venerdì 31 maggio 2013

Perdere il treno dei gloriosi trent'anni

Andrea Fumagalli è un economista che fa parte della Rete San Precario e di Uninomade. Si tratta di movimenti di pensiero con proposte in controtendenza, alcune piuttosto affascinanti anche se mi sembrano un po' troppo utopiche.
Più concretamente mi è piaciuta molto la lezione di economia che Andrea Fumagalli ha tenuto all'ultimo Festival della Letteratura di Mantova. Già la sua premessa mi è sembrata stimolante: non è un caso che la scienza economica sia una disciplina che viene presentata come "tecnica", patrimonio di pochi, e non venga insegnata nelle scuole ma solo in alcune facoltà specifiche, per lo più come economia aziendale e non negli aspetti macroeconomici che riguardano invece la vita di tutti noi. Meno una disciplina è diffusa, afferma Fumagalli, più è facile il suo controllo e il controllo delle affermazioni che la riguardano. Se sui media si sente dire qualcosa da un "tecnico" siamo portati a pensare che sia una cosa oggettiva, non suscettibile di critica o di alternativa, soprattutto se certe affermazioni vengono presentate sotto l'alone dell'emergenzialità
Andrea Fumagalli è passato poi a spiegare in modo davvero chiaro (la lezione è riascoltabile sul sito del Festival) il concetto di "welfare keynesiano" o "welfare pubblico", affermatosi dal 1945 al 1975 (periodo che i Francesi chiamano "i trent'anni gloriosi") per rispondere ai limiti dell'economia del libero scambio o liberismo che non si è rivelato in grado di garantire un regime di piena occupazione, cioè di lavoro per tutti. In estrema sintesi, il welfare pubblico, che prevede l'intervento dello Stato (cioè un'entità fuori mercato) nell'economia privata soprattutto per quei beni e servizi considerati essenziali ma non remunerativi per il privato (sanità, giustizia, istruzione, elettricità, acqua, trasporto), era fortemente legato al sistema produttivo taylorista-fordista, affermatosi sempre negli stessi anni nei paesi occidentali dal capitalismo maturo: organizzazione del lavoro molto semplice e molto gerarchica finalizzata alla produzione di beni manifatturieri attraverso grandi aziende. Il sistema produttivo taylorista-fordista richiedeva una certa distribuzione del reddito dai ceti più ricchi a quelli più poveri, non per filantropia, bensì perchè all'imprese interessava produrre beni che fossero vendibili (onde trarne profitto) e quindi la produzione di massa doveva andare di pari passo con il consumo di massa.
Ma la cosa che mi ha colpito di più di quelle messe in evidenza da Andrea Fumagalli è che in Italia l'esplosione del debito pubblico, che ha reso insostenibile il welfare pubblico, sia dovuta in parte ad alcune riforme sociali degli anni Settanta che hanno comportato forti esborsi da parte dello Stato, ma anche e soprattutto a un sistema fiscale che Fumagalli definisce "non degno di un paese civile". Come già Luigi Einaudi scriveva nel 1945, un sistema fiscale moderno dovrebbe prevedere che tutti i redditi vengano tassati con lo stesso criterio indipendentemente dalla provenienza (lavoro, impresa, rendita, patrimonio, ecc.). Mentre in qualsiasi paese europeo questo principio è stato introdotto alla fine dell'Ottocento, in Italia ciò è stato fatto solo con la riforma Visentini del 1973! Proprio alla fine del miracolo economico giocandosi dal punto di vista dell'erario proprio gli anni di possibili maggiori entrate! Prima di allora ogni categoria e ogni professione, in base alla sua trattativa, aveva un trattamento diverso e che era anche oggetto di scambio politico. Ecco perché le entrate fiscali dello Stato italiano sono rimaste costanti (circa il 30%) in quel trentennio in cui potevano incrementare con la crescita economica (cioè con l'aumento del PIL che saliva del 5% l'anno). Secondo Andrea Fumagalli questo è accaduto solo in Italia e questa è la principale causa dell'enorme debito pubblico italiano.
Dagli anni Ottanta il welfare pubblico è entrato in crisi e sta diventando egemone un nuovo sistema importato dai paesi anglosassoni: il "workfare" o "welfare del lavoro", cioè si accede ai servizi sociali tramite la propria attività lavorativa mediata da intermediari il più delle volte privati (ad esempio farsi una pensione adeguata attraverso un fondo pensione). Peccato che il workfare non sia  universale, ma si basa sulla capacità tutta individuale di avere successo, un'idea tipicamente americana. Inoltre la garanzia di questi servizi è per lo più in mano ai mercati finanziari. 
Andrea Fumagalli e quelli della sua rete propongono in alternativa un  "common welfare" o "welfare del comune" di cui uno dei pilastri è reddito di base garantito per tutti. 
Non mi addentro su questa proposta che mi convince fino ad un certo punto. Mi basta la rabbia che lo Stato italiano abbia perso il treno dei trent'anni gloriosi.

domenica 26 maggio 2013

I partiti nella Resistenza e la capacità di autogovernarsi


Terza e ultima lezione del corso di storia contemporanea organizzato dall'ANPI e tenuto da docenti dell'Istituto Storico della Resistenza in Toscana. Simone Neri Serneri, direttore dell'I.S.R.T., ci ha parlato soprattutto del ruolo dei partiti politici nella Resistenza e anche nell'immediato dopo guerra. Un aspetto veramente interessante anche perché ne sapevo molto poco.
Per prima cosa non bisogna pensare ai partiti politici come sono oggi con la loro sperimentata organizzazione. All'epoca essi erano ancora più che altro reti nazionali con un certo orientamento programmatico (soprattutto i comunisti). Il loro ruolo non era affatto scontato come oggi possiamo pensare. Difatti nell'Italia pre-fascista i partiti avevano un peso marginale e in parlamento contavano molto di più i notabili liberali (visto anche il ristretto suffragio). Queste organizzazioni relativamente nuove erano quindi in cerca di legittimazione e riconoscimento.
In Italia da subito i più importanti partiti politici (ad eccezione dei Repubblicani e degli Anarchici) aderirono alla Resistenza e la maggior pare di loro vi parteciparono attivamente. Lo strumento con cui i partiti "governavano" la Resistenza e preparavano l'Italia futura era il Comitato di Liberazione Nazionale che si basava, a tutti i livelli, su due principi: la pariteticità (un rappresentante per ognuno dei cinque partiti, sei al Sud) e l'unanimità (tutte le decisioni venivano prese a maggioranza trovando sempre un punto di mediazione). In questi organismi (vi era un CLN per ogni città, paese, quartiere e persino azienda) si discuteva, anche animatamente, per fermarsi appena prima del punto di rottura perché rompere non era utile per nessuno. Fu proprio questa formula di pariteticità e unanimità del CLN, questo mostrare l'antifascismo unito, questo risolvere i contrasti all'interno, che lo rendeva un organismo proprio che andava al di là della somma dei singoli partiti e che lo legittimava agli occhi degli Alleati (che gli riconobbero potere) e nel rapporto con la monarchia, che fu costretta ad accettarlo come interlocutore. 
Questa cosa mi ha colpito molto pensando ad oggi in cui non si riesce a mettersi d'accordo su nulla, in cui nessuno rinuncia nemmeno ad un briciolo di potere per ottenere qualcosa di interesse generale. Sto sempre più pensando che quegli anni terribili furono davvero una parentesi "felice" dal punto di vista civile. Non è un caso che, in un paese estremamente diviso come l’Italia, quell'eccellente punto di mediazione che è la nostra Costituzione fu approvata a larghissima maggioranza. In seguito il CLN esaurì la sua funzione, vennero le elezioni del 1948 ed allora probabilmente si ritenne che tutte le divisioni sociali e politiche potevano esplodere.

Molto interessante anche un articolo proposto nella parte di laboratorio scritto per "La Nazione del Popolo" da Carlo Ludovico Ragghianti dal titolo "Rieducarsi all’autogoverno". In questo testo si esprime l’esigenza di reimparare, dopo vent’anni di dittatura, la pratica della discussione, la responsabilità di governo, la capacità di mediazione e di ascolto, insomma a sapersi autogovernare a tutti i livelli. Ragghianti auspica una riforma del costume e della mentalità riassunta nella parola d’ordine “meritarsi la libertà” (cioè non aspettarsi che qualcuno ce la conceda). Temo che ad oggi la lezione non sia ancora acquisita.

venerdì 24 maggio 2013

E se staremo hungry per davvero?

"Stay hungry, stay foolish" raccomandava Steve Jobs nel 2005 ai neolaureati di Stanford. Esortazione bella e motivante. Tuttavia, pensando ai giovani italiani di oggi, mi chiedo come possano innamorarsi di questo presente e sentirsi spronati a scommettere in una qualche "folle" ambizione.
Se lo chiede appassionatamente anche Ivano Dionigi, rettore dell'Università di Bologna, ospite de Le Storie Diario Italiano. I giovani di oggi, dice il rettore, oggi in cui tutto è nell'etere, tutto online, sono costretti a vivere da spettatori e non da protagonisti.
"Come possiamo essere padroni del nostro tempo e di noi stessi in una società frenetica, anzi liquida?" chiede una ragazza del pubblico.
"Oggi per voi giovani c'è un presente che non vi basta e non vi piace, un presente che non ha prospettive, un presente dove siete eremiti di massa navigando sul web, un presente di cui altri sono padroni. Il problema è riappriopriarsi del proprio tempo. Il problema vostro, cari ragazzi, è quello di dipendere da voi stessi e non dagli altri. Chiedete fratelli maggiori, chiedete cultura, chiedete un ruolo alla scuola. Ridiventare padroni di se stessi vuol  dire avere degli strumenti, essere attrezzati. E questi strumenti li può dare solo questa realtà così umiliata e massacrata nel nostro paese che si chiama scuola. Essa è il tempo che prendiamo per noi, per la nostra crescita, per il nostro spirito critico. Non è un edificio. E' il tempo per la crescita interiore. E voi oggi siete deprivati del vostro tempo."

Tranquilli, ragazzi, il governo sta pensando a voi come illustra con il consueto divertente e amaro sarcasmo Alessandro Robecchi in questo post.

In realtà spero che nessun giovane mi legga perché non è giusto spargere pessimismo nelle giovani generazioni. Tuttavia il mio timore di cinquantenne ansiosa mi fa immaginare un futuro in cui tutti saremo letteralmente hungry e per questo dovremmo cominciare ad essere ancora più fattivamente angry di quello che siamo.

mercoledì 22 maggio 2013

Una casa dignitosa per tutte e tutti

Lunga vita a Controradio di Firenze (di cui sono socia da alcuni anni insieme a tutte le radio che fanno informazione non mainstream.  Recentemente ho ascoltao una diretta in occasione dell'esecuzione di uno sfratto ai danni di una pensionata. 
Mentre l'attenzione dei media è concentrata sul falso problema dell'IMU, nessuno parla di chi la casa non ce l'ha, di chi non ce la fa a pagare l'affitto e rischia di finire per strada. E' chiaro, in un paese dove l'80% delle persone possiede la casa dove abita, si tende a pensare che gli sfrattati siano persone sfigate, ai margini della società, degni di finire sotto i ponti o in un centro di accoglienza. A parte il fatto che la Repubblica Italiana dovrebbe aiutare i ceti più bassi, che sono quelli che hanno meno strumenti di tutela e quindi più bisogno (tanto per dire ancora una cosa di sinistra), è allarmante sentire da Lorenzo Bargellini, del Momento di lotta per la casa, di quanto sia frequente, quasi quotidiana, la scena a cui assistiamo (circa sette esecuzioni di sfratto al giorno, 130 nel mese di maggio) e del sempre maggior numero di persone impossibilitate a pagare l'affitto per aver perso il lavoro.
Di solito mi viene da pensare anche a chi sta "dall'altra parte", cioè provo ad immaginare il proprietario che magari ha bisogno di quella casa, comprata con i propri risparmi, per sistemarci il figlio o la figlia. Ma non è sempre così, anzi. La storia della signora italo-francese in questione (in Italia dal 1971) fa montare di rabbia. La pensionata, 66 anni, sola con quattro gatti, infatti  ha pagato per una casa di 45 mq un affitto a nero di 500 Euro dal 1982 finché, un anno e mezzo fa, ha chiesto al proprietario di riparare gli impianti elettrici e idrici che sono fatiscenti (8000 euro di luce e 2000 di acqua, mura bagnate, ecc.) ma egli si è rifiutato e le ha mandato lo sfratto.
Per fortuna l'episodio finisce bene: l'ufficiale giudiziario concede altri due mesi di proroga e pare di capire che ci siano buone possibilità di ottenere un alloggio popolare. Così l'anziana ma energica signora, probabilmente per lo sciogliersi della tensione, scoppia in lacrime ed esclama: "Sarebbe bene che non pensassi più a me, che vivo sola con due gatti, ma a tutta la gente che ho qui intorno [altri sfrattati che vengono regolarmente per solidarietà a tutte le esecuzioni] e che hanno delle situazioni molto più penose della mia, hanno bambini. Non è giusto! E' una situazione che mi era del tutto ignota. Non immaginavo che ci fosse tutta questa gente a spasso."
Ribadisco quanto scritto in un precedente post: un tetto dignitoso per tutti e per tutte. Altro che IMU!
Tanto per dire un'altra cosa di sinistra.

domenica 19 maggio 2013

La resistenza civile, i compromessi bipartisan ed il frate prefetto

Seconda lezione del corso organizzato dall'ANPI e tenuto da docenti dell'Istituto Storico della Resistenza in Toscana.
Nella prima parte Francesca Cavarocchi ci ha parlato della renitenza, della resistenza civile e delle stragi di civili. Secondo la storica il fenomeno del reclutamento da parte della Repubblica Sociale Italiana, sia per le formazioni militari che per i lavori, ha portato milioni di uomini in quel periodo a dover fare una scelta, istintiva o consapevole che fosse. Si formò così un brodo di coltura per una rapida politicizzazione, anche se non tutti i renitenti combatterono poi per la Resistenza, oppure vi combatterono ad intermittenza. Un fenomeno di massa dunque quello della renitenza che rese quei mesi unici nella storia italiana e aprì potenzialità che nel successivo periodo repubblicano furono chiuse.
Silvano Priori, nella parte successiva della lezione, ha ripercorso e smontato storicamente alcuni concetti che vanno molto di moda in questi ultimi anni: memoria condivisa, pacificazione, buona fede degli aderenti all'RSI. Priori ha sottolineato che la storia si fa con memorie contrapposte, come avvenuto per la guerra civile americana, per quella spagnola o per la Francia di Vichy, che la Repubblica sì è già fatta carico della pacificazione con l'aministìa di Togliatti e che, riguardo ai "ragazzi di Salò", va sempre fatta distinzione tra chi fece una scelta per la libertà e la democrazia (con tutti i distinguo necessari) e chi per un regime totalitario e razzista. Le memorie non sono equivalenti.
Interessante anche la sua critica alla scelta del 27 gennaio per la Giornata della Memoria e del 10 febbraio per quella del Ricordo (senza nulla togliere all'importanza del recupero di quegli eventi). Silvano Priori trova comoda la scelta del giorno di abbattimento del cancello di Auschwitz, un luogo lontano, e vi contrappone per esempio, per ricordare la persecuzione degli Ebrei,  il 16 ottobre 1943 data della deportazione dal ghetto di Roma che avrebbe rimarcato di più le responsabilità italiane. E così contesta la scelta del 10 febbraio 1947, data della ratifica del trattato di pace, che ha veicolato nell’opinione pubblica l’idea neofascista secondo la quale l’Italia è stata punita da quel trattato, dimenticando così le pesanti responsabilità del nostro paese sulla guerra. Gli Alleati infatti non ci consideravano vittime ma responsabili della guerra in quanto l’Italia fascista nel 1941 aveva attaccato e invaso la Jugoslavia, paese che non minacciava “i sacri confini della patria”, innescando così quelle persecuzioni degli Sloveni e dei Croati, che non giustificano certo le violenze successive, ma ne sono comunque la causa.
Il problema, afferma giustamente Priori, è che oggi sono venute meno le forze politiche, dai liberali ai comunisti, che si rivedevano nella Resistenza come valore fondativo della Repubblica e che nessuno negli anni Cinquanta avrebbe messo in discussione. L’antifascimo come elemento di riferimento è in crisi.
La lezione si è chiusa con la lettura di un documento che colpisce per la sua attualità. Si tratta del cartello che il neoprefetto di Massa Carrara, Pietro Del Giudice, frate domenicano e partigiano, affisse subito dopo la sua nomina alla porta del suo ufficio.

IL PREFETTO COMUNICA: 

Non faccio raccomandazioni di sorta. 
Le raccomandazioni sono espressione della immoralità fascista. 

L'occupazione dei singoli non mi compete. 
Ho il dovere invece di procurare lavoro per tutti e ogni mia energia deve tendere a questo fine. 

L’assistenza dei singoli non mi compete. 
Ho il dovere invece di promuovere che vengano assistiti tutti i bisognosi attraverso gli Uffici competenti, che è mia intenzione e mio dovere potenziare al massimo. Gli Enti Comunali di assistenza e le varie Commissioni Provinciali debbono assolvere tale compito. Io ricevo unicamente coloro che desiderano collaborare ad una migliore organizzazione dell’Assistenza Sociale. 

Gli organismi della Giustizia sono al di sopra di noi tutti. A nessuno è lecito, neanche al Prefetto, interferire nell'opera della Giustizia. Intendo difendere la libertà della Magistratura e degli organi di Polizia con ogni mezzo a disposizione. 

Come Prefetto non ho né amici né parenti - ricevo con riconoscenza consigli e critiche fattive. Nessuno ha il diritto di farmi perdere del tempo.

 Massa, 15 aprile 1945

venerdì 17 maggio 2013

Obsolescenza programmata

L'obsolescenza programmata, termine coniato dal design americano Brook Stevens, è il desiderio del consumatore di possedere qualcosa di nuovo un po' prima di quando necessario. Si tratta di un espediente che, come consumatrice critica, conoscevo da tempo ma non sapevo che l'idea risalisse a quasi cento anni fa e che fosse proprio frutto di un accordo ben preciso.
Come ho appreso infatti da un servizio all'interno della trasmissione Metropoli, nella puntata dedicata a Torino, nel Natale del 1924, i principali produttori di lampadine europei e americani istituirono il primo cartello mondiale chiamato Phoebus. Lo scopo era di controllare il mercato delle lampadine e il consumatore. I progettisti e gli ingegneri furono indotti ad abbreviare la durata delle lampadine al solo scopo di aumentare la domanda. Fino ad allora la durata pubblicizzata delle lampadine era di 2500 ore mentre con il cartello i membri del Phoebus bandirono tutte le lampadine con una durata superiore a 1000 ore. Ufficialmente il cartello non è mai esistito ma l'ideologia dell'obsolescenza programmata da allora si diffuse sempre di più. Nel 1928 un'importante rivista pubblicitaria sentenziò: "per il mondo degli affari un capo di abbigliamento che rifiuta di consumarsi è una tragedia". 
Nel 2003 la Apple venne portata in tribunale con l'accusa di aver montato sugli Ipod una batteria progettata appositamente di breve durata per costringere i consumatori a comprare un nuovo modello dopo poco tempo.
Oggi l'obsolescenza programmata è parte del programma di studio per progettisti ed ingegneri. Un ingegnere ha scoperto che la vita della sua stampante dipendeva da un chip inserito al suo interno che l'avrebbe bloccata al raggiungimento di un certo numero di copie. 
Non so perché ma questa cosa non riesco a prenderla pacificamente. Mi stimola senso di ribellione come tutto quello a cui veniamo indotti in modo subdolo e non per nostra scelta consapevole. Mi consola il fatto che più o meno istintivamente tendo a farmi durare tutto il più possibile, anche i vestiti. Talvolta, quando pervengo alla conclusione che un capo sia da buttare, provo un po' di senso di colpa. Poi mi domando da quanti anni lo sto usando e scopro che magari sono sette anni, per esempio, che uso gli stessi pantaloni per le escursioni!
Nel passato l'obsolescenza programmata è stata usata per combattere la crisi ma oggi non tutti possono permettersi di buttare un cellulare nuovo, conclude il servizio.

lunedì 13 maggio 2013

Mobilità per i più

Oltre 130 miliardi di Euro è la stima di quanto costeranno i progetti di nuove autostrade e nuove linee di treni ad alta velocità in Italia, che soddisferanno in realtà la domanda di mobilità di appena il 2,8% delle persone e delle merci (equivalente alla quota degli spostamenti giornalieri superiori ai 50 km). Ovvero in queste opere si impegna il 75% dei soldi pubblici destinati alle infrastrutture mentre, all'insieme degli interventi per le aree urbane e il pendolarismo, ove si muove il 97,2% della popolazione, lo Stato destina appena il 25% delle risorse puntando ancora per altro su nuove strade tangenziali e circonvallazioni invece che sul trasporto collettivo o su quello non motorizzato. Tale il risultato dell'ultima indagine dell'ISFORT Istituto Superiore di Formazione Ricerca per i Trasporti, dati con il quale si è aperta la puntata di Ambiente Italia RAI3 dedicata alla mobilità.
Nella stessa puntata hanno mostrato le condizioni della storica Ferrovia Circumvesuviana: pochi treni, sempre in ritardo e affollatissimi e vandalizzati da gruppi di giovani, stazioni gremite, corse tagliate e niente soldi per la manutenzione. I viaggiatori intervistati raccontano che la Circumvesuviana era fino a pochi anni fa un'eccellenza, un fiore all'occhiello del trasporto pubblico italiano (un treno ogni 15 minuti) ma, con gli ultimi tagli, è diventata un disastro (ritardi di una o due ore e 500 milioni di debiti pregressi). Secondo l'amministratore unico della Circumvesuviana, Nello Polese, poichè il paese è in crisi profonda, la gente non si può più permettere l'auto e quindi il numero di passeggeri è triplicato. "O si capisce che questo è un servizio pubblico che serve alla povera gente e che va garantito economicamente, oppure si chiuda".
Anche il sindaco di Bolzano ha rilevato, con il suo monitoraggio che compie almeno ogni due anni, una diminuzione nell'uso dell'auto dal 47% degli spostamenti al 25%.
Pecato che uno studio di Legambiente rileva che solo il 7% dei nostri bambini va a scuola a piedi (da solo o accompagnato) mentre nel Nord Europa il 40%. 
C'è persino un problema di immagine sociale di chi usa i mezzi pubblici. Un plauso ai genitori antismog di Milano che hanno fatto ritirare una pubblicità di una casa automobilistica che dipingeva il pendolare come uno sfigato.
Se l'uso della macchina è calato per motivi economici bisognerebbe approfittarne per incrementare il trasporto pubblico e invece si fa il contrario. 
Io vorrei un governo che investisse sulla mobilità dei molti e non dei pochi. Tanto per dire una cosa di sinistra.

sabato 11 maggio 2013

Dall'Italia in guerra alla guerra in Italia

Molto interessante la prima lezione del corso a cura dell'Istituto Storico della Resistenza in Toscana, organizzato dall'ANPI, a cui ho partecipato stamani. Il tema di questa prima mattinata è stato la seconda guerra mondiale, una guerra che, come ci ha ben sottolineato il primo relatore, ha segnato diverse novità e aperto un grande cambiamento. Con essa finì il ruolo egemone degli stati europei nel dominio del mondo e il colonialismo e si aprì la fase nucleare. Soprattutto fu una guerra totale che coinvolse pesantemente le popolazioni civili.
Lo storico Matteo Mazzoni ha illustrato bene come l'Italia, prima di subirla, la guerra la fece aggredendo paesi, in Africa e nei Balcani, che non ci avevano assolutamente minacciato, con la stessa violenza e la stessa crudezza dei nazisti. E questo tendiamo a dimenticarlo.
Mi ha colpito in particolare quando lo storico ha puntualizzato la rottura del consenso popolare che il regime fascista, fino all'entrata in guerra, godeva. Noi contemporanei, che sappiamo ciò che allora, a causa della censura, non si sapeva e che soprattutto sappiamo "come è andata a finire" e da che parte stava la ragione, stentiamo a capire come il fascismo possa essere durato vent'anni. In effetti, come ha detto Matteo Mazzoni, il regime all'Italiano comune dava, trasmetteva un certo orgoglio nazionalista attraverso la propaganda ed elargiva assistenza anche in termini di svaghi e divertimenti. Con la guerra non solo si è cominciato a scoprire il bluff dell'Italia forte e invincibile, ma soprattutto il regime ha cominciato a non dare più bensì a prendere alla popolazione in termini di caduti e dispersi, di privazioni alimentari, di requisizioni ed infine di vittime civili di una guerra ingiusta. Fa riflettere quindi questa scissione "emotiva" del paese dal regime fascista che dimostra quanto, in un paese giovane senza senso dello Stato, si è fedeli a quest’ultimo finché ci dà. Atteggiamento che, ahinoi, non è affatto passato di moda.

martedì 7 maggio 2013

Salire sulla "Barca"?

La più cosa bella di ieri sera è stata il teatro Puccini strapieno, platea e galleria con persino gente in piedi tutt'intorno. Devo dire che me l'aspettavo: c'è tutto un popolo di "smarriti di sinistra" che cerca un approdo, una bussola e via proseguendo coi termini marinareschi.
Per il resto, ad essere sincera, Fabrizio Barca non mi ha smosso una cellula. Del suo famoso documento di cinquantacinque pagine è stato letto l'ancor più famoso addendum di cui gli è stato chiesto di spiegare ciascuno dei dodici punti. Probabilmente sono diventata troppo arida e scettica, ma a me è sembrato da un lato un bignamino della Costituzione, per altro da lui stesso citata (dall'uguaglianza dei cittadini al ripudio della guerra alla disciplina e onore richiesta agli eletti), dall'altro una specie di libro dei sogni lontano anni luce dall'attuale dirigenza del PD. 
Ai limiti della socialdemocrazia e del neoliberismo, Fabrizio Barca contrappone quello che lui chiama "sperimentalismo democratico". Non sono affatto sicura di aver capito bene cos'è. Mi pare che egli intenda che chi governa prende le decisioni ma insieme fa una costante verifica sugli effetti di esse con un ascolto permanente di quello che la base (che sia di un partito o che sia di uno Stato) ha da dire.
Quando è stato chiesto a Barca perché pensa di poter proporre queste sue idee all'interno del Partito Democratico e non, per esempio, di fondare un nuovo partito di sinistra, egli ha risposto che nel PD c'è una consistente base e una capillare organizzazione territoriale che non si trova da nessuna altra parte. Personalmente sono un po' scettica sulla persistenza di questa base dopo le ultime vicende.
Mi ha convinto ancora meno quando ha detto che l'elettorato grillino e berlusconiano bisogna capirlo e conquistarlo.
Insomma, a mio avviso, una proposta troppo fumosa e troppo intellettuale per il livello culturale a cui ormai (purtroppo) è ridotta la gran parte degli Italiani dopo vent'anni di anestetizzazione crerebrale da televisione spazzatura.
Sarò anacronistica e gerontocomica, ma ho sentito più nelle mie corde l'intervento, pur più rozzo e semplicistico se si vuole, di Maurizio Landini a Che tempo che fa.
Comunque non ho pregiudizi e rimango in standby, anche se mi sarebbe piaciuto fare una domanda all'ex ministro: che ci faceva in un governo palesemente di destra come quello di Monti?

domenica 5 maggio 2013

L'ottimismo di Crainz nel paese dei corrotti di Calvino

Sono sempre più scoraggiata e pessimista verso il futuro. Non tanto perchè ci ritroviamo l'ennesimo governo di destra che prenderà i soliti provvedimenti di destra (= a favore dei ricchi), non tanto perchè il partito per cui votavo (e sottolineo il tempo passato) non esiste più o per lo meno non finge più di essere un partito di sinistra (ciò ha i suoi vantaggi anche se mi lascia "orfana"), ma più che altro non ho più la minima fiducia nei miei connazionali. Ho preso atto (con dolore) che gli Italiani sono un popolo a maggioranza di destra, conservatore ed individualista. Non tutti, certamente, ma la maggioranza sì (e dire che Marina me lo aveva scritto tempo fa). 
Temo che siano sempre stati così anche se lo storico Guido Crainz, che ammiro moltissimo, è fortemente ostile a questa tesi perchè lo ritiene un modo per giustificarsi. Anche a Le storie Diario Italiano e nel suo libro Il paese reale, Crainz ricorda che l'Italia è stata capace in momenti difficili di risollevarsi e che, se siamo diventati individualisti, con scarso senso civico e sprezzanti delle regole, possiamo ritornare ad essere quello che siamo stati capaci di essere.
Quando sarebbe avvenuta la trasformazione? Guido Crainz fa partire dalla fine degli anni Settanta (simbolicamente dal delitto Moro) la fase che sta vivendo il nostro paese e fa risalire ad allora lo spartiacque che ha dato il via all'esplosione della corruzione e del degrado.
Dal punto di vista economico il disastro si è innescato perché negli anni Ottanta, anni di trend positivo dell'economia e di maggiore espansione delle esportazioni, il debito pubblico è cresciuto enormemente (percentuale sul PIL: 1970 40%, 1985 80%, 1990 94,8% 1995 121,5%). L'enorme debito pubblico, che pesa oggi più che mai come un macigno, ha avuto conseguenze non solo economiche ma anche civili, una questione etica ancora prima che economica. Sembra che il consenso degli anni Ottanta si sia basato su un accordo: far prevalere gli interessi dei governati e dei governanti sull'interesse pubblico. Il processo di ripiegamento sul privato e di disimpegno civile, emerge anche da un piccolo dato: nel 1980 per la prima volta i votanti scesero al di sotto del 90% e ciò provocò molte discussioni. Oggi, dopo trent'anni, tocchiamo punte di astensionismo del 50% (vedi regionali in Sicilia) e nessuno si interroga più.
Anche la trasformazione della politica in senso populista, demagico e personalistico e il deperimento del partito come forma di organizzazione e di militanza è fatta risalire da Guido Crainz agli anni Ottanta, dominati dalla figura di Bettino Craxi, quando per la prima volta il leader non è stato espressione di una organizzazione sociale e politica estesa sostuita dal carisma personale. Il PSI, che non è mai riuscito ad essere un partito di massa, si impose come un partito moderno e mediatico. Alla richiesta di  un parere sugli attuali partiti, sull'attuale partitocrazia decadente, lo storico  risponde che non vi può essere democrazia senza partiti ma che difficilmente vi potrà essere democrazia con QUESTI partiti e auspica un rinnovamento profondo.
Insomma gli anni Ottanta sono l'incubazione del nostro presente, della nostra attuale incapacità di coniugare sacrifici e speranza per il futuro come avvenuto nel Dopoguerra.
Personalmente sono ben più pessimista di Crainz e comincio a pensare che la straordinaria stagione della Resistenza che ha prodotto una classe politica di alto valore morale e una eccellente Costituzione siano state solo una felice parentesi. Sono tuttavia gramscianamente pronta ad opporre al pessimismo dell'intelligenza l'ottimismo della volontà. In qualunque momento.

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"C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Un paese in cui tutte le forme di illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci, si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto.
Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano, costoro, onesti non per qualche speciale ragione; erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno al lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione di altre persone.
In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto, gli onesti erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento che cosa avrebbero dovuto fare.
Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

Italo Calvino, da “Apologo sull’onestà nel Paese dei corrotti
(Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori)

mercoledì 1 maggio 2013

Con le ali ai piedi. Prima parte: da Rieti a L'Aquila

L'anziana di Poggio Bustone che incrociamo davanti al suo pollaio ci rassicura a suo modo: "Non siete voi che dovete fare penitenza per i vostri peccati. I peccati, ce li hanno quei delinquenti che stanno al governo!"
Il gentilissimo gestore del ristorante di Fiamignano, quando apprende che siamo di Firenze, si prodiga in lodi al nostro Sindaco: "E' forte Renzi! Li ha già rottamati mezzi. Se non lo avessero ostacolato alle primarie, a quest'ora avrebbe fatto piazza pulita di questi qua!"
Il salumiere di Cantalice ci racconta del figlio che lavora in Belgio, mentre il pensionato di Colle Mazzolino ci confessa che usa internet solo per comunicare con il nipote che sta a Londra. La coppia che sta ristrutturando casa a Mareri e che ci fa un sacco di complimenti definendoci "fenomeni" ci racconta con rammarico della figlia che ha voluto studiare antropologia. La signora terremotata di Roio si lamenta del primo caldo che si soffre vivendo ancora nei M.A.P. mentre il presidente della Proloco di Tornimparte ci mostra orgoglioso la bella chiesa di San Panfilo.
Un'Italia di provincia, lontana dal turismo di massa, quella che abbiamo attraversato a piedi destando molta curiosità con i nostri pesanti zaini e i nostri bastoncini ticchettanti. Un'Italia pronta a raccontarsi: si comincia con un saluto, la richiesta di un'informazione, una battuta e poi ci scappa quella piccola preziosa conversazione nella quale si è pronti a tirar fuori ciò che ci preoccupa, le ansie per il futuro, soprattutto per i figli.
Centoquaranta chilometri percorsi a piedi, oltre trenta ore di cammino da Rieti a Poggio Bustone, proseguendo per Cittaducale, Petrella Salto, Borgo San Pietro, Fiamignano nel Cicolano, per poi valicare in Abruzzo a Tornimparte ed infine raggiungere L'Aquila, con il suo centro storico spettrale, che lascia attoniti. Una città fantasma presidiata dai militari.
Trascurabile l'aspetto religioso di questa prima parte del pellegrinaggio per Monte Sant'Angelo, sulle orme di Francesco e Michele. La presenza di San Francesco si fa molto più flebile rispetto all'Umbria (rilevabile solo nell'influsso lasciato su Santa Filippa da Mareri) mentre assente quella dell'Arcangelo Michele, tanto che mi è quasi venuto il sospetto che egli si fosse materializzato nel suo omonimo venticinquenne di Roma, un ragazzo d'oro con il quale abbiamo condiviso molte tappe.
Un cammino sicuramente da continuare appena possibile, affascinante e divertente (un sentito grazie ai miei due compagni!) e abbordabilissimo economicamente (meno di 300 Euro a testa compreso il viaggio).
Alla prossima!

Alcune immagini del cammino
Per saperne di più 
Di qui passò Francesco: 2010, 2011 e 2012