mercoledì 30 maggio 2012

Lezioni di musica

Non sono mica sicura alla fine di aver capito cos'è una forma sonata, un contrappunto, una fuga, cos'è il cromatismo o lo swing! Eppure sono contenta di aver ascoltato quasi una cinquantina delle Lezioni di Musica di Radio 3 dato che il non aver avuto alcuna formazione musicale è uno dei miei tanti rimpianti. Da bambina guardavo con curiosità mio nonno che ascoltava musica classica ad occhi chiusi muovendo le mani e mi chiedevo se immaginasse di essere il direttore d'orchestra o cos'altro.
Le lezioni di Radio 3, alcune dallo studio, altre tratte da quelle tenute all'Auditorium Parco della Musica di Roma, non sono tutte facili e non tutte parimenti godibili.
Alcune riguardano più la storia della musica. Apprendiamo così che, per effetto della Rivoluzione Francese che comportò un allargamento del pubblico, Beethoven "ampiò la musica", sia come strumenti utilizzati che come respiro delle composizioni, che non è la musica di Schubert che si dilunga "ma la pazienza che è corta", apprendiamo di un Haendel raffinato compositore di fama a Londra mentre Bach sogna il successo per tutta la sua vita trascorsa nella provincia tedesca, che Chopin scrisse la sua prima mazurka a sette anni mentre il povero Pergolesi compose lo Stabat Mater sul letto di morte appena venticinquenne, che per "musica classica" in realtà si dovrebbe intendere solo quella che va da fine Settecento alla prima metà dell'Ottocento (Haydn, Mozart e il primo Beethoven) e tante altre cose interessanti.
Splendide le lezioni nelle quali il pianista Roberto Prosseda ci fa capire l'apporto di un interprete rispetto al pezzo musicale da suonare e svela molti degli strumenti tecnici del pianoforte per esprimere in modi così diversi quell'insieme di note che rappresenta un brano musicale.
Per quanto riguarda capire la tecnica e la struttura della musica, le lezioni di Giovanni Bietti, compositore, pianista, musicologo e curatore della trasmissione, non hanno confronti. Bietti smonta pezzo per pezzo i capolavori, te ne spiega i meccanismi, ti prende per mano e te li fa vivere con un entusiasmo e un coinvolgimento che non può lasciare indifferenti.
Ammetto che il mio orecchio grezzo ancora non riesce ad apprezzare la musica atonale del Novecento e neppure il jazz, però ho capito delle cose importanti:
- la musica è arte e quindi non la puoi incasellare, catalogare, spiegare razionalmente fino in fondo;
- l'ascolto della musica classica richiede sforzo, concentrazione, è "ginnastica della mente" (per dirla con Prosseda) e non ha senso metterla in sottofondo mentre si fanno altre cose;
- ascoltare la musica classica è un "lusso" perché significa avere tempo di isolarsi dai tanti suoni che invadono continuamente la nostra vita (basti pensare al fatto che sono costretta a tenere sempre il lettore mp3 al massimo per non sentire i rumori di fondo). Un lusso che temo, con grande rammarico, di non potermi permettere. Peccato!

lunedì 28 maggio 2012

Scoprirsi atea francescana

Cosa spinge un'atea incallita a mettersi sulle spalle uno zaino ed a ripercorrere a piedi i luoghi toccati da Francesco D'Assisi? Potrei dire le indubbie attrattive turistiche e naturalistiche della verde Umbria ma per goderle basterebbe salire in auto e in cinque giorni visiterei tutti i posti significativi. Potrei dire per mettersi alla prova, per dimostrare di farcela fisicamente a camminare per una media di 20 chilometri al giorno con 9/10 kg sulle spalle. Ma allora sarebbe meglio una qualsiasi alta via sulle montagne che, tra l'altro, sarebbe anche più appagante dal punto di vista dei paesaggi e della natura. No, ci deve essere qualcos'altro e penso di averlo capito alla fine di questo pellegrinaggio.
La figura di Francesco D'Assisi è senz'altro affascinante (tant'è che il suo successo ha sconfinato oltre il Cattolicesimo) soprattutto per la sua coerenza, per aver riproposto con tenacia, contro una Chiesa ormai corrotta dal potere e dai beni mondani, un Cristianesimo fatto di povertà, di essenzialità, di non violenza. Devo dire che, al netto di tutte le leggende, delle credenze popolari, dei presunti miracoli a cui non riesco proprio a credere, il messaggio di rifiuto di tutto ciò che è superfluo e che offusca le cose più importanti della vita non solo lo trovo attualissimo e universale ma tocca delle corde già presenti istintivamente dentro di me.
Sin da quando ero piccola allorché provavo la singolare passione per il "giocare a poveri", cioè riuscire a sopravvivere in condizioni avverse insieme ai miei numerosi figli (cioè alle mie bambole), ritrovo il mio personale francescanesimo nell'istintiva avversione per tutte le mode, per tutti gli oggetti proposti/imposti dalla pubblicità, per l'usa-e-getta, per i soprammobili, per i fronzoli, per gli orpelli, per lo spreco. Un francescanesimo che può prendere facilmente le vesti dell'ambientalismo (ma guarda caso il nostro Poverello è stato proprio scelto come patrono degli ecologisti!) giusto per dare a questa cosa una spiegazione razionale ma non è del tutto così.
Non è un'esigenza di autoflagellazione, né di espiazione, né di rinuncia, né di sacrificio. Sono consapevole di essere una dei pochi fortunati con la pancia piena, un tetto sulla testa e un lavoro sicuro e quindi capisco che è più facile "giocare a poveri" concedendosi per scelta una vacanza dal costo di 200 Euro la settimana tutto compreso. Pertanto ho massimo rispetto e solidarietà verso chi a questo "gioco" è costretto per necessità e non per scelta radical chic.
Ciò nonostante mi guardo intorno e vedo colleghi e amici che parlano costantemente di soldi, che vorrebbero possedere sempre di più, avere la casa più grande e più bella, una macchina più lussuosa, dei vestiti ultima moda, e sono sempre nervosi e frustrati perchè non hanno quello che vogliono. E poi basta una temperatura un po' sopra o un po' sotto a quella di confort per lamentarsi. Bastano due gocce d'acqua per farli desistere ad uscire. E' sufficiente una distanza maggiore di cento metri per far loro decidere di prendere l'auto. Basta una lieve dolenzia per far prendere loro un analgesico. Impensabile e stravagante per essi viaggiare portando con sé il minimo sulle proprie spalle, camminare tutto il giorno sotto la pioggia, dormire in una camerata con estranei, avere a disposizione solo un secchio di acqua fredda per lavarsi come alla Romita di Cesi, trovare squisito un semplice minestrone di verdure inaspettatamente ricevuto come cena al Santuario di San Giacomo.
Allora capisco la forza dell'esempio di Francesco, del suo rifiuto di dormire con un cuscino, del suo sopportare le avversità con "perfetta letizia", del suo farsi bastare un saio e un paio di sandali, del suo accontentarsi di quel poco che c'è.
Saper essere contenti di quello che si ha. E' questa la ricetta, secondo me, per vivere sereni. E' questo il segreto per concentrarsi sulle cose più importanti della vita. E quali sono? Alla salute e all'affetto dei propri cari, per quanto mi riguarda, aggiungerei avere tempo per nutrire il mio cervello, per imparare cose nuove, arricchire la mia cultura, riflettere, cercare di capire meglio me stessa e il mondo che mi circonda. Tutto il resto è superfluo.

venerdì 25 maggio 2012

Il Cammino di Francesco (terza parte)

Dalle Fonti del Clitunno a piedi fino a Spoleto, Romita di Cesi, Collescipoli, Stroncone, Greccio, Rieti, per finire nell'atmosfera magica e solitaria del Sacro Speco di Poggio Bustone: 136 km che sommati a quelli percorsi nei due anni precedenti fanno circa 350 km del Cammino di Francesco.
Abbiamo camminato nella campagna umbra e nel Reatino immerse nella rigogliosa natura che in questo periodo ingaggia una gara di colori e profumi: dalle miriadi di papaveri rossi al giallo delle ginestre, dai delicati ciclamini dei boschi all'intenso caprifoglio, dalle orchidee al biancospino, al cisto rosa e bianco, alle rose di tutti i colori.
Comunque l'Umbria non è solo ombrosi boschi e verdeggianti colline, ma anche la piana della "Manchester italiana", la zona industriale di Terni con i suoi capannoni, il traffico sfrecciante e l'inceneritore.
Abbiamo camminato sotto il sole cocente e sotto la pioggia battente, destando curiosità e compassione nei locali che tante volte ci hanno offerto inutilmente un passaggio in auto: il pellegrino la sua meta se la vuole conquistare a piedi.
Abbiamo fatto incontri speciali come quello con Fra' Bernardino alla Romita di Cesi o quello con i ragazzi della comunità Mondo X o quello con Fra' Renzo del Santuario di San Giacomo.
Abbiamo ripercorso i luoghi toccati dal Poverello d'Assisi cercando di calarsi nel suo spirito e imparando ad eliminare il superfluo, ma su questo vorrei tornare successivamente.
Insomma sono felice di aver vinto la scommessa fatta due anni fa e sono grata alla mia amica S. per il suo entusiasmo coinvolgente e la sua tenacia, dote assai rara. Torno a casa più ricca e orgogliosa della mia credenziale piena dei timbri dei luoghi attraversati.
Intanto Angela Serracchioli ha scritto "Con le ali ai piedi" ed ha segnato il seguito del cammino fino a Monte Sant'Angelo. Che tentazione!

PS Qui alcune foto (anche se non sono le immagini le cose più belle che riporto a casa)

giovedì 17 maggio 2012

Di qui passò Francesco


E di qui speriamo di passare anche noi, riprendendo da Spoleto con un pensiero al mio amico Alessandro che avevo così vicino e che adesso non c'è più.
A presto,
Artemisia

domenica 13 maggio 2012

Civil servant sull'orlo di una crisi di nervi

Più ho a che fare con gli uffici pubblici e più penso che non andremo mai da nessuna parte come paese.
Ultimamente ho avuto bisogno per il mio ente (quindi non come semplice cittadina) di avere dei certificati da un'altro ufficio della pubblica amministrazione. Poiché l'esigenza si presenta periodicamente ho cercato di concordare con il funzionario responsabile una modalità che pesi meno possibile sul loro personale ma che nello stesso tempo faccia perdere meno tempo anche a me, tempo che è pagato dalla stessa "tasca", cioè dai contribuenti.
L'approccio non è stato dei migliori: sballottata fra tre persone diverse ho ricevuto tre indicazioni differenti su come fare la stessa pratica, nessuna certezza, la sensazione di una struttura molto disorganizzata e con palesi problemi di interazione al suo interno.
Una volta sono stata accolta calorosamente da una impiegata che si è offerta di farmi per il giorno dopo tutti i certificati. La seconda volta (l'impiegata non c'era) mi hanno fatto lasciare le richieste e ho dovuto telefonare tre volte per convincerli a farmeli in tempi ragionevoli. Irritante ma forse più prevedibile.
L'ultima volta, qualche giorno fa', di nuovo vengo accolta calorosamente dall'impiegata "volenterosa" la quale si rende disponibile a farli subito. Mi siedo davanti a lei in uno stanzone triste e un po' buio dove le postazioni di lavoro sono separate solo da paraventi e ciascuno ha a disposizione solo una scrivania, un computer, una stampante e un telefono.
L'impiegata mi "coccola" con i suoi modi amichevoli (diamoci del tu, ti do il mio numero di cellulare per le prossime volte, ecc.). Piacevolmente sorpresa, assisto al suo inserire i dati nel terminale, quando l'usciere le chiede che risposta dare ad un altro utente che ha prenotato per una pratica simile alla mia. L'impiegata cambia tono e con aria seccata gli dice di rivolgersi a qualcun altro intonando la solita lamentela risentita di quella "che deve riparare a tutto".
Dato che tra un paravento e l'altro si sente tutto inevitabilmente pochi secondo dopo si colgono anche le lamentele dell'impiegata a cui è finita la pratica. La "mia" allora si risente, si alza in piedi e comincia a lanciare al di sopra del paravento anatemi del tipo: "Finché non si avrà l'intelligenza di capire che bisogna adattarsi a fare di tutto, qui non si andrà mai da nessuna parte!" e l'altra gli fa eco: "Senti da che pulpito viene la predica! Parla per prima per te!". E continuano a battibeccarsi davanti a me e udite da tutti gli altri utenti, visto che l'ambiente è unico.
La "mia" impiegata ad ogni sua battuta mi ammicca in cerca di approvazione ma io sono sempre più imbarazzata. Alla fine l'altra si avvicina al nostro box e continua a inveire visibilmente alterata, mentre tutti gli altri invitano le due ad abbassare la voce e a calmarsi, finché questa sbotta in un: "Tanto, cosa credi, lo so che sei tu che vai in giro dicendo che i' mi' figliolo si sta separando dalla su' moglie!" e se ne va sbattendo la porta dello stanzone.
Io mi sento venir meno ma per fortuna la "mia" impiegata ha inserito tutti i dati, mi consegna l'ultimo certificato e mi saluta buttandomi un bacetto per poi rimettersi subito a battibeccare non so bene con chi.
Prendo i miei fogli e sgattaiolo via in tutta fretta sconsolata.
Cosa renderà certi ambienti di lavoro brodo di coltura per tali comportamenti isterici e umorali, così poco professionali e così poco dignitosi? E' un problema di donne che attraversano una delicata fase della vita? E' la scarsa cultura? E' un lavoro monotono e abbrutente? Sono i capi che non sanno coinvolgere e motivare i propri collaboratori?
E poi perché l'impiegato pubblico (mediamente) non ama il proprio lavoro, vive nella continua preoccupazione da un lato di schivare il più possibile i compiti e dall'altro far pesare quello che fa al di là di ogni ragionevolezza? Perché il dipendente pubblico, come dice Gozzini, ha bisogno di un certificato di esistenza in vita esercitando il potere di veto quando la sua utilità si dimostrerebbe semplicemente lavorando con solerzia e con qualità?

Civil servant
Civil servant cinque anni dopo

giovedì 10 maggio 2012

La lotta di classe esiste e i ricchi la stanno vincendo

Il post potrebbe esaurirsi in questo titolo, che non è mio ma ho trovato in rete. Esso sintetizza bene l'analisi di Luciano Gallino, professore emerito all'Università di Torino, uno che ci capisce, che si occupa da tempo delle trasformazioni dei processi produttivi e che ha scritto "La lotta di classe dopo la lotta di classe" (titolo bruttissimo, a mio parere).
Ma se vogliamo andare un pochino sullo specifico ecco gli spunti che ci fornisce il professor Gallino intervistato a Fahrenheit Radio 3:
  • Le classi sociali sono sempre esistite. Già nell'antica Roma si divideva la popolazione in classi censuarie. Negli ultimi 30-40 anni è invalso l'uso di parlarne sempre meno fino a negare che esse esistano. 
  • Dopo un paio di decenni nei quali le classi più ricche avevano dovuto concedere qualcosa (salari un po' più alti e stabili, stato sociale, orari di lavoro più umani, sanità pubblica, ecc.) la lotta di classe si è invertita: cioè, a partire dai governi Reagan e Thatcher degli anni Ottanta, essa avviene dall'alto verso il basso e assistiamo al riappriopriarsi da parte dei ricchi, di tutto ciò che avevano concesso."Oggi stanno vincendo su tutti i fronti" dice Gallino.
  • Le cause profonde della precarietà e della disoccupazione stanno in quella ristrutturazione dei processi produttivi che ha preso il nome di globalizzazione, in altre parole politiche del lavoro che tendono a mettere in concorrenza un miliardo e mezzo di lavoratori pagati pochissimo con lavoratori relativamente ben pagati dell'Europa Occidentale e degli Stati Uniti.
  • Le imprese non riescono ad uscire da un sistema che hanno costruito esse stesse, andando per decenni alla ricerca del luogo geografico dove trovare salari bassi, sindacati inesistenti, legislazione ambientale permissiva, ecc. Alla fine per produrre anche il più piccolo gadget c'è una tale rete di passaggi che questa catena di creazione del valore alla fine porta ad una grande insicurezza anche per le imprese. Ma la geniale trovata è stata quella di trasferire l'insicurezza della produzione, dei mercati, della finanza, insomma il rischio di impresa, sui lavoratori sottoforma di lavori precari e flessibili. Insicurezza della produzione trasferita sull'insicurezza del lavoratore e del suo reddito.
  • Come arginare almeno culturalmente il neoliberismo che da oltre trent'anni egemonizza tutto? Per prima cosa, dice l'economista, bisognerebbe parlarne molto di più ed invece i media fanno ben poco per far capire quello che succede e gli intellettuali, accademici compresi, non esercitano l'opportuna cultura critica.
  • Le politiche di austerità sono fortemente autolesionistiche dal punto di vista economico perché, se si riducono salari, pensioni, servizi e stato sociale, ci sarà meno reddito in circolazione, meno domanda interna e sicuramente più recessione, quindi meno entrate fiscali, più scioperi, più fallimenti, ecc. Secondo Luciano Gallino si tratta anche di un grave errore anche politico perchè le reazioni e i conflitti non avranno la forma di un tranquillo dialogo ai tavoli, ma il risentimento e la rabbia potrebbero spingere verso reazioni di destra o estrema destra. I governi europei non vogliono questo ma lo stanno provocando con le loro mani.
  • Vie d'uscita? Gallino auspica un movimento intellettuale di critica forte che metta a nudo i patenti rischi e le patenti devastazioni del sistema neoliberista che al momento è vincente, per affermare una diversa comprensione del reale, una società socialdemocratica ove la classe sociale che ha subito di più questa crisi non debba essere condannata. E i partiti? Il professore afferma con eleganza sabauda di trovarli "seriamente impreparati".

lunedì 7 maggio 2012

"Giustizia mosse il mio alto fattore"... anche per difendere la bellezza

Come non sentirsi disorientati, scoraggiati o arrabbiati di fronte alla attuale situazione politica del nostro paese? Eppure, come accennavo nel post del 16 aprile "I pericoli dell'antipolitica" bisogna stare attenti al facile scivolamento verso il rancore distruttivo, l'onda nera di rabbia che può travolgere tutto.
Mi conforta in tal senso ascoltare Roberta De Monticelli, una grande intellettuale che ha scritto "La questione civile. Sul buon uso dell'indignazione. Intervistata a Fahrenheit Radio 3 la professoressa De Monticelli, se da un lato condanna "la perdurante indifferenza sulle catastrofi che incombono su di noi", dall'altro indica come "buon uso dell'indignazione" innanzitutto un uso cognitivo, "uno stato di veglia mentale socratico", che io tradurrei più terra terra nel mantenere attaccato il cervello e non lasciarsi prendere dall'emotività del vaffa a tutti indistintamente. L'indignazione, dice ancora la filosofa, si distingue dalla rabbia e dal risentimento perché è la risposta ad un torto non necessariamente fatto a me ma fatto a chiunque. E' il senso di giustizia che dovrebbe guidarci (come Virgilio nella Divina Commedia) più che il rancore verso chi abusa della propria posizione. Non per niente il saggio della De Monticelli inizia citando Kant: "Se la giustizia scompare, non ha più alcun valore che vivano uomini sulla terra".
D'altro canto condivido con l'autrice anche la denuncia di un patto sciagurato tra una grande parte della classe politica ed una grande parte della nazione, una svendita costante e sistematica della legalità in cambio di consenso, di risorse comuni in cambio di piccoli privilegi personali. Siamo i servi contenti perché godiamo, con metodi non democratici, della raccomandazione e della consorteria, del malaffare e delle briciole dei privilegi del padrone. Il fatto che molti non vogliano prendere sul serio la questione morale è il sintomo che, come società, siamo ancora alla fase tribale degli interessi localistici e familistici, un po' come non riuscissimo ad arrivare all'età adulta e al carico di responsabilità che essa comporta.

Ha ragione Roberta De Monticelli anche quando denuncia appassionatamente la disattenzione generale per la lenta catastrofe del brand del nostro paese, per la dissipazione della sua bellezza e del suo paesaggio, sua fonte principale di ricchezza. Non tutti però, a parer mio, sono in grado di cogliere questo degrado. Trovo che il piacere estetico non sia innato ma si debba imparare e coltivare. 
L'altro giorno, passeggiando sulle colline intorno a Firenze, sbirciavo nelle belle case circondate da un ameno paesaggio, notavo la cura dei giardini privati immaginando degli interni altrettanto belli. Io penso che una persona che nasce in tale contesto parta già molto avvantaggiata nella capacità di apprezzare la bellezza. Anche se non sapesse nulla di arte e di architettura le verrebbe naturale indignarsi se le costruissero un viadotto davanti a casa. Al contrario non so quanto un giovane nato e cresciuto, per esempio, a Scampia o allo Zen di Palermo o al Librino di Catania si possa rendere conto del degrado in cui vive se qualcuno non lo aiuta a riconoscere il torto che sta subendo.
E questo proposito mi è venuto in mente un bellissimo dialogo del film "I cento passi":

"Sai cosa penso? Che questo aereoporto in fondo non è brutto, anzi, visto così dall'alto. Uno sale qua sopra e potrebbe anche pensare che la natura vince sempre, che è ancora più forte dell'uomo, e invece non è così. In fondo tutte le cose anche le peggiori una volta fatte poi si trovano una logica una giustificazione per il solo fatto di esistere. Fanno 'ste case schifose con le finestre in alluminio i muri di mattoni vivi, i balconcini, la gente ci va ad abitare e ci mette le tendine, i gerani, la televisione... dopo un po' tutto fa parte del paesaggio. C'è, esiste, nessuno si ricorda più di com'era prima. Non ci vuole niente a distruggere la bellezza."
"Ho capito e allora?"
"E allora invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte le manifestazioni e 'ste fesserie bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza, aiutare a riconoscerla, a difenderla.
Peppino Impastato (Luigi Lo Cascio)
dal film "I cento passi" di Marco Tullio Giordana

domenica 6 maggio 2012

Ciao Sabrina

E' strano. Vieni a conoscenza che una giornalista della tua radio locale preferita è morta e naturalmente la notizia ti colpisce. "Solo 43 anni! Poveretta!" Poi pensi che comunque non la conoscevi nemmeno, non sai niente di lei, non sai nemmeno che faccia avesse. Un'esistenza che ti ha appena sfiorato.
E allora perchè continui a pensarci? Pensi che aveva più o meno la tua età, anzi qualche anno meno. Pensi al vuoto che può lasciare una madre in una figlia adolescente. Pensi che la sua voce ti era familiare e simpatica. Pensi a quanto era gentile e tollerante con le chiamate di certi ascoltatori che tu avresti mandato subito a quel paese. Pensi alle sue trasmissioni sul non-acquisto che rivelavano qualche suo aspetto più intimo e quotidiano (Ma come, Sabrina, solo ora scopri che hai un sacco di prodotti scaduti in dispensa?). Pensi alla serietà delle sue inchieste (mi ricordo un suo reportage nella China Town di Prato quando, entrando in un bar, non riusciva a trovare nessuno che parlasse italiano). Pensi che avevi già notato la sua assenza dalla radio da settembre e avevi anche chiesto ai colleghi il motivo ("Sabrina è assente per un periodo di malattia, non ci sono ancora tempi certi per il suo rientro"). Scopri solo ora che era la compagna di un altro bravo giornalista di Controradio. Scopri solo ora che era non fiorentina ed infine trovi il suo volto in rete.
E allora capisci che Sabrina Sganga ti mancherà perché comunque era un tassello della tua vita. Un piccolo tassello al quale però non avresti proprio voluto rinunciare.
Ciao Sabrina.

venerdì 4 maggio 2012

'Sta cella mi pare 'na prigione

Nato in una famiglia numerosa di Angri, Cosimo Rega emigra giovanissimo a Torino  per lavorare come operaio. Menomato a causa di un incidente torna al paese di origine con un grande senso di sconfitta. Conosce l'amore della sua vita, la moglie Gelsomina, ma purtroppo apprende anche un altro modo di vivere, pericoloso ma "alla grande". Giovane ambizioso ma un po' fragile, incapace di dire di no, si trova in un contesto come quello della camorra salernitana. "Avevo la convinzione di fare qualcosa di positivo riuscendo ad ottenere l'ammirazione della società" racconta Cosimo Rega nella bella intervista a Fahreinheit Radio 3.
A trentotto anni la sentenza all'ergastolo a cui era preparato, dato che si era macchiato di reati gravi, ma non sapeva che in tal modo avrebbe perso anche la patria potestà. E difatti il momento più duro, il dolore più forte lo prova quando si trova a raccontare ai suoi due figli cosa aveva fatto ed a spiegare loro che era giunto il momento di pagare per questo.
Cosimo Rega racconta la sua vita e il suo riscatto morale nelle 480 pagine del libro "Sumino o'falco" mentre la sua esperienza di fondatore di una compagnia teatrate di detenuti è al centro del film dei fratelli Taviani "Cesare deve morire".
Difficile capire la realtà carceraria per chi non la conosce da vicino. Per questo ho trovato estremamente interessante quando l'ergastolano racconta di come si stava abbrutendo vegetando in branda tutto il giorno davanti alla televisione. "L'essere umano si abitua a tutto. Il detenuto esce fuori una macchina pronta per combattere. Solo se invece si confronta con l'arte, prende coscienza di sè, della vita, dell'amore, della sofferenza." Giovane, vanitoso e senza cultura, ha capito solo successivamente che doveva tirare fuori il meglio di sé e che poteva farlo prima di tutto studiando e poi grazie al teatro. "Le parole dei grandi drammaturghi sono dati positivi che alimentano il cervello e poi l'anima" dice Cosimo Rega.
Oggi Cosimo sogna di poter lavorare come operatore nel carcere e rendere in qualche modo utile la sua esperienza di trentaquattro anni di reclusione e di uomo che si è riscattato completamente.
"Dopo che ho conosciuto il teatro 'sta cella mi pare 'na prigione" dice l'inteprete di Cassio nel film "Cesare deve morire".

mercoledì 2 maggio 2012

Chi baderà alle badanti?

 
Spunti dall'intervista di Fahrenheit a Enrico Pugliese, docente di Sociologia all'Università La Sapienza e autore di "La terza età. Anziani e società in Italia": 
  • Da un'indagine del Censis sulla scala dei valori in cui credono gli Italiani al primo posto troviamo la famiglia. Il 65% degli Italiani indicano in essa il valore più importante del nostro paese. Un valore molto proclamato ma poco praticato per quanto riguarda l'attenzione agli anziani.
  • Dal 1951 al 2001 le famiglie unicomponente sono aumentate da 1.464.000 a 5.428.000 ma esse sono fatte più che da giovani single (più o meno per scelta) soprattutto da anziani. "Gli anziani non vogliono nessuno in casa con loro o non sono voluti in casa con gli altri?" si chiede Enrico Pugliese.
  • Il nesso tra familismo che persiste e famiglia che non regge più come una volta nella cura degli anziani è risolto dalla figura della badante, istituzione che esiste solo in Grecia, Italia e Portogallo e in parte in Spagna (come fanno negli altri paesi?). Tra i tre attori del welfare, Stato, mercato e famiglia, lo Stato in Italia sta cominciando a ritirarsi e il servizio di cura che era della famiglia (sarebbe meglio dire "delle donne") viene comprato sul mercato internazionale della forza lavoro: ucraine, filippine, peruviane, ecc. Lo Stato, con il flusso pensionistico che gli anziani hanno meritatamente maturato, dà la possibilità di pagare questa forza lavoro. Tuttavia questa non può che essere una situazione transitoria per vari motivi, non ultimo il fatto che anche le badanti invecchiano, ed inoltre si tratta di un lavoro troppo fusionale con una componente relazionale-affettiva troppo forte.
  • Ma quando inizia la vecchiaia? Negli ultimi duemila anni si è sempre considerato i 60 anni come inizio della vecchiaia perché, in una società maschilista, era quella l'età in cui non si era più atti alle armi. Per questo essa è stata considerata nella moderna società come l'età in cui è ragionevole andare in pensione. Grazie ai progressi socioeconomici (pensione e risparmi accumulati) e alla relativa salute e libertà (i figli se ne sono andati) la terza sarebbe l'età migliore, tra quella adulta fatta di responsabilità e impegni e la quarta caratterizzata dalla dipendenza. Tuttavia oggi non è più così facile.
  • Gli anziani, al di là della retorica, possono essere davvero una risorsa se non sono chiusi in casa, se hanno la possibilità socializzare e fare qualche lavoro informale, ecc. evitando il più possibile i rischi della medicalizzazione. Secondo Enrico Pugliese bisognerebbe andare verso un invecchiamento attivo e pensare a nuove soluzioni come, per esempio, il co-housing.
Riflessioni personali:
  • Mi chiedo quanto davvero gli anziani soli anelino di vivere nelle famiglie dei figli, in case sempre più piccole, che non sentono proprie. Quanto sarebbero in grado, dopo anni di autonomia, di adattarsi a tempi e spazi diversi dai propri.
  • Penso a cosa sta provocando alla mia collega, separata con una figlia, l'improvvisa necessità di gestire la madre vedova che comincia ad avere bisogno di assistenza.
  • Penso a mia suocera, la quale mi ha riportato con viva preoccupazione le quotidianità delle sue ex colleghe che convivono con le badanti e che mi diceva di sopportare già con un certo fastidio la presenza della signora kossovara che viene a fare le pulizie qualche ora a settimana.