio successivo alla riduzione dei rifiuti e al riutilizzo degli oggetti (si sa che le prime "R" non se le ricorda nessuno), se poi la si rende poco pratica e complicata, è proprio il modo per vanificarla.
Se proprio le stoviglie riutilizzabili non si vogliono usare e quelle in materBi risultano troppo care, allora seguiamo le istruzioni simpaticamente illustrate dai ragazzi nel video qui sopra.

lunedì 4 giugno 2012

L'ambizioso figlio del vasaio e la sua Cosina


Ciarlone, sfacciato, presuntuoso, bestia maligna, ignorante, invidioso, bugiardo.
Tali ed altre offese forse peggiori pare fossero annotate da Annibale Carracci a margine di una copia dell'opera più famosa di Giorgio Vasari, "Le Vite de' più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue insino a' tempi nostri".
Ma perché ce l'avevano tanto con il Vasari? In  effetti, come tutti quelli "arrivati", tanta simpatia non la ispirava. Nato ad Arezzo da un vasaio (da lì il cognome acquisito) ebbe la gran fortuna di infilarsi a tredici anni in casa Medici grazie al Cardinale Silvio Passerini e godere di un'ottima formazione culturale da un lato, studiando insieme ai rampolli de' Medici, ed artistica dall'altro, frequentando le botteghe di Andrea Del Sarto e Baccio Bandinelli. Nonostante questo bel chiappo, Giorgio Vasari non fu mai un artista eccelso e se ne rese presto conto.
Tuttavia fu proprio questa sua consapevolezza il suo punto di forza perché seppe trovare come esprimere il suo genio: nell’organizzazione, nei progetti, in quell'abilità che oggi chiameremo "manageriale". Il Vasari fu molto ricercato perchè capace di portare a termine, in poco tempo e con soddisfazione del committente, le grandi commissioni affidategli occupandosi principalmente della fase progettuale e organizzativa e delegando l’esecuzione per lo più ai suoi collaboratori.
Il Corridoio Vasariano per esempio (quello che permetteva a Cosimo I di andare "dall'ufficio" in Palazzo Vecchio "a casa" in Palazzo Pitti senza scendere in strada), mentre i più erano scettici sul portarlo a termine in cinque anni, Vasari lo realizzò in soli cinque mesi. Altro esempio: nel 1546 la decorazione della Cancelleria in Vaticano detta “Sala dei Cento Giorni” (proprio perchè realizzata in tale lasso di tempo) con scene della vita di Paolo III, zio del cardinale Farnese. Risultato: mediocre anche per i contemporanei ma bastò per farsi un nome. 
Il Vasari ha deturpato con altari cinquecenteschi tutti uguali quasi tutte le antiche chiese di Firenze coprendone gli affreschi del periodo Gotico, ma d'altra parte obbediva probabilmente al gusto dell'epoca ed ai desideri del suo magnate, Cosimo I.
Ed inoltre, a noi contemporanei, fa storcere il naso un quarantenne che sposa una tredicenne, Niccolosa de' Bacci (soprannominata con vezzosa sineddoche Cosina) ma è anche vero che erano altri tempi e poi, come ci ha raccontato la brava Camilla Chiti durante l'ultima visita con gli Amici dei Musei Fiorentini a Casa Vasari, il loro fu un matrimonio senza figli ma felice tanto che nella Sala Grande della loro dimora, Giorgio si preoccupa di raffigurare lo stemma della famiglia de' Bacci e anche il ritratto della sua Cosina.
Insomma ambizioso, arrivista, uomo del fare, raccomandato, ammanicato, pur tuttavia ce ne fossero di Vasari oggi a Firenze, forse avremmo già realizzate le altre linee della tramvia. Altro che i' Renzi!

venerdì 1 giugno 2012

Torna in podcast "Alle otto della sera"

Io che sono "podcast dipendente", io che vivo in simbiosi con il lettore mp3, io che ho costantemente nelle orecchie romanzi letti ad alta voce, puntate di Fahrenheit, servizi di Controradio, conferenze e lezioni varie, non ho mai capito perché abbiano soppresso una trasmissione così bella, interessante, affascinante e arricchente come "Alle otto della sera" che andava in onda su Radio 2. 
Ho imparato tanto da queste "lezioni" tenute da esperti di tutto rilievo. Tanto per citarne alcune delle tante serie che ho sentito:
  • Alexandros, avvincente vita di Alessandro Magno a cura di Massimo Manfredi;
  • Carlo Magno e Federico il Grande di Alessandro Barbero, uno storico che oltre ad essere molto preparato sa farci calare nelle vicende e nell'atmosfera di questi personaggi;
  • Chung Kuo-Cina, l'Impero di Mezzo, dell'eccezionale Federico Rampini, che mi ha fatto capire la grandezza dell'antica civiltà cinese e l'importanza di questa potenza destinata a dominare il ventunesimo secolo ;
  • Napoleone di Sergio Valzania, ascoltando il quale capita di dimenticare di essere su un bus urbano e di credersi in battaglia;
  • Sex and the Polis della storica Eva Cantarella, un viaggio nell'eros nell'antica Grecia e nell'antica Roma che ci fa capire anche la condizione delle donne in quelle civiltà.
Ad altre ho dedicato un post: 
Per fortuna, la Rai ha deciso di pubblicare in podcast (e quindi scaricabili) i dieci anni di questa trasmissione. Qui il nuovo sito. Approfittatene!