lunedì 30 luglio 2012

Non sono solo canzonette

Luigi Manconi, serio professore di Sociologia, una vita dedicata alla politica (è stato senatore e sottosegretario ed ultimamente è molto attivo nella difesa dei diritti fondamentali con la sua associazione "A buon diritto"), ha sorpreso molti con l'argomento del suo recente libro pubblicato: "La musica è leggera". In effetti, intervistato a Fahrenheit, il professor Manconi ammette di coltivare da sempre questa "passione privata" e infatti si è rivelato essere autore di altri libri sull'argomento ma scritti in gioventù sotto lo pseudonimo di Simone Dessì. Perchè ci piacciono tanto le canzoni?
A mio parere, ha ragione Manconi nell'affermare che "la musica leggera è la forma espressiva più adeguata a raccontare il lato debole di ciascuno di noi, la dimensione fragile, tenera e violenta, una sorta di romanticismo infantile che ricorre a parole ed emozioni enfatiche ed insieme impudiche, che appartiene ad un sentimentalismo immaturo ma che noi amiamo portarci appresso". D'altra parte il sociologo spiega di aver scoperto, leggendo gli epistolari amorosi dei grandi scrittori, che essi usavano nelle lettere a mogli ed amanti una lingua piuttosto diversa da quella impiegata nelle loro grandi opere letterarie, un linguaggio ingenuo, addirittura puerile. Probabilmente quella lingua corrisponde ad un bisogno che noi abbiamo, una sorta di cattivo gusto sentimentale che ci conforta, ci consola e al quale non vogliamo rinunciare.
Talvolta qualcuno ha accostato i testi delle canzoni, soprattutto quelle dei cantautori degli anni Settanta, alle poesie ma secondo Luigi Manconi è sbagliato. Le canzoni hanno due elementi che le rendono profondamente diverse dalle poesie: la musica e l'interpretazione.
"Stoviglie color nostalgia", tanto per fare un esempio tra i tanti possibili, in una composizione poetica diventa un verso mediocre, ma messo in musica e cantato dalla fosca voce di Guccini diventa qualcosa di intenso.
Anche rispetto alla politica, secondo Manconi, i cantanti e i musicisti italiani hanno dato il meglio quando non hanno parlato direttamente di politica. La loro produzione, ricca di contenuti, suggestioni, evocazioni anche di natura politica, ha raccontato emozioni all'interno di uno stato d'animo collettivo che non richiedeva necessariamente l'evocazione militante o lo slogan politico.
Dal mio punto di vista personale, ammetto di non essere mai riuscita ad apprezzare la poesia (salvo il Leopardi che ho studiato a scuola), troppo difficile, spesso troppo oscura, mentre invece di canzoni ho "nutrito" tutta la mia adolescenza. Mi piacevano De Gregori, Guccini, De Andrè, anche il primo Venditti, qualcosa di Bennato, ma soprattutto ho lenito per anni le mie sofferenze adolescenziali con il balsamo delle canzoni di Roberto Vecchioni. Mi sembrava che stesse davvero rivolgendosi a me quando lo sentivo cantare:

"E i sogni, i sogni,
i sogni vengono dal mare,
per tutti quelli
che han sempre scelto di sbagliare,
perché, perché vincere significa "accettare"
se arrivo vuol dire che
a qualcuno può servire,
e questo, lo dovessi mai fare,
tu, questo, non me lo perdonare.

E figlia, figlia,

non voglio che tu sia felice,
ma sempre "contro",
finché ti lasciano la voce;

vorranno

la foto col sorriso deficiente,
diranno:
"Non ti agitare, che non serve a niente",
e invece tu grida forte,
la vita contro la morte
.",

E come non associare a qualche mio sofferto amore parole come:

"Ma tu non mi parlavi
e le mie idee come ramarri
ritiravano la testa
dentro il muro, quando è tardi
perché è freddo, perché è scuro...
E ancora solitudini
e buchi per nascondersi...

E non si è soli quando un altro ti ha lasciato,

si è soli se qualcuno non è mai venuto
però scendendo perdo i pezzi per le scale,
e chi ci passa su, non sa di farmi male
. "

Davvero sentimental kitsch, per dirla con Lugi Manconi, cattivo gusto romantico che tuttavia mi ha aiutato tanto ad esternalizzare la tempesta che sentivo dentro in quegl'anni. E ancora oggi, quando devo affrontare una prova che mi dà ansia, risfodero "la mia canzone da esame" (piccolo corno a Vecchioni): Un giorno credi di Edoardo Bennato perchè non c'è nient'altro che mi carichi quanto ripetermi:

"A questo punto non devi lasciare
qui la lotta è più dura, ma tu
se le prendi di santa ragione
insisti di più.
Sei testarda, questo è sicuro,
quindi ti puoi salvare ancora.
Metti tutta la forza che hai
nei tuoi fragili nervi.
"

venerdì 27 luglio 2012

Che giornata!

Ore 17.30. Appuntamento dalla parrucchiera per il solito taglio. Mentre attendo sul divanetto che la cliente precedente finisca, quest'ultima, comincia a sbiancare e dice di sentirsi mancare. In effetti è pallida e sudata. La facciamo sdraiare sul divanetto e, mentre la parrucchiera mi fa lo shampoo, ipotizziamo trattarsi di una classica caldana (l'età è quella). Ma la signora dice di sentirsi sempre più venir meno. Allora le alziamo le gambe, la copriamo con la sua giacca, togliamo l'aria condizionata, la facciamo telefonare al marito e alla fine, con il suo assenso, chiamiamo il 118.
Quando capitano situazioni di questo genere mi secca non sapere cosa fare e soprattutto non sapere interpretare la gravità della situazione. Per fortuna, interviene una terza cliente che capisco essere un medico. Infatti molto professionalmente parla alla signora, che stava già andando nel panico perché le sembrava di non poter più muovere le mani, la tranquillizza (e indirettamente tranquillizza anche me) mentre la parrucchiera, in lacrime e tremante per lo shock, si precipita fuori ad avvistare l'ambulanza. Questa non ci avrà messo più di dieci minuti ad arrivare che però mi sono sembrati eterni mentre tenevo, su sua richiesta, sollevate le gambe della signora sofferente. Poiché la sfortunata ha cominciato a vomitare, è probabile che si sia trattato di una semplice congestione, ma che paura! E che fare se avesse perso i sensi? E se avesse avuto delle convulsioni?
Dato che la giornata di oggi, seguita ad una notte quasi insonne, mi aveva già riservato ben altre forti emozioni, avrei fatto volentieri a meno di improvvisarmi soccorritrice.

mercoledì 25 luglio 2012

Un paese XXL

E' difficile capire un paese grande come gli Stati Uniti in dodici giorni, visitando solo tre siti di esso, però posso dire, come impressione generale, che gli USA sono un "grande" paese, un paese dove tutto è esagerato: la ricchezza e la povertà, la dose minima di caffè o di coca che puoi comprare, la sterminata foresta di conifere che si vede dalla cima del Mount Washburn (Yellowstone National Park), la solitudine della Lamar Valley (nel medesimo parco), la folla, le luci e il chiasso di Times Square il sabato sera, la quantità di roba da mangiare che consuma la gente a tutte le ore, il grasso che gli Americani di tutte le età si portano in giro. Tutto "troppo", tutto esagerato.
San Francisco l'abbiamo goduta poco a causa del tempo nebbioso, ventoso e soprattutto freddo (tanto che continuava a venirmi in mente la frase di Mark Twain "L'inverno più freddo della mia vita è stato un'estate a San Francisco"). Bella comunque con la sua aria un po' vintage.
Il parco di Yellowstone è davvero stupendo a patto di fuggire dalla folla che infesta le attrazioni geotermiche e di goderne la natura superba e il silenzio imboccando a piedi uno dei tanti "trail" poco battuti.
Ed infine New York è sempre quella che ti fa sentire immersa in un telefilm, con le sue lunghissime avenue, i taxi gialli, i tombini che fumano, l'inconfondibile skyline e tanta tanta gente anche molto strana. Si ha l'impressione di poter fare tutte le cose stravaganti che ci vengano in mente o di conciarsi nel modo più bizzarro e nessuno ci farebbe caso.
Non saprei dire com'è la vita americana perchè purtroppo il turista rimane necessariamente alla superficie delle realtà che visita. Tuttavia qualche piccola cosa mi sembra di averla colta. A San Francisco si nota, per esempio, una maggiore attenzione all'ambiente rispetto a NYC anche se il mitico progetto "rifiuti zero" mi sembra ben lontano dal realizzarsi. Per esempio, invece di tornare all'uso di stoviglie lavabili si è semplicemente sostituito ovunque quelle usa-e-getta più inquinanti con quelle compostabili. Inoltre mi ha colpito la gran quantità di homeless e disperati di ogni tipo ad ogni angolo. Li vedi rovistare nei bidoni della spazzatura per raccogliere plastica e lattine e poi il vedi in fila per rivenderli all'ente addetto al riciclo. Sulla qualità del cibo, secondo me, gli Americani ancora parecchio da lavorare.
Insomma una terra, affascinante, di forti contrasti, strabiliante ma, temo, ancora troppo "pesante" per la Terra e per il resto dell'umanità.


Qui alcune foto del viaggio.

mercoledì 11 luglio 2012



Si parte. 
Con questa vacanza darò una botta alla mia impronta ecologica personale che per recuperare mi ci vorranno anni di viaggi a piedi e di campi di lavoro. 
Speriamo almeno che sia un'esperienza arricchente.

A presto,


Artemisia


sabato 7 luglio 2012

Tempo di maturità


L'esame di maturità. Una tappa importante. Tanti adulti continuano a sognarlo per anni come un incubo. E' un po' come un sigillo sugli anni tempestosi che sono quelli dell'adolescenza. Anni di emozioni forti, di risate e di lacrime, di batticuore e di porte sbattute, di ormoni a palla, di discese ardite e di risalite. Anni che non si dimenticano ma che forse (almeno per me è stato così) si lasciano volentieri alle spalle.
Fammi sapere se è così anche per te, ragazzo mio. Tu con i tuoi momenti di sconforto come quando i primi giorni di liceo mi dicesti: "Non mi sento all'altezza. Sono tutti più bravi di me!" Poi cominciarono a fioccare le insufficienze per questi "bravi" mentre tu te la cavavi egregiamente. Tu che ingenuamente ti mettesti a leggere la Gazzetta dello Sport durante l'ora di disegno "perchè tanto avevi finito il compito". Tu e la tua forte crisi dell'anno scorso, quella che ti ha dato la spinta per volare alto. Tu che la professoressa di inglese continuava a dirmi "vedrà che maturerà, ne ho visti tanti maturare improvvisamente da un anno ad un altro".

A tavola, discutendo di promossi e di rimandati, te ne sei uscito con:
"Francamente non capisco chi si fa rimandare a settembre. Basta impegnarsi un po' di più. Dopo tutto studiare è il nostro unico dovere di studenti, se non si fa neppure quello!"
Io e il babbo ci siamo guardati sgranando gli occhi, dopodiché lui si è voltato verso di te:
"Ma non è quello che ti stiamo dicendo da anni?"
"Sì, certo. E allora?"
"Ma tu lo hai sempre contestato!"
"Beh, certamente. Dovevo farlo."

Direi proprio che te lo meriti tutto il tuo diploma di maturità.
Congratulazioni!

giovedì 5 luglio 2012

Uguali, ma non troppo

Il titolo di questa conferenza, tratta dal festival "Dialoghi sull'uomo" edizione 2010, già racchiude in un'ottima sintesi un tema su cui si sono spesi fiumi di parole, soprattutto negli anni Settanta, e cioè quello delle identità e differenze tra uomini e donne.
La giornalista Caterina Soffici, una delle due relatrici, ha elencato le leggi che in Italia (analogamente a quello che è avvenuto nel resto d'Europa) hanno modificato il modo delle donne di stare nella società, leggi troppo spesso date per scontate ma che è bene ricordare: dai diritti elettorali attivi e passivi (1946), all'abolizione dell'esclusione da certe cariche pubbliche come quella di magistrate (1963), all'abolizione del reato di adulterio femminile (1968), al nuovo diritto di famiglia (parità tra i coniugi in quanto a diritti e doveri, abolizione della patria potestà, 1975), all'abolizione delle attenuanti per il cosiddetto "delitto d'onore" (1981), oltre alle leggi più note.
Tuttavia l'intervento che mi è piaciuto di più è stato quello di Michela Marzano la quale, con la sua solita chiarezza e puntualità, ha tracciato l'evoluzione delle diverse correnti di pensiero femminista.
Uguaglianza e identità non sono la stessa cosa. L'uomo e la donna sono diversi, ma non per questo non sono uguali, nel senso che devono avere gli stessi diritti. Michela Marzano parte dal linguaggio e non è una pedanteria perché per far evolvere mentalità e costumi bisogna forse cominciare proprio da quello. Per esempio la filosofa denuncia che solo in Italia si parla di "maschi/femmine" invece che di "uomini/donne". In Francia, per esempio, non verrebbe mai in mente di dire "è nata una femminuccia", in quanto i termini "maschio" e "femmina" si riferiscono solo agli animali. "Cominciamo a parlarci tra donne e uomini", dice la Marzano.
Il secondo punto è il rapporto tra "sesso" e "genere". Simone de Beauvoir diceva che "donne non si nasce, ma si diventa". Con ciò essa non voleva negare l'esistenza di esseri umani biologicamente di sesso femminile, ma voleva mostrare come progressivamente si era costruito uno stereotipo della femminilità a livello di genere che era necessario decostruire per permettere ad ogni donna di poter diventare unica in quanto individuo (da qui la cosiddetta corrente universalista).
Per secoli (da Platone a Cartesio) il pensiero stesso si è strutturato in maniera dicotomica, cioè si è diviso il mondo in due entità: da un lato l'anima, il pensiero, la riflessione, la razionalità e dall'altra il corpo e la materialità. Naturalmente gerarchicamente veniva prima l'anima e poi il corpo e ovviamente l'uomo è stato associato alla prima e la donna al secondo (vedi il titolo dell'opera più famosa della de Beauvoir: "Il secondo sesso"). Il pensiero universalista auspica di uscire dalla dicotomia uomo/donna per cercare di arrivare al neutro, categoria capace di cancellare le differenze, e quindi mira a raggiungere l'uguaglianza attraverso l'identità.
Successivamente si sono visti tutti i limiti di questa concezione. Non è garantito che si arrivi all'uguaglianza passando dalla casella dell'identico e che per la donna la soluzione sia semplicemente diventare "uomo" attraverso la razionalità. L'essere umano nasce, vive evolve e incontra gli altri anche attraverso e grazie al proprio corpo che è un elemento altrettanto essenziale quanto la razionalità, è il risvolto esterno dell'anima. Inoltre, a forza di decostruire gli stereotipi di genere come fa Simone de Beauvoir, si rischia di arrivare ad una dematerializzazione del corpo, cioè a negare l'evidenza della corporeità che ci costituisce.
Da ciò nacque la corrente differenzialista che lotta per l'uguaglianza uomo/donna insistendo però sull'importanza delle differenze, riportando sulla scena la presenza del corpo e quindi anche del sesso oltre che del genere. La maternità, per esempio, che per secoli è stata un motivo di emarginazione della donna, non va negata ma affermata come segno di ricchezza della propria differenza. La corrente differenzialista è stata utile anche applicandola ad altre discriminazioni che riguardano il diverso rispetto al modello unico e al pensiero unico (omosessuali, stranieri, disabili, ecc.). Non si possono rivendicare i diritti cancellando le differenze.
Tuttavia Michela Marzano mette in guardia anche dai pericoli del pensiero differenzialista ricordando che stiamo valorizzando la differenza sessuale e non di genere perchè quest'ultima porta inevitabilemente agli stereotipi. Oggi infatti dominano la scena i due stereotipi della "donna-immagine", impeccabile, ridotta a nient'altro che corpo, proposta fino all'ossessione dalla pubblicità e dalla televisione, e, dall'altro lato, la "donna-madre" assorbita completamente dal suo ruolo tradizionale tutto privato e famiglia.
"Uguali, ma non troppo", conclude la Marzano, "significa quindi diversità da un lato, ma diritti dall'altro da costruire non contro l'uomo, ma con l'uomo, per cambiare la mentalità e i costumi di una società nella quale purtroppo scorgiamo continuamente molteplici segni di regressione."

domenica 1 luglio 2012

Di onestà si può anche morire

A proposito di etica del lavoro, ho sentito parlare la prima volta della vicenda di Ambrogio Mauri a Report, nella rubrica "C'è chi dice no". Recentemente Fahrenheit Radio 3 ha intervistato Monica Zapelli che racconta la vicenda di questo geniale costruttore di autobus, morto suicida nel 1997, in un libro dal titolo "Un uomo onesto. Storia di Ambrogio Mauri, l'uomo che morì per aver detto no alle tangenti".
Ambrogio Mauri si ritrovò diciannovenne costretto ad interrompere gli studi ed a prendere in mano l'officina di riparazione bus del padre, morto improvvisamente. Il ragazzo lavorò giorno e notte e riuscì a non chiudere l'azienda e a non licenziare neanche uno dei quaranta operai che vi lavoravano. Ma il suo sogno, più che di ripararli, era quello di costruire gli autobus e ci riuscì immettendovi sempre nuove nuove idee e miglioramenti tecnologici: l'alluminio al posto dell'acciaio, con tempi di usura più lunghi e minor consumo di carburante, l'introduzione, per primo in Italia, dei pianali ribassati accessibili alle carrozzine, autobus bimodali (gasolio+elettrico), sedili ignifughi, ecc. Adorava progettare e girava di continuo per vedere cosa facevano all'estero.
Tuttavia il suo problema era che i suoi clienti dovevano essere per forza pubbliche amministrazioni, i suoi interlocutori quei funzionari che immancabilmente gli chiedevano tangenti per poter vincere le gare di appalto.
Il figlio Carlo, oggi titolare della Mauri Bus System e allora giovane carabiniere, racconta della sua costernazione quando suo padre gli chiese di accompagnarlo ad un colloquio con un funzionario che gli chiese il 5% di tangente.
Mauri non pagava, inseguendo così il sogno di essere onesto e consapevole che in tal modo doveva essere più bravo degli altri da un lato e dall'altro rinunciare a cospicui guadagni. Egli era convinto che la corruzione si potesse sconfiggere anche dalla parte degli imprenditori rifiutandosi di oliare il meccanismo perverso.
Ma le richieste erano sempre più pressanti e la sua solitudine sempre più grande. Era inviso sia dal funzionario disonesto che doveva fare mille sforzi per fare dei capitolati che lo escludessero che dai suoi concorrenti in quanto rappresentava uno sempre tecnologicamente più avanti.
Dopo Tangentopoli la sua delusione fu ancora più grande perché dovette constatare che nulla era cambiato, ma la mazzata arrivò dopo una gara del 1995, che sarebbe stata salvifica per la sua azienda e ove era in un primo momento il solo concorrente perché unico ad avere il prodotto correlato alle caratteristiche previste dal bando. La gara venne annullata senza neppure restituirgli la busta.
Il 21 aprile del 1997 Ambrogio Mauri si sparò al cuore. Quattro giorni prima Cesare Romiti era stato condannato per corruzione e falso in bilancio ed ricevette sul Sole 24 la solidarietà di fior fiore dell'imprenditoria italiana che chiese a gran voce l'abolizione del reato di falso in bilancio. Tanto era affollata di firme quella pagina di giornale, tanto erano deserti i funerali di Ambrogio Mauri, ai quali non parteciparono nemmeno i dirigenti dell'ATM che erano a presentare i modelli dell'azienda concorrente che aveva vinto la seconda edizione della gara. Erano presenti però gli autisti dell'ATM, quelli che avevano apprezzato i suoi autobus, rappresentanti di un'Italia che riconosceva il valore del lavoro e non di quella che riconosceva solo il potere.