venerdì 31 maggio 2013

Perdere il treno dei gloriosi trent'anni

Andrea Fumagalli è un economista che fa parte della Rete San Precario e di Uninomade. Si tratta di movimenti di pensiero con proposte in controtendenza, alcune piuttosto affascinanti anche se mi sembrano un po' troppo utopiche.
Più concretamente mi è piaciuta molto la lezione di economia che Andrea Fumagalli ha tenuto all'ultimo Festival della Letteratura di Mantova. Già la sua premessa mi è sembrata stimolante: non è un caso che la scienza economica sia una disciplina che viene presentata come "tecnica", patrimonio di pochi, e non venga insegnata nelle scuole ma solo in alcune facoltà specifiche, per lo più come economia aziendale e non negli aspetti macroeconomici che riguardano invece la vita di tutti noi. Meno una disciplina è diffusa, afferma Fumagalli, più è facile il suo controllo e il controllo delle affermazioni che la riguardano. Se sui media si sente dire qualcosa da un "tecnico" siamo portati a pensare che sia una cosa oggettiva, non suscettibile di critica o di alternativa, soprattutto se certe affermazioni vengono presentate sotto l'alone dell'emergenzialità
Andrea Fumagalli è passato poi a spiegare in modo davvero chiaro (la lezione è riascoltabile sul sito del Festival) il concetto di "welfare keynesiano" o "welfare pubblico", affermatosi dal 1945 al 1975 (periodo che i Francesi chiamano "i trent'anni gloriosi") per rispondere ai limiti dell'economia del libero scambio o liberismo che non si è rivelato in grado di garantire un regime di piena occupazione, cioè di lavoro per tutti. In estrema sintesi, il welfare pubblico, che prevede l'intervento dello Stato (cioè un'entità fuori mercato) nell'economia privata soprattutto per quei beni e servizi considerati essenziali ma non remunerativi per il privato (sanità, giustizia, istruzione, elettricità, acqua, trasporto), era fortemente legato al sistema produttivo taylorista-fordista, affermatosi sempre negli stessi anni nei paesi occidentali dal capitalismo maturo: organizzazione del lavoro molto semplice e molto gerarchica finalizzata alla produzione di beni manifatturieri attraverso grandi aziende. Il sistema produttivo taylorista-fordista richiedeva una certa distribuzione del reddito dai ceti più ricchi a quelli più poveri, non per filantropia, bensì perchè all'imprese interessava produrre beni che fossero vendibili (onde trarne profitto) e quindi la produzione di massa doveva andare di pari passo con il consumo di massa.
Ma la cosa che mi ha colpito di più di quelle messe in evidenza da Andrea Fumagalli è che in Italia l'esplosione del debito pubblico, che ha reso insostenibile il welfare pubblico, sia dovuta in parte ad alcune riforme sociali degli anni Settanta che hanno comportato forti esborsi da parte dello Stato, ma anche e soprattutto a un sistema fiscale che Fumagalli definisce "non degno di un paese civile". Come già Luigi Einaudi scriveva nel 1945, un sistema fiscale moderno dovrebbe prevedere che tutti i redditi vengano tassati con lo stesso criterio indipendentemente dalla provenienza (lavoro, impresa, rendita, patrimonio, ecc.). Mentre in qualsiasi paese europeo questo principio è stato introdotto alla fine dell'Ottocento, in Italia ciò è stato fatto solo con la riforma Visentini del 1973! Proprio alla fine del miracolo economico giocandosi dal punto di vista dell'erario proprio gli anni di possibili maggiori entrate! Prima di allora ogni categoria e ogni professione, in base alla sua trattativa, aveva un trattamento diverso e che era anche oggetto di scambio politico. Ecco perché le entrate fiscali dello Stato italiano sono rimaste costanti (circa il 30%) in quel trentennio in cui potevano incrementare con la crescita economica (cioè con l'aumento del PIL che saliva del 5% l'anno). Secondo Andrea Fumagalli questo è accaduto solo in Italia e questa è la principale causa dell'enorme debito pubblico italiano.
Dagli anni Ottanta il welfare pubblico è entrato in crisi e sta diventando egemone un nuovo sistema importato dai paesi anglosassoni: il "workfare" o "welfare del lavoro", cioè si accede ai servizi sociali tramite la propria attività lavorativa mediata da intermediari il più delle volte privati (ad esempio farsi una pensione adeguata attraverso un fondo pensione). Peccato che il workfare non sia  universale, ma si basa sulla capacità tutta individuale di avere successo, un'idea tipicamente americana. Inoltre la garanzia di questi servizi è per lo più in mano ai mercati finanziari. 
Andrea Fumagalli e quelli della sua rete propongono in alternativa un  "common welfare" o "welfare del comune" di cui uno dei pilastri è reddito di base garantito per tutti. 
Non mi addentro su questa proposta che mi convince fino ad un certo punto. Mi basta la rabbia che lo Stato italiano abbia perso il treno dei trent'anni gloriosi.

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