giovedì 18 ottobre 2012

Le stelle e strisce che non ti aspetti

Grande paese gli Stati Uniti. In tutti i sensi. Questa l'impressione a pelle che ho ricavato durante il mio viaggio di quest'estate. Eppure ci sarebbero diversi luoghi comuni da sfatare su di esso come ci racconta Oliviero Bergamini, storico e giornalista, intervistato a Fahrenheit Radio 3 ed autore di Da Wall Street a Big Sur. Un viaggio in America. Gli Stati Uniti sono sempre stati per noi Europei un prodigioso produttore di immaginario, straordinariamente capace di intrattenere anche se, anni e anni di fruizione di prodotti mediatici americani, ci hanno dato un'immagine che non corrisponde del tutto alla realtà.
Un paese dove lo stato è "leggero"? In USA vi sono in proporzione più dipendenti pubblici che in Italia.
Un paese ricco? La ricchezza media delle famiglie italiane è più che doppia di quella americana (gli americani lasciano in media 10.000 $ ai figli). La ricchezza è così concentrata negli strati alti che gli strati medi e bassi sono più poveri degli analoghi europei. La classe media americana non è più solida e abbiente.
Paese di grande mobilità sociale? Mito ampiamente incrinato. Secondo studi di università europee e americane, la possibiltià di salire a strati sociali superiori ed anche di perdere il proprio status è inferiore a quella che si ha in Danimarca o in Germania. Le città tendono a dividersi ormai in quartieri omogenei per reddito e ciò ha ripercussioni gravi sulla mobilità sociale.
Università eccellenti? Accanto a quelle prestigiose che in effetti occupano i primi venti posti della classifica mondiale, la media delle università americane (che sono più di 3000) è piuttosto bassa pur essendo comunque costose (chissà come risulta l'università che ho visto a Bozeman, anonima cittadina del Montana).
Un altro stereotipo duro da scalzare è che gli Stati Uniti siano un paese storicamente senza conflitti sociali o comunque dove la classe operaria è integrata, conformista, senza storia.
A sfatare questa immagine ci pensa invece il libro "Storia del Movimento operaio negli Stati Uniti" di Richard Boyer e Erber Morais di cui si è parlato invece nella puntata di Fahrenheit che ospitava Mario Maffi, docente di Cultura Anglo-americana presso l’Università di Milano.
Grazie a questo libro scopriamo infatti che gli USA dal 1861 al 1955 hanno visto una straordinaria storia di organizzazione operaia con scontri acuti e violenti come il grande sciopero delle ferrovie del 1877 che diventò poi generale e sfociò nella Comune di Saint Louis. 
Dopo il 1955 il boom economico vide ricadute di benessere per ampi settori della classe operaia, ma negli anni sessanta esplosero di nuovo le contraddizioni. Il Sessantotto fu sì movimento di studenti e minoranze razziali ma contemporaneamente a Detroit e a Chicago si creano strutture sindacali di avanguardia che si contrapposero alle grandi organizzazioni sindacali (Lega Operai Neri di Detroit, braccianti in California, ecc.). Negli anni ottanta, con lo sciopero dei controllori di volo, licenziati in tronco da Reagan, si ebbe un'ultima fiammata di conflittualità sociale.
Oggi la classe operaia in USA è in una situazione difficilissima. Le grandi organizzazioni sindacali sono fortemente integrate con lo Stato. Solo alcuni sindacati minori di categoria reagiscono e cercano di mantenere la dimensione conflittuale e antagonista. Secondo Maffi il movimento Occupy Wall Street è effimero e destinato a finire perché non riflette tanto un ceto operaio organizzato quanto la classe media che vede intaccata la propria posizione sociale. A queste parole mi è subito venuto in mente quello sparuto gruppetto di ragazzi che ho visto ripararsi dalla pioggia quando ero a New York.
La precarietà e la dispersione sul territorio fa tornare il movimento operaio agli albori della rivoluzione industriale ed ha ragione Maffi quando dice che leggere come si organizzavano gli scioperi allora è di insegnamento per l'oggi e soprattutto per il domani. Anche per noi Europei.

2 commenti:

  1. Mah, io degli USA conosco un po' solo lo stato delle Hawai'i, che suppongo sia un caso un po' particolare, rispetto agli altri 49 del Mainland.
    Posso dire che il problema della classe operaia laggiu' non c'e', semplicemente perche' non c'e' la classe operaia (o almeno non e' numericamente significativa).
    Quello che ho notato io degli americani e' una estrema apertura mentale. Tanto che andare la' a dire che sono "comunista" non li ha affatto scandalizzati, come mi aspettavo, ma ha fatto nascere interessanti discussioni in cui ci si confrontava apertamente con autocritica.
    L'altra cosa che ho notato, e che credo sia in parte causa di quella che ho appena detto, e' la mancanza di una Storia di radici comuni. Gli USA sono una Nazione per scelta patriottica, non per omogeneita' di popolo. Di conseguenza non c'e' una cultura nazionale, ma una accozzaglia in continua mediazione di culture adottate. E cosi', ad esempio, possono esserci cattolici a favore della pena di morte, o pacifisti con la pistola in tasca, comprata dal tabaccaio sotto casa.
    Nel bene e nel male.
    Contraddizioni che non riesco a capire. Per esempio ho chiacchierato con un tipo, cattolico praticante, che si lamentava della quantita' di energie spese per costruire una chiesa sovradimensionata per la comunita' locale, quando, a cento metri di distanza, sorgeva un centro commerciale almeno venti volte piu' grande e costoso, in cui spesso si rifugiava, non solo per fare shopping, ma anche per avere un po' di refrigerio dalla calura tropicale con l'aria condizionata del supermercato.

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    1. Grazie, Dario, per la tua interessante testimonianza. In effetti gli States sono un paese di contraddizioni. Forse è proprio questo che li rende affascinanti.

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